E&M

1997/1

Gianni Canova

Il bello del doppio: la moltiplicazione dell'io come metafora della flessibilità

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Luna e l’altra

Regia: Maurizio Nichetti

Int.: Maurizio Nichetti e Iaia Forte

Italia, 1996

Mi sdoppio in quattro (Multiplicity)

Regia: Harold Ramis

Int.: Michael Keaton e Andie MacDowell

Usa, 1996

C’era una volta l’io. Solido, orgoglioso, sicuro di sé, affrontava il mondo con la spavalderia di chi non si pone problemi di identità. Poi sono arrivati Freud, Pirandello e i loro amici e anche l’unità dell’io è andata in frantumi. Tanto che da allora il cinema, la letteratura e le altre arti si sono sentiti spesso in dovere di provare a rimetterne assieme i cocci. Ora però alcuni film recenti, molto diversi per gusto e per stile, ripropongono l’annosa questione dello sdoppiamento della personalità in una prospettiva del tutto nuova e di grande interesse.

Luna e l’altra di Maurizio Nichetti lo fa, ad esempio, a partire dal tema dell’ombra. Luna (Iaia Forte), maestrina napoletana emigrata col padre a Milano negli anni Cinquanta, vede la sua ombra staccarsi da lei, assumere vita autonoma e diventare letteralmente un’altra persona. Da una donna se ne generano due: Luna è severa, rigida, composta, l’altra è solare, libera, gioiosa. L’altra, soprattutto, fa quel che Luna non avrebbe mai fatto, tanto che anche Luna si lascia contagiare dal suo comportamento, scopre di aver vissuto fino a quel momento un’esistenza “mutilata” e si rende conto che il “trauma” subito le consente – attraverso l’accostamento delle sue due personalità – un’esistenza più ricca, completa e felice.

Un tema analogo si ritrova anche nel funambolico Mi sdoppio in quattro di Harold Ramis, già apprezzato giocoliere della ripetizione e del paradosso in Ricomincio da capo (1993). Qui, alle prese con una commedia brillante di esilarante efficacia, Ramis immagina che Michael Keaton, capomastro losangelino travolto dal lavoro e sempre a corto di tempo per poter svolgere le sue molteplici attività, accetti di farsi clonare da uno scienziato esperto in biogenetica. Nasce così Due, copia perfetta del nostro protagonista, delegato a svolgere tutte le sue mansioni lavorative. Ma il tempo non è ancora sufficiente e così Keaton fa nascere un terzo clone a cui affida il compito di sbrigare tutti i suoi impegni domestici. Nel frattempo Due, anch’egli subissato dagli appuntamenti e dalle scadenze, fa nascere a sua volta un proprio clone, che assomiglia a Uno, ma è un poco “ritardato”. A questo punto il personaggio di Michael Keaton deve convivere con tre alter ego: Due è un macho tutto dedito al lavoro. Tre è un perfetto casalingo che libera la componente “femminile” della personalità del protagonista, Quattro ha il cervello di un bambino di sei anni nel corpo di un uomo di quaranta, di cui recupera tutta la componente “infantile”.

Sgradevole, inquietante? Tutt’altro: anche in questo caso lo sdoppiamento e la molteplicità sono vissuti con allegria e producono effetti indiscutibilmente benefici. Un po’come accade anche in Il professore è matto di Tom Shadyac, dove Eddie Murphy si moltiplica addirittura per sette in un film che fa il verso a un classico dell’umorismo di Jerry Lewis come Le folli notti del dottor Jerryll.

La tendenza segnala un sintomo interessante non solo per il cinema, ma anche – più in generale – per la società e per le professioni. Proviamo a formularla così: l’io non si basta più. Sente l’insufficienza della propria singolarità, l’inadeguatezza del proprio voler continuare ad essere “Uno” Subisce il polimorfismo al contempo come condanna e come attrazione. Il cinema, certo, è congenitamente legato alla produzione di “doppi” (tanto che uno studioso come André Bazin lo collega a quel “complesso della mummia” e a quell’ossessione riproduttiva con cui l’umanità ha da sempre cercato di vincere il tempo e di conservare in qualche modo ciò che è destinato a perire). Ma nel cinema classico lo sdoppiamento (modulato per lo più sull’archetipo stevensoniano del dottor Jekyll e di mister Hyde) era visto e vissuto con inquietudine e turbamento, svelava all’io il lato in ombra di sé, apriva ferite e scissioni non sanabili in un’identità (sociale, oltre che personale) che aspirava comunque alla compattezza e alla padronanza di sé.

Oggi le cose stanno cambiando. Da un lato – come suggeriscono all’unisono i film citati – lo sdoppiamento è vissuto come valore aggiunto piuttosto che come perdita, l’”io” scopre di avere un “noi” dentro di sé, e lo esterna con gioia ed allegria. Dall’altro, forse, è la stessa trasformazione dell’organismo sociale economico e produttivo a sollecitare o addirittura a esigere dal singolo individuo una pluralità di prestazioni e di ruoli (professionali, sociali, affettivi, linguistici, emozionali) che fanno della “schizofrenia” non una sindrome patologica, ma la condizione fisiologica della quotidianità relazionale.

La duttilità, la flessibilità e la polivalenza richieste al manager o all’imprenditore dalla complessità del mercato, delle relazioni sociali e della stessa organizzazione del lavoro si configurano davvero come una necessaria e tendenziale “moltiplicazione” delle personalità che convivono nel singolo soggetto.

Il cinema (certo cinema) capta con tempismo la tendenza e subito la rappresenta sugli schermi, magari esorcizzando con le armi della commedia la carica di potenziale sconcerto che la pratica sociale del dover convivere con tanti “sosia” porta inevitabilmente con sé. Così, per un Francis Ford Coppola che fa di Jack (un altro ragazzino in un corpo da quarantenne) il “doppio” rovesciato (perché privo di tempo) di quel Dracula che aveva narrato qualche anno fa, e che scontava l’immortalità come condanna ad avere sempre troppo tempo a disposizione, gli altri cineasti citati proiettano sulla scena codificata della gag comica la vertigine di un io che sì trova a dover gestire simultaneamente più immagini di sé.

Mister Hvde va davvero in soffitta e l’io diventa plurale.