E&M

2006/5

Sono loro l’anello debole del sistema calcio: i poveri tifosi. Per fortuna non le vengono a sapere tutte. Regalo una chicca ai miei amici atalantini, in festa per il ritorno in serie A. Correva il maggio 1973. In curva, mi apprestavo a festeggiare la salvezza dell’Atalanta, che giocava l’ultima partita, in casa contro il Vicenza. A condizione che una squadra genovese non andasse a vincere a Torino. Invece, negli ultimi minuti, la Sampdoria vinse e l’Atalanta perse. Per noi fu la retrocessione.

Che sfortuna, ci dicemmo allora. Anni dopo, in occasione di un corso per manager sportivi a Coverciano, avevo individuato, grazie a una classe impagabile per fantasia, quarantatré interlocutori con cui una società calcistica deve fare i conti. Cito, per esempio, la stampa, la Federazione, la Lega, la televisione, gli arbitri, le banche, il pubblico, i procuratori, le radio locali, gli sponsor, i segnalinee, il ministro per lo sport, le case farmaceutiche, la mafia, i giudici, il governo. Mi fermo, per non tagliare tutta l’erba sotto i piedi del Commissario e Soci che vestono, con l’entusiasmo dei neofiti, i panni di salvatori della patria. In occasione dell’esame scritto finale, per impedire che copiassero, tramite estrazione abbinai ad ogni partecipante uno dei quarantatré interlocutori, chiedendo di illustrarlo al meglio. Anticipando un costume che proprio in quella sede avrebbe conosciuto momenti di fulgore, truccai il sorteggio per attribuire ai più bravi i temi più difficili, dando così una mano a chi era in difficoltà. Per arrivare almeno alla seconda pagina, molti candidati, a corto di argomenti di natura tecnica, si affidarono ai loro ricordi personali. A mano a mano che leggevo i temi d’esame mi veniva a mancare il fiato. Per esempio, venni a sapere come, nel fatidico maggio 1973, retrocesse la mia Atalanta. La partita contro il Torino era stata comprata dalla Sampdoria. A scanso di equivoci bruciai tutti gli elaborati, perché non ne rimanesse traccia. Italo Allodi, il direttore del corso, autorizzò il falò, sia detto a suo onore, senza leggerli. Per evitare discussioni pericolose feci omaggio a tutti del massimo voto disponibile. Si credettero dei geni e, a loro modo, lo erano. In questi giorni una signora è venuta a consultarmi, quasi fossi l’oracolo di Delfi. Mi confidava: “Mio padre è juventino da sempre. È completamente sconvolto. Non riesce a darsi pace. Legge i giornali e gli sembra che la sua vita di tifoso stia evaporando. Che cosa posso dirgli per consolarlo?”. “Immagini di andare dal dietologo: è il momento di dimagrire. Succede ovunque, non solo nello sport.” Operazione dolorosa, specie per chi ricorda una frase di Mario Soldati, scrittore che non ha mai taciuto la sua fede bianconera. Parlando della Roma degli anni trenta, scriveva testualmente: “La Juventus era una cosa seria; era, forse, ormai, la sola cosa seria della vita, visto che alla politica non si poteva più pensare, e pareva che non ci fosse speranza che il fascismo finisse”. Il fascismo forse è finito, ma anche la Juventus sembra uscirne malconcia.

I tifosi juventini devono oramai procedere a un’elementare segmentazione: separare chi sarebbe disposto a seguire la squadra anche in serie B dai carrieristi che, ambiziosi di stravincere, avevano assimilato tutta l’arroganza dei loro dirigenti. Tutto rinasce, almeno in parte, dopo un poco di tempo. Ovunque: nel calcio, nelle banche, nella giustizia. Dai tempi di Adamo ed Eva. Aveva ragione il Petrarca, quando parlava degli avvocati: “Certi mestieri non si deve farli disonestamente, ma onestamente non si può”.