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La tattica come maschera della strategia
Scarica articolo in PDFOgni maledetta domenica
Regia: Oliver Stone
Interpreti: Al Pacino, Cameron Diaz, Dennis Quaid, James Woods
USA, 1999
“Il football americano è una guerra. la squadra è un plotone, una compagnia, una divisione... Comunque, è una metafora.” Queste parole di Oliver Stone rendono meglio di qualunque altra descrizione il senso di un film come Ogni maledetta domenica: una parabola sullo sport filmata con rabbia e con furore, quasi a ritrovare nella competizione agonistica l'anima stessa della nazione americana.
Non è la prima volta che il football americano viene raccontato al cinema in chiave metaforica: l'avevano già fatto, con accenti diversi, registi come Robert Aldrich (Quella sporca ultima meta, 1974) e Ted Kotcheff (I mastini di Dallas, 1979). Ma nessuno ne aveva mai fatto un coacervo di conflitti esplosivi come nel film di Oliver Stone: un vecchio allenatore in crisi (Al Pacino) in contrasto con la giovane e spregiudicata presidentessa della sua società (Cameron Diaz), più interessata al business e al profitto che agli antichi valori dello sport; un campione bianco infortunato e sul viale del tramonto (Dennis Quaid) in conflitto con un giovane emergente di colore (Jamie Foxx) che impone alla squadra uno stile di gioco molto più individualista. E poi: corpi maschili fasciati in tute aderenti imbottite, botte da orbi, colpi bassi, ossa che scricchiolano e muscoli che si strappano.
Stone, insomma, filma lo sport con lo stesso sguardo furente con cui aveva filmato la guerra del Vietnam in Platoon (1986) o la guerra delle azioni in borsa in Wall Street (1987). Prende le immagini e le fa deflagrare. Ma nello spettacolo pirotecnico dei suoi frenetici match ha modo di inserire anche qualche riflessione non banale sulla problematica non solo sportiva della tattica e della strategia. È significativo innanzitutto che il contrasto tattico fra l'allenatore e la proprietà si manifesti solo nei momenti di crisi e venga invece immediatamente congelato non appena qualche risultato positivo sembra riavvicinare la squadra ai play-off. Vecchio vizio, dello sport come del management: la gestione tattica vista e vissuta sempre e soltanto in maniera emergenziale, il cambiamento preso in considerazione solo quando le condizioni oggettive lo impongono in maniera improcrastinabile. Insomma: è il vecchio gioco che consiste nel cercare di compensare con l'iperattivismo tattico l'apparente insufficienza della propria elaborazione strategica. In realtà, tanto la proprietaria dei Miami Sharks quanto il coach di Al Pacino si muovono secondo una precisa strategia: lei vuole ottimizzare il valore economico della squadra per venderla al meglio, lui vuoI far crescere le sue quotazioni di mercato come allenatore. Per questo lei vorrebbe risultati immediati, mentre lui prende tempo e lavora per dimostrare al mondo la sua capacità di intervenire efficacemente sulla coesione psicologica del gruppo . .cappello “etico” al bene della squadra è per entrambi un bluff: tanto che alla fine lei non vende un “bene” che si è enormemente valorizzato, mentre lui butta alle ortiche la maschera dell'idealismo e annuncia al mondo che andrà ad allenare una squadra avversaria, portandosi dietro il giovane talento opportunamente svezzato.
Tra le pieghe del film sportivo, Oliver Stone ripropone insomma una vecchia ma attualissima questione: la tattica è il linguaggio dicibile di un progetto strategico che per sua natura è condannato a non poter essere detto né svelato e che non può che agire sempre e solo come “sottotesto”, nel regime della dissimulazione e del segreto.