E&M

2000/2

Gianni Canova

Il marketing della strega. Pretesto e contesto contano molto più del prodotto

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The Blair Witch Project

Regia: Daniel Myrick e Eduardo Sanchez

Interpreti: Heather Donahue, Michael Williams e Joshua Leonard>

USA, 1999

Con 35.000 dollari di costo e oltre 250 milioni di dollari di incasso a fine dicembre solo sul mercato americano. Più di settemila volte l’investimento iniziale: un record assoluto, non solo nella storia del cinema... Non c’è che dire: più che un semplice film, The Blair Witch Project è un vero e proprio “caso”. Per la geniale operazione di marketing che l’ha generato. Per lo sberleffo inflitto da una piccolissima casa di produzione al gigantismo neofaraonico dei colossi hollywoodiani. Per la funzione decisiva che Internet ha avuto nel generare una vera e propria attesa – a volte perfino m’i’isteria collettiva – attorno al film (il cui website ha toccato punte di tre milioni di visitatori al giorno). E per l’abilità con cui i realizzatori hanno confezionato un prodotto in cui il pretesto e il contesto contano, di fatto, molto più del testo. In cui il packaging prende il posto della merce. E in cui il marketing si rivela l’elemento determinante del management e della sua strategia. Il caso è interessante e suggerisce alcune considerazioni di respiro più ampio sul funzionamento dei meccanismi di produzione e consumo di merci nella cosiddetta “società dell’immateriale”. Innanzitutto: i realizzatori del film barano. Lanciano su Internet la notizia (poi rivelatasi falsa) del ritrovamento in un bosco del Maryland di alcuni nastri videoregistrati da tre studenti misteriosamente scomparsi un anno prima mentre cercavano di realizzare un documentario sulla leggenda di una strega locale. Quei nastri – si mormora nel tamtam della Rete – verranno rimontati in modo da dar forma al film che sta per essere distribuito col titolo, appunto, di The Blair Witch Project. La curiosità scatta immediata, l’attesa si rivela da subito contagiosa. Ma poco dopo il falso scoop del ritrovamento viene smentito: non è vero niente, The Blair Witch Project è un normale film di finzione realizzato a basso budget da due studenti dell’Università della Florida che hanno utilizzato le tecniche del cinema-verità per rendere più credibile la loro messinscena (gli attori lasciati soli nel bosco, senza mappe e senza viveri, obbligati a filmare il loro reciproco disorientamento e la loro crescente paura). L’attesa aumenta, inevitabilmente. Ma quando alla fine il film esce nelle sale lo sconcerto è palese: sullo schermo non si vede nulla di terrificante. Le scene più inquietanti, anzi, sono quelle a schermo nero, con le voci dei protagonisti che urlano e rantolano per un terrore la cui causa non ci viene mai mostrata. Come dire: invece di mostrare l’invisibile, The Blair Witch Project azzera la visibilità del terrificante e demanda al fuoricampo – a ciò che non si vede – il compito di scatenare la paura. Invece di lanciare sul mercato una nuova merce, stuzzica le fantasticherie del pubblico e poi lascia a quest’ultimo il compito di appagare le proprie aspettative, in una sorta di virtuoso fai-da-te che garantisce, appunto, un’altissima redditività. Il tutto realizzato sfruttando al massimo le potenzialità fantasmatiche di Internet e la facilità con cui la Rete si presta a diffondere leggende e mitologie. Proprio lì, nel non-luogo dell’invisibile, il cinema ha subìto con The Blai r Witeh Projeet una mutazione davvero epocale: l’ingresso in una dimensione in cui l’assenza di immagini diventa, paradossalmente, la sua qualità più preziosa, La sua “merce” più ricercata, la più vendibile e venduta.