E&M

2015/3

Marco Onado

Popolari: la lunga strada della riforma

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Nello scorso gennaio il governo è intervenuto in modo deciso e inusuale sul mondo delle banche popolari, con un decreto che impone a quelle con oltre 8 miliardi di euro di attivo totale di trasformarsi in società per azioni e dunque di abbandonare la loro originale struttura cooperativa, basata in primo luogo sul voto capitario, dunque sulla parità fra soci indipendentemente dal numero di azioni possedute. Viene ammainata così, almeno per le banche che si trovano oltre la soglia stabilita dal governo, una struttura societaria che affonda le sue radici nel solidarismo dell’Ottocento e nella tradizione cooperativa e che ha tante importanti applicazioni in Italia e in altri paesi europei.

Va riconosciuto che una misura così drastica è giustificata dalla riottosità dimostrata dalla categoria ad adottare forme di corporate governance adeguate all’ampliamento avvenuto nella loro base azionaria e, per le società quotate, alla realtà dei moderni mercati finanziari. Tanto che il problema non è affatto nuovo, ma era stato posto in modo esplicito fin dai tempi della riforma che ha modernizzato il nostro diritto del mercato finanziario, cioè il Testo Unico della Finanza del 1998. In quella sede si mise in evidenza che banche che si rivolgevano a un mercato sempre più globale non potevano pretendere di non dare voce adeguata ai nuovi soci, in particolare agli investitori istituzionali. Le proposte della Commissione Draghi vennero stralciate in attesa di una riforma per così dire “dal basso”, cioè promossa dalla stessa categoria, che in oltre quindici anni è riuscita a produrre solo il topolino di una (limitata) possibilità di deleghe. In questa situazione, lo scostamento fra le grandi popolari quotate e il principio one-share-one-vote era divenuto troppo macroscopico per essere accettato in linea di principio e soprattutto per garantire la possibilità di continuare a collocare gli aumenti di capitale che la crisi ha reso necessari. Per di più, in non pochi casi, il principio del voto capitario aveva favorito forme di arroccamento del management e dei gruppi di controllo e si è rivelato una delle cause fondamentali di scelte avventate (talvolta anche dolose) che si sono tradotte in pesanti perdite.

Un intervento dall’alto era dunque del tutto giustificato, anche se la forma del decreto (preceduto da inevitabili rumours, alcuni dei quali apparentemente meglio informati di altri) ha creato una turbativa di mercato che si sarebbe potuta evitare con un disegno di legge in forma di ultimatum.

Questa scelta è ormai alle nostre spalle e per di più offre scarso spazio agli emendamenti: le uniche correzioni probabili riguardano il limite al possesso azionario al 5% e (forse) un potenziamento del diritto di voto per investitori di lungo termine.

Dunque, oggi la domanda fondamentale riguarda cosa succederà alle dieci banche (sulle 70 totali della categoria) interessate dalla riforma. Il mercato punta decisamente sulla possibilità di avviare una nuova ondata di fusioni, come strada maestra per aumentare la redditività dell’attivo e dunque quella del capitale proprio, che la crisi ha portato al minimo storico. Anche perché le banche in questione sembrano offrire molto spazio alle riduzioni di costo: tutte le prime cinque hanno un cost-earning ratio (un classico indicatore di efficienza) del 65%, ben superiore alla media nazionale. Ma è proprio con riguardo alla capacità di usare la riforma per aumentare l’efficienza che si aprono le grandi sfide (e dunque anche i potenziali punti di criticità) per la nuova governance del settore. Per almeno tre motivi di fondo.

Primo. Sembra ormai certo che toccherà alle principali ex popolari farsi carico dei due grandi focolai di crisi del sistema bancario italiano: il Monte dei Paschi (risollevato dal nuovo management, ma forse incapace di vita autonoma) e Banca Carige. Come insegnano i generali, se si deve combattere su un fronte esterno, le battaglie sul fronte interno (leggi: la riduzione dei costi della “vecchia” banca) sono sempre più complicate e lunghe.

Secondo. Non è affatto vero che abbiamo “troppi banchieri”, come si è detto per giustificare il provvedimento. Come ha certificato un recente studio della massima autorità di vigilanza (European Systemic Risk Board) il sistema bancario europeo è troppo grande rispetto all’economia reale (334% del pil, cioè il doppio degli Stati Uniti), soprattutto perché sono cresciute a dismisura le maggiori banche, che si sono alla fine dimostrate troppo grandi non solo per fallire, ma anche per gestire adeguatamente i propri rischi.

È vero che il sistema bancario italiano è meno concentrato di quello degli altri grandi paesi europei e che nessuna delle due grandi banche ha commesso gli errori di tante consorelle, ma è altrettanto vero che ulteriori aumenti delle dimensioni nella fascia medio-alta devono essere realizzati in modo da non disperdere i valori del localismo, tanto più importanti in un paese come il nostro il cui tessuto produttivo è fatto di piccole e medie imprese che hanno come unica fonte di finanziamento la banca. Non a caso le banche popolari (nell’insieme della categoria) sono quelle che nella crisi hanno saputo aumentare il credito all’economia, a fronte di una drastica contrazione del flusso complessivo.

Terzo. Il modello cooperativo abbandonato non è di per sé peggiore di quello della società per azioni. Il che significa che non ci sono vantaggi automatici e che ci possono essere rischi in agguato. In altre parole, il brusco passaggio dal primo al secondo modello può indurre nella tentazione di adottare strategie magari molto redditizie nel breve, ma ricche di insidie nel medio e lungo termine. Nel Regno Unito, il processo di demutualisation che ha portato alla scomparsa delle building societies (l’equivalente delle nostre cooperative) ha visto molti istituti ottenere subito tassi di crescita annui (e redditività del capitale) a doppia cifra, ma accumulare tanti elementi di fragilità da essere travolti al primo stormire di crisi. È il caso di Northern Rock, HBOS (per la componente Halifax Bank) e Bradford&Bingley, solo per citare i casi che hanno causato i maggiori danni al contribuente britannico. Tutte queste banche sono state vittima di una visione miope dello shareholder value, che ha prodotto tanti danni al valore di lungo termine delle imprese in genere e delle banche in particolare quanto la resistenza al rinnovo manageriale favorita dal voto capitario.

Insomma, per il management delle dieci banche oggetto della riforma si aprono scenari molto interessanti ma tutt’altro che facili. Il primo obiettivo, come si è detto, riguarda il recupero della redditività di base, da ottenere soprattutto mediante economie di costo. Il sistema bancario italiano molto ha fatto dall’inizio della crisi riducendo il numero dei dipendenti del 10% circa e quello degli sportelli del 2,4, per adeguarlo non solo alla nuova realtà economica, ma anche alle nuove tecnologie. Ma rimane ancora tanta strada da fare: in Italia la penetrazione dell’online banking è del 22%, meno della metà della media europea e un terzo della Francia. E non a caso, secondo l’analisi di Prometeia, le economie di costo sono finora concentrate nella fascia dimensionale alta, cioè nelle prime due banche del nostro sistema. Tocca adesso alle popolari e sarà questo il test definitivo della bontà della riforma voluta dal governo: come dice il proverbio inglese, la prova del pudding è mangiarlo.

@lumsa.it