E&M

2005/6

Giuseppe Soda

Se la cattiva finanza affonda il capitale umano

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Antefatto

Nelle ricette che i manager, gli imprenditori e la politica propongono per fronteggiare il tema della declinante competitività, quasi mai è assente il richiamo alla necessità di investire nel capitale umano. Le argomentazioni utilizzate, più o meno sofisticate, sono davvero difficili da controbattere. La tesi principale è che nella competizione fondata sempre più sulla velocità di accumulazione delle conoscenze, sull’innovazione e sugli elementi intangibili, le persone possono fare la differenza. Creatività, conoscenze, competenze, motivazione e coinvolgimento delle persone sono elementi centrali nei processi di innovazione e di sviluppo delle imprese, uniche strade realmente percorribili per conservare posizioni di leadership nei settori ad alto valore aggiunto e nella competizione globalizzata.

Di là dalle intenzioni, la realtà sembra essere diversa. Infatti, le azioni sul capitale umano non hanno trovato, nella politica economica come nelle strategie aziendali, risposte coerenti con l’ipotizzata centralità, assumendo un ruolo secondario se non, in taluni casi, addirittura marginale. Certo il tema abbonda di retorica, ma è evidente una distanza anomala tra pensiero e azione. Di conseguenza, si è spesso richiamata, anche su questa rivista, la necessità di passare dalle buone intenzioni ai fatti, trasformando l’idea della centralità del capitale umano in decisioni, piani e azioni concrete, sia a livello d’impresa sia a livello di sistema economico. Purtroppo per alcuni, o per fortuna per altri, lo slogan “putting people first” resta in gran parte tale, e di buone intenzioni è lastricata la via che porta all’inferno.

Tra le molte argomentazioni che possono contribuire a spiegare questa contraddizione, ve n’è una che appare più critica e centrale delle altre e riguarda la relazione conflittuale tra le logiche di analisi e decisione della finanza, o di una parte di essa, con la natura degli investimenti nel capitale umano. Finanza e management del capitale umano restano due mondi distanti e sovente in conflitto su molti aspetti. Tra questi, taluni appaiono particolarmente critici: i valori di fondo, i modelli causa-effetto di generazione dei risultati aziendali, le metriche di misurazione delle performance. Le componenti valoriali del conflitto sono difficilmente conciliabili; resta invece aperto lo spazio di dialogo e di integrazione sull’interpretazione dei driver di risultato e sul ruolo strategico degli investimenti nel capitale umano. Su questi ambiti sono stati fatti molti sforzi di integrazione, sebbene non di rado essi siano andati nella direzione errata, come nel caso dell’eccessiva enfasi attribuita alla prospettiva del capitale umano quale “asset” d’impresa e la conseguente focalizzazione sulle tecniche di valutazione e di iscrizione a bilancio dello stesso.

In questo editoriale indagheremo le ragioni del conflitto ed esploreremo il potenziale di integrazione ricorrendo inizialmente a una storia realmente accaduta.

Cronaca di una sfiducia annunciata

Faremo ora riferimento a un fatto di cronaca economica avvenuto in un contesto diverso da quello italiano ma in ogni modo utile per una discussione sul tema. Per ragioni di sintesi i fatti saranno semplificati e i nomi dei protagonisti, che in questo caso sono grandi società quotate, omessi.

