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2005/6
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Il magnate delle leccornie
Tra caramelle, lecca lecca e dolciumi a volontà, il nuovo film di Tim Burton La fabbrica di cioccolato traccia un’estrosa e bizzarra rilettura delle trasformazioni che la fabbrica ha subito nel corso del Novecento, anche in un comparto produttivamente e tecnologicamente conservatore come quello dolciario.
Il magnate delle leccornie
La fabbrica di cioccolato
Regia Tim Burton
Interpreti Johnny Depp, Helena Bonham Carter
USA, 2005
Anche se ha i toni e i colori di una fiaba per bambini, l’ultimo film di Tim Burton – La fabbrica di cioccolato, tratto dal bestseller di Roald Dahl Willy Wonka e la fabbrica di cioccolato (1964) – è una sorta di bizzarro ritratto di un magnate delle leccornie. Il protagonista Willy Wonka (interpretato da un Johnny Depp cereo e gommoso più che mai) ha costruito in una città dai tratti marcatamente ottocenteschi e dickensiani una fabbrica che produce dolciumi: cioccolato, soprattutto, ma poi anche canditi, caramelle, lecca lecca, marzapane. L’ha fatto per sfuggire all’infanzia triste e dolente cui l’aveva costretto il padre dentista (che gli proibiva i dolci per timore della carie…) e per creare un luogo capace di risarcire i bambini di tutto il mondo di tutte le amarezze cui sono condannati: una sorta di Disneyland di cacao e di zucchero filato, o un paese dei balocchi al glucosio, dove i lecca lecca e i chewingum non esauriscono mai il loro sapore, e dove il cioccolato è una festa sia per gli occhi sia per il palato.
Figlio ribelle al volere e all’autorità del padre, da adulto Willy scopre però di non avere figli ai quali lasciare in eredità la sua fabbrica e il suo impero dolciario. Per questo nasconde cinque biglietti d’oro in altrettante tavolette di cioccolato e annuncia che aprirà i cancelli della sua fabbrica – chiusa da decenni a qualunque estraneo e inaccessibile quanto il Castello di Kafka – ai cinque fortunati bambini che troveranno il biglietto d’oro. Fra di loro Wonka sceglierà il suo successore: lascerà la sua fabbrica e tutti i suoi segreti al bimbo che meglio saprà resistere alla visione fantasmagorica delle leccornie, a quello che meglio saprà reggere lo shock dell’esposizione abbagliante al paradiso della tentazione. Vincerà il piccolo Charlie, povero ed emarginato, figlio di un operaio disoccupato che lavorava alla fabbrica di tappi di dentifricio: sarà lui a far ritrovare a Wonka il calore di una famiglia e a rinnovare con la sua consulenza creativa l’estro inventivo del magnate del cioccolato. Gli altri quattro bambini partecipanti al concorso – mocciosi viziati, golosi e incapaci di avere con i dolciumi altro rapporto che non sia quello del possesso e del consumo immediato – si autoeliminano l’un l’altro per eccesso di desiderio, secondo la classica legge del contrappasso (il ghiottone tirolese cade nel cioccolato fuso, la ragazzina superba viene gettata tra i rifiuti dagli scoiattoli rompinoci, il piccolo teledipendente finisce rimpicciolito in un televisore in cui gli scimmioni kubrickiani di 2001: Odissea nello spazio attendono il loro monolite di cioccolata). Charlie, invece, abituato a temperare i suoi desideri con la povertà dignitosa di una famiglia che si nutre tutti i giorni solo di zuppa di cavoli, attraversa indenne tutte le tentazioni della fabbrica di cioccolato, e alla fine è proprio lui a suggerire a Wonka nuove fantasmagoriche invenzioni dolciarie. Sia pure in chiave metaforica (o, forse, proprio con la forza e la lungimiranza tipiche di ogni buona prospettiva metaforica), il film di Tim Burton mette a fuoco alcuni temi centrali nel dibattito attuale sull’organizzazione aziendale. Ne discutono, come di consueto, Severino Salvemini e Gianni Canova.
