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2005/6
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La tribuna dei lettori
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Doing business in China
Cina o sudest asiatico? Storia della delocalizzazione produttiva italiana
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Misurare la competitività dei sistemi paese: il modello del World Economic Forum
Quella che avrebbe dovuto essere una storia di concentrazione bancaria
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Riportatemi in miniera
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“Mi parli dell’attacco al leader.” È la domanda d’esame che prediligo, semplice e perversa. Lo studente non ha mai la freddezza di cercare un parallelismo con lo sport. Si apprende per analogia, ma non in quel momento di disagio. E invece basterebbe ripercorrere la storia dei giochi olimpici, quando si vive in diretta l’esplosione improvvisa di un nuovo talento. Il leader evapora per ricambio generazionale. Lo scopri in un attimo, quando oramai, in modo irreparabile, l’emergente inatteso ha occupato il tuo posto.
A volte l’attacco al leader è una sfida aperta, all’ultimo sangue. Ricordiamo ancora quando Michael Schumacher attaccò nientemeno che Ayrton Senna, che gli rimproverava alcune mosse azzardate e scorrette, mai scomparse del tutto. Adesso un giovanissimo spagnolo, contro ogni pronostico, ha messo il tedesco alle corde. E tutta la Ferrari non si ritrova più. Un tonfo epocale.
Quando il leader si crede invincibile incontra sulla sua strada un castigamatti che lo richiama all’ordine. L’Atalanta è famosa per battere i campioni. Il grande Torino, quello che scomparve tragicamente sul colle di Superga e che vinse cinque scudetti di seguito, perse per 3 a 2 l’ultima partita giocata a Bergamo. C’ero. E l’Inter, il suo famoso quasi-scudetto non evaporò nel caldo pomeriggio di un 5 maggio romano, ma quattro settimane prima, quando l’Atalanta venne a San Siro e la sconfisse. C’ero. Per non tacere del Milan, che a Verona ha lasciato due scudetti. Per fortuna non c’ero. Quando i milanisti scendono al Bentegodi, il coro dei veronesi è all’acido nitrico: “Rossoneri? Quanti scudetti avete? Due in meno”.
In mancanza d’altro, lo sport tenta talvolta la via dell’astuzia. Durante le Tre Valli Varesine del 1970 Gianni Motta e Eddy Mercks erano in fuga. A un certo punto Eddy fora. Gianni coglie l’occasione per spingere a più non posso sui pedali ma, dopo pochi chilometri, viene raggiunto. “Avevo rallentato” sussurra sornione Gianni. Passano alcuni minuti. “Eddy, io ti ho aspettato, ma tu devi farmi un favore. Questa è la mia terra. Stiamo correndo proprio dove i tifosi impazziscono per me. Non posso deluderli. Non staccarmi, per favore. Non umiliarmi. Tanto, la corsa la vinci tu di sicuro. Che cosa ti costa lasciarmi alla tua ruota sino alla fine? A te nulla, ma per me è importante.” Eddy, convinto e commosso, non tentò mai di scrollarselo di dosso. Gianni lo seguiva come un agnellino che si era messo sotto l’ala protettrice dell’invincibile. Un quadretto quasi patetico. Ma giunti in dirittura d’arrivo, “mentre il belga, tranquillo – mi raccontava Gianni – senza impegnarsi più di tanto, si apprestava a tagliare da vincitore il traguardo, convinto di avermi sempre remissivo alle spalle, gli ultimi duecento metri parto a tutta velocità e taglio il traguardo prima di lui. Successe un putiferio. Non fu neppure possibile procedere alla premiazione perché Eddy mi inseguiva in bicicletta per picchiarmi di brutto. Facemmo per tre volte il giro dell’isolato prima che mi perdesse di vista”. E concludeva: “Quando ci vuole, ci vuole”.
A volte i colossi sono inattaccabili. E arroganti, specie quando abusano del potere. “Ma non è sconfitto – diceva Francesco Petrarca – se non chi si considera tale.” C’è un’ultima arma vincente: la dignità. Non è solo lo sport a conoscerla. Dionisio il tiranno condannò ai lavori forzati il poeta Filosseno che aveva criticato i suoi versi. Poi si pentì, lo richiamò e offrì un grande banchetto in suo onore, al termine del quale lesse alcune nuove poesie e invitò Filosseno a giudicarle. Il poeta si alzò e, facendo un cenno alle guardie, disse: “Riportatemi in miniera”.