E&M

2006/5

Gianni Canova Severino Salvemini

Il manager sui tacchi a spillo

Nei panni dell’elegantissima direttrice della più autorevole rivista di moda americana, Meryl Streep dà vita a una strepitosa figura di manager in gonnella. E il film che la mette in scena, Il diavolo veste Prada di David Frankel, offre un interessante modello di organizzazione e di direzione in un’azienda caratterizzata da un alto livello di creatività intellettuale.

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Non è detto che il diavolo debba avere le corna e la coda, ed emanare odor di zolfo tra nuvole di fumo e fiamme. Può anche avere i capelli biondo platino e portare in giro su vertiginosi tacchi a spillo il suo look molto fashion e molto glamour. Così, almeno, si presenta il personaggio interpretato da Meryl Streep nel film di David Frankel Il diavolo veste Prada: temuta direttrice della più autorevole rivista di moda degli Stati Uniti (Runaway nella finzione del film, in realtà l’allusione abbastanza palese è a una testata storica e potente come Vogue America), Miranda Priestley – questo il nome del personaggio – governa assistenti e collaboratori con uno stile di direzione che oscilla fra il carisma e la tirannia. Non alza mai la voce. Mette fine alle discussioni sussurrando “È tutto…” con un fil di voce secco e tagliente come un colpo di fioretto. Basta una lieve increspatura del suo labbro superiore per far capire allo stilista di turno che la nuova collezione che sta esaminando le fa ribrezzo e orrore. Le assistenti che lavorano per lei, in genere, resistono poco. Miranda è esigente e intransigente: vuole il caffè sulla scrivania alle 6 del mattino, ordina che la si faccia rientrare immediatamente da Miami a New York mentre in cielo infuria un tifone e i voli di tutte le compagnie aeree sono sospesi, pretende addirittura che si trovi una copia del nuovo romanzo della saga di Harry Potter, da regalare alle sue due bimbe gemelle, prima ancora che il romanzo sia stato pubblicato. Sono prove di efficienza, di lealtà e di creatività organizzativa che la direttrice pretende da chi ambisce a lavorare con lei. Ma le ragazze, in genere, non ce la fanno. Tanto che Miranda decide di tentare un’altra strada e di assumere una nuova assistente che a prima vista non ha nulla a che vedere con gli ambienti fashion ed eleganti della rivista. Andy, interpretata da Anne Hathaway, è laureata in giornalismo, sogna di scrivere per una grande testata come il New Yorker o il New York Times, veste “orrendi” maglioncini acrilici comprati in un outlet e soprattutto indossa la taglia 42 in un mondo in cui basta la 38 per essere considerate grasse. Eppure Andy ce la fa: forse proprio perché portatrice di un punto di vista diverso ed estraneo a quel mondo, oltre che di un’etica del lavoro quasi calvinista, la nuova “Seconda Assistente” riesce a intercettare i bisogni e gli ordini di Miranda meglio di chiunque altra, in una vicenda che offre più di uno spunto di riflessione sui modelli di organizzazione e di relazione nelle aziende ad alta professionalità del mercato contemporaneo.

Ne discutono, come di consueto, Severino Salvemini e Gianni Canova.

S.S. La prima osservazione che mi viene da fare è che il clima di lavoro che il regista ha saputo creare nella redazione della rivista diretta da Miranda Priestley non è specifico solo dell’ambiente giornalistico, ma caratterizza oggi molti ambiti professionali, dalle società di consulenza alla pubblicità fino alle banche d’affari. Vi si ritrova quella frenesia del lavoro, ma anche quel culto dell’efficienza, dell’eccellenza e della perfezione che la direttrice di Runaway ha assunto come cifre caratterizzanti del suo profilo di leadership.

G.C. Quello che dici trova conferma in alcune interessanti dichiarazioni rese alla stampa da Meryl Streep. L’attrice nega infatti di essersi ispirata, nella costruzione del suo personaggio, alla figura di Anne Wintour, direttrice di Vogue America, e confessa di aver invece studiato con attenzione il comportamento, i gesti, le posture e i toni di voce di alcuni uomini potenti che le è capitato di conoscere, e di aver preso spunto da loro.

S.S. In effetti, la figura di Miranda sintetizza alla perfezione un certo stile di direzione autocratico, molto attento alla gerarchia degli status symbol, e orientato a praticare una sorta di selezione darwiniana dei collaboratori, che oggi è molto forte negli Stati Uniti, ma sempre di più anche da noi. La sua fedeltà alla mission è totale, così come l’identificazione con il suo prodotto (“Questa non è una rivista, è un faro di speranza…!”) e con la capacità di nobilitare il proprio comparto produttivo (“La moda è più grande dell’arte, se non altro perché ci vivi dentro”).

G.C. Non solo. Miranda riflette teoricamente sul senso del proprio lavoro (“La moda non ha nulla a che fare con la necessità”) e sugli effetti sociali dei prodotti che vengono presentati e pubblicizzati sulla sua rivista. Quando l’ingenua Andy dice che due cinture cerulee le sembrano uguali, Miranda esplode in una vera e propria lezione sulla filiera della moda, illustrandole tutto il processo, dall’ideazione del concept fino alla distribuzione nell’outlet, e spiegandole che nessuno alla fine è immune dai condizionamenti della moda. E quei due minuti irresistibili sono da Pulitzer del marketing e dell’economia industriale, se esistesse…

S.S. Certo, Miranda spiega alla ragazza che il suo maglioncino acrilico acquistato allo shopping mall di un grande magazzino in realtà ha un colore ceruleo che è stato deciso sulle pagine di una rivista come quella che lei dirige, le fa notare che blu, turchese, lapis e ceruleo non sono lo stesso colore, e le dimostra come quell’azzurro finito sul suo maglioncino da pochi dollari sia il risultato di campagne da milioni di dollari.

G.C. Come spieghi, però, dal punto di vista dell’organizzazione, che una direttrice come questa scelga come assistente una ragazza così poco sintonizzata con i valori dell’azienda e con quelli del mondo che ruota attorno alla rivista e che in essa riconosce?

S.S. Questa scelta non mi stupisce affatto, anzi. Miranda fa della caccia alla novità e alla diversità il punto di forza di Runaway, e ai suoi occhi Andy rappresenta la novità assoluta. La sceglie proprio per questo, facendo leva, tra l’altro, sulla certezza che quel mondo finirà prima o poi per ammaliare e contagiare anche il “brutto anatroccolo” appena assunto. Una novizia che non riconosce neppure Gabbana al telefono e gli chiede con quante “b” si scriva il suo cognome…

G.C. Andy in effetti si omologa abbastanza in fretta. Impara a vestirsi solo con abiti firmati, non mostra nessuna solidarietà con le colleghe che sono sul suo stesso piano gerarchico e paga lo stress del lavoro con la rovina della sua vita privata. Come le dice cinicamente l’art director interpretato da Stanley Tucci: “Quando la tua vita privata va in pezzi, vuol dire che sei pronta per una promozione”.

S.S. Mi rendo conto, certo, che può sembrare uno stereotipo, o un luogo comune, ma nella realtà molti executive del livello di Miranda hanno una vita privata terremotata, e trovano nel lavoro l’unico canone di sopravvivenza. È la sublimazione della motivazione; quando non hai più altro cui attaccarti. Miranda, non a caso, non esce mai dalla sua parte. E anche nell’unica scena in cui appare senza trucco e indifesa, quasi desiderosa di confidarsi con Andy perché il suo legame coniugale si è bruscamente interrotto, in realtà fa subito marcia indietro, riprende le distanze e si fa scudo del lavoro come guscio protettivo. E ricordiamoci, ciò che si vede non è solo Manhattan e non è solo il clima del settore della moda…

G.C. In questo il cinema americano ha ancora molto da insegnare a tutti: con la leggerezza di una commedia alla George Cukor o alla Stanley Donen, continua a raccontarci in modo impagabile come cambiano il mondo del lavoro e le diverse professioni, e come questi cambiamenti agiscono sulla vita delle persone.