G.C. Comincerei con il tema attualissimo della successione. Qui siamo di fronte a un figlio che rifiuta di seguire la professione intrapresa dal padre, e che tuttavia vuole dimostrare al padre la sua competenza e la sua abilità in un settore “merceologico” diverso da quello genitoriale. Quasi un classico in molte “dinastie” imprenditoriali, o in molte famiglie di professionisti…
S.S. Non c’è dubbio. Per restare nel comparto dolciario e alimentare, mi pare si possa ricordare, per esempio, sul mercato americano, il caso di Ben & Jerry: figli di imprenditori manifatturieri, rifiutano entrambi di seguire le facili orme paterne e provano ad applicare la loro intraprendenza e creatività con la produzione di un gelato per molti versi innovativo. Non solo: decidono anche che tutti i profitti vengano reinvestiti in attività sociali. Questo è il loro modo di prendere le distanze dal genitore, di costituirsi come “diversi” da lui…
G.C. Il tema della successione, però, è ripreso e sviluppato anche dal concorso con cui Willy Wonka cerca di scegliersi un erede. Mi ha colpito l’idea che si possa procedere anche in questo modo. Chissà se qualche azienda ci ha mai provato…
S.S. Chissà. In fondo è il classico meccanismo narrativo delle fiabe. Di fatto, Wonka sceglie come successore il bimbo che gli piace di più non in termini di competenza ma di valore. Agli occhi del protagonista del film, il successore ideale non è colui che tecnicamente sa tenere le briglie dell’azienda, bensì colui che risulta più prossimo alla cultura e alla sensibilità del fondatore dell’azienda stessa. L’idea di scegliere il successore più per affinità elettive che per competenze professionali, del resto, è più diffusa di quanto si creda, soprattutto in certe imprese familiari con rivoli e rivoli di figli e di nipoti.
G.C. Nel film, Wonka a un certo punto decide di chiudere la fabbrica e di renderla impenetrabile a sguardi indiscreti come reazione alla scoperta che alcuni suoi dipendenti praticano lo spionaggio industriale e vendono le sue ricette più riuscite alla concorrenza.
S.S. È un problema, quello dello spionaggio industriale, che nella realtà si genera quando le “risorse umane” si sentono trattate come cloni meccanici, quando mancano di un forte senso di appartenenza e di identificazione con l’azienda, e quindi si sentono nel lecito quando scelgono di rivendere ad altri i segreti aziendali.
G.C. In effetti, nel primo film tratto dal romanzo di Dahl, Willie Wonka e la fabbrica di cioccolato (1971) di Mel Stuart, con Gene Wilder nei panni del signor Wonka, il magnate del cioccolato licenziava tutti gli operai ma manteneva intatta la produzione, a porte chiuse, grazie a dei pigmei scovati nella giungla che garantivano disciplina massima, nessun trafugamento di segreti e profitti a costo zero. Anche nella fabbrica del film di Tim Burton ci sono gli Umpa Lumpa: omini miniaturizzati che fanno funzionare la catena di montaggio, ma si esibiscono anche nei balletti e nelle coreografie, perfetto emblema dell’operaio-massa nella fabbrica-spettacolo. Sono migliaia, tutti uguali, e sono interpretati tutti dallo stesso attore, Deep Roy, moltiplicato all’infinito grazie ai trucchi del digitale. La fabbrica passa cioè dalla struttura “coloniale” che aveva ancora nel film del 1971 alla struttura digitale che assume nel film di Burton.
S.S. È vero, ma devo anche dire che, nonostante la forza e l’eleganza visionaria che Burton e i suoi scenografi sanno conferire alla loro fabbrica, di fatto non sfuggono neanche loro allo stereotipo fordista del lavoro meccanizzato e disumanizzante. Anche se è vero che proprio nel comparto dolciario spesso l’organizzazione del lavoro è ancora quella fordista – gli ovetti Kinder o i Buondì si producono ancora oggi alla catena di montaggio – il cinema stenta a mettere in scena nuove forme di organizzazione del lavoro, più consone alla realtà e alle dinamiche produttive del mondo contemporaneo. Di fronte agli schermi del cinema, a volte sembra di essere ancora all’epoca di Tempi moderni (1936) di Charlie Chaplin.
G.C. Con la differenza che gli addetti alla produzione sono diventati simulazioni digitali, sostituibili, fungibili e indistinguibili l’una dall’altra.
S.S. Certo. E forse è proprio per questo che alla fine Willy sceglie come erede il piccolo Charlie: perché attraverso di lui ritrova l’unità e la forza di una famiglia in cui la lealtà e la fedeltà sono il collante più forte. Divenuto imprenditore per rifiutare una famiglia e una cultura in cui non si riconosceva, alla fine Willy riscopre la dolcezza di quella famiglia che aveva cercato di rimuovere e di cancellare con l’invenzione della sua fabbrica.