Le imprese Human Capital e Financial Capital (nomi di fantasia, d’ora in avanti HC e FC) operano nella distribuzione di prodotti consumer audio, video, informatica, fotografia digitale, elettrodomestici. Sono entrambe focalizzate su prodotti di qualità, enfatizzando l’ottimo rapporto prezzo-qualità che sono in grado di offrire; si caratterizzano per un elevato tasso di turnover dei magazzini e ridotti costi operativi. Rispetto alle grandi catene di distribuzione, HC e FC puntano su una strategia di elevata segmentazione, servendo prodotti di qualità, relativi a un assortimento limitato, con un pricing molto competitivo grazie al tasso di turnover elevato e ad una politica di fedeltà dei clienti, visti più come membri di una community che come consumatori “mordi e fuggi”. Alla fine del 2004, HC aveva 449 centri di distribuzione, largamente concentrati in USA. FC opera con 550 centri e con un fatturato per centro distributivo che è circa la metà di quello realizzato da HC. Peraltro, HC realizza un fatturato per metro quadrato di circa 663 euro contro i 430 di FC. Analizzando la struttura dei costi di HC, si scopre che il costo medio orario del lavoro è di circa 11,375 euro contro gli 8,625 di FC. Naturalmente, tutto ciò incide sul margine lordo che penalizza HC nel confronto con FC. Peraltro, pur sostenendo maggiori costi legati a un più elevato turnover, FC abbatte ulteriormente i costi del lavoro attraverso posizioni molto rigide sul pagamento dell’orario di lavoro straordinario (infatti è l’azienda con il maggior contenzioso) e con un elevato ricorso al part-time che incide sulla spesa sanitaria versata per i dipendenti. A conti fatti, la maggiore produttività di HC non compensa la riduzione del margine riconducibile al maggior costo retributivo e di sostegno ai dipendenti. Su questo punto, HC si difende parlando di sostenibilità della crescita e affermando che la maggior retribuzione media e l’attenzione verso i dipendenti corrispondono a un minore turnover, a un maggior impegno che si traduce in servizio e soddisfazione dei clienti, il tutto a beneficio dei risultati complessivi d’impresa. Questa strategia dovrebbe tradursi in una sostenibilità maggiore del vantaggio competitivo accumulato da HC nei confronti di FC.

In questo scenario, il mercato finanziario ha deciso di affondare metaforicamente HC, penalizzando sistematicamente il valore del titolo e lanciando più volte segnali d’insofferenza verso i costi del personale di HC rispetto al concorrente FC.

Il legame tra investimenti nel capitale umano e performance

Il mercato ha espresso una chiara preferenza per FC. Eppure il tasso di crescita di HC non ha paragoni nel settore, così come anche la sua produttività. Nondimeno, i dividendi di HC risentono della politica retributiva e, in generale, dei costi del personale. In aggiunta, la società non ha modificato di molto la politica finanziaria per assecondare le attese dei suoi azionisti. Dalle analisi degli operatori finanziari (due tra le maggiori aziende del settore) relative a HC e FC, che pure hanno sfumature molto diverse per ciò che concerne la valutazione, emerge una sorta di scetticismo rispetto alle modalità e alla dimensione del ritorno di un forte impegno retributivo nel capitale umano. Gli analisti sembrano porre una sorta di limite, sebbene non siano in grado di misurarlo, all’incremento di produttività di HC e anche alla capacità del mercato finale di assorbire tale produttività.

In aggiunta, dati più aggregati segnalano una decisa preferenza dei mercati per profili di imprese cost cutter, indipendentemente dal valore o dalla produttività generata dalla riduzione dei costi. Come già emerso in molte ricerche, anche questo caso sembra confermare la preferenza degli analisti e quindi dei mercati finanziari per le condotte organizzative aggressive che penalizzano nella sostanza l’ipotizzata centralità del capitale umano. Per esempio, gli studi sulle ristrutturazioni hanno messo in luce come l’effetto congiunto della diffusione delle stock option e della tendenza delle borse a salutare con favore i downsizing abbia condotto a vere e proprie “anoressie organizzative” che, invece di migliorare l’efficienza, hanno finito per depauperare le imprese di competenze rilevanti, minandone la sopravvivenza di lungo periodo.

Esiste poi una spiegazione legata a una sorta di costo opportunità che il mercato potrebbe valutare nel caso dei costi associati al capitale umano. Seppure con una visione parziale, che non fa giustizia della complessità e del rigore delle decisioni in campo finanziario, un analista intervistato sul caso ha chiarito questo punto con un parere disarmante nella sua razionalità e semplicità: “Gli investitori, proprio alla luce di un’operatività d’impresa eccellente, non capiscono perché assegnare quote di valore così elevate ai dipendenti invece che agli azionisti stessi. La maggiore retribuzione rispetto alla media di mercato è vista come sottrazione di valore agli azionisti. Se un’impresa ha una produttività più alta della media di settore, i primi a beneficiarne dovrebbero essere gli investitori”. Questa risposta si fonda su un assunto valoriale che non è il tema qui in discussione. In aggiunta, però, vi è un presupposto tecnico tutto da dimostrare e che, per ciò che la ricerca organizzativa e sul capitale umano ha messo in luce, potrebbe essere infondato. Il presupposto è che il costo del capitale umano e i risultati operativi non siano collegati da un nesso causale diretto. In sostanza non c’entrino nulla, o solo marginalmente, l’uno con l’altro.

Con l’obiettivo di fare un po’ di chiarezza, occorre anzitutto chiedersi se un’incidenza relativamente superiore del costo associato ai dipendenti sia realmente rappresentativo della qualità e della performance del capitale umano. La risposta è evidentemente semplice: pagare di più le persone non significa necessariamente che queste siano migliori o più produttive della concorrenza o di realtà confrontabili. Nei due casi presentati, tuttavia, i dati di produttività segnalano un differenziale molto significativo che sembra giustificare, almeno sul piano dell’efficienza organizzativa, il maggiore costo. E se fosse proprio l’investimento in capitale umano a generare l’eccellenza operativa?

Il problema della misurazione

Gli accigliati Chief Financial Officer hanno dalla loro parte molte ragioni quando, di fronte alle scelte d’impresa, specie quelle che riguardano le persone, chiedono il sostegno razionale dei numeri e della misurazione economico-finanziaria. Se l’impiego dei numeri non è in discussione, occorre chiedersi se quelli comunemente utilizzati siano corretti.

Le metodologie oggi diffuse di misurazione della performance economico-finanziaria (l’Economic Value Added - EVA oppure il Cash Value Added - CVA, solo per citare alcuni esempi) mettono in luce elementi che le tradizionali misure di profittabilità non erano in grado di cogliere, come il full cost del capitale, sia da indebitamento sia da equity. Tuttavia, nelle imprese ad alto contributo – e costo – del capitale umano e basso costo del capitale finanziario queste misure non riescono a far emergere alcuni dei reali driver di competitività. Nonostante il rigore nel mettere in luce aspetti finanziari, queste misure non sembrano essere in grado di cogliere pienamente l’impatto della produttività del personale. Le misure capital-oriented (incluse ROA e ROE) focalizzano la produttività del capitale invece che quella delle persone e sottostimano l’impatto relativo di un incremento di produttività del capitale umano rispetto a quello degli asset in generale.

Proprio sul versante degli asset, il mondo della misurazione intangibile, specie quando l’oggetto è il capitale umano, resta confuso e il rigore delle metodologie largamente insufficiente. A conferma di ciò, un recente e influente articolo apparso su Harvard Business Review denuncia l’inutilità e la “tortuosità” dei tentativi di misurazione del capitale umano. La complessità della misurazione deriva anzitutto dall’impropria natura di capitale attribuita alle persone giacché le stesse non sono “proprietà” dell’impresa: “The fact that companies don’t own their employees, as they do their capital assets, is why methods for valuing human capital on the balance sheets are so tortuos”.[1]

Di certo, sul versante della misurazione c’è molto lavoro da fare e la valutazione del capitale umano, sulla falsariga di quanto accade con le altre risorse intangibili, non dovrebbe essere l’unica via da esplorare. Peraltro, anche chi guarda con ottimismo agli investimenti in capitale umano, con un conseguente interesse diretto per un maggior rigore nella misurazione dello stesso, dimentica un punto centrale: non è il livello del capitale umano posseduto che influenza direttamente i risultati a livello individuale e organizzativo. Di conseguenza, non necessariamente a un elevato stock di capitale umano corrisponde una maggiore competitività, almeno non a livello d’impresa.

Il talento è nulla senza l’organizzazione

Siamo debitori verso l’economia, e in particolare verso il premio Nobel Gary Baker, degli studi sull’impatto del capitale umano nello sviluppo economico. Da una lettura superficiale di questo fertile filone di ricerca si potrebbe sostenere che sia lo stock di capitale umano – livello delle conoscenze, competenze e abilità detenuti dagli individui – a rappresentare la fonte del vantaggio competitivo. Molte ricerche confermano questa tesi a livello di sistema economico; altra cosa è chiedersi se questa stessa idea sia trasferibile sic rebus stantibus anche alle imprese o alle singole organizzazioni. In proposito, la ricerca organizzativa ha prodotto molti studi che possono aiutarci a comprendere il fenomeno. Ciò che conosciamo con sufficiente certezza è il legame tra performance individuale e di gruppo e performance organizzativa. La produttività e le prestazioni rappresentano, a discapito degli studi sui “livelli di capitale”, l’ambito più interessante di osservazione del contributo delle persone ai risultati aziendali. I livelli di capitale umano, anche se misurati correttamente, non sono in grado di predire né la prestazione individuale né, tanto meno, quella organizzativa, o possono farlo solo in parte. In sostanza, la varianza di performance organizzativa che il livello del capitale umano è in grado di spiegare appare essere marginale. Utilizzando per analogia uno dei tormentoni del costume nazionale (almeno nel periodo 1994-2004), si potrebbe definire questa situazione “il paradosso dell’Inter”, la squadra di calcio che più ha investito nello stock di capitale umano e che meno ha raccolto, relativamente all’investimento, nei risultati.

L’implicazione logica che deriva dal “paradosso dell’Inter”, è che non sempre il livello del capitale umano contribuisce a fare la differenza nella competizione. Ciò sembra essere ancora più vero per organizzazioni complesse e ramificate quali sono le medio-grandi imprese. La domanda posta da molti profani dei meccanismi, spesso invisibili, che sottendono il funzionamento di un’organizzazione appare interessante e attuale: come mai un talento, una persona dotata di un eccellente bagaglio tecnico – un elevato capitale umano – non riesce a produrre i risultati che ci si aspetterebbe? Il fenomeno, se genera stupore e qualche ironia nel mondo del calcio, è ampiamente diffuso e conosciuto nelle organizzazioni e, in particolare, nelle imprese. L’equazione che governa la prestazione individuale, di gruppo e organizzativa è più complessa rispetto al semplice legame con il capitale – competenze, conoscenze, abilità. Nel caso dell’Inter, il capitale umano consiste nel livello tecnico e atletico dei suoi giocatori e non sembra essere in grado di generare la performance attesa; al contrario, si ha l’impressione che in quell’ambiente il capitale venga in parte mal utilizzato.

Per risolvere il “paradosso dell’Inter”, ammesso che si possa risolvere, occorre considerare che nella relazione capitale umano-performance intervengono fattori che riguardano individui e gruppi su dimensioni diverse da quelle delle competenze, delle conoscenze e delle abilità.

È possibile raggruppare questi fattori in due aggregati che per i più attenti peccheranno di semplificazione eccessiva ma che possono aiutare a segnalare alcuni riferimenti precisi per approfondire la questione.

Anzitutto, vi sono i processi socio-psicologici dell’identificazione e del commitment a livello individuale ai quali si sommano le dinamiche di influenza sociale, coesione e leadership all’interno dei gruppi. Si tratta di un insieme di fattori che, congiuntamente ai livelli di capitale umano, determinano una parte rilevante della prestazione individuale e di gruppo. Il caso del talento demotivato, poco identificato e in conflitto con il gruppo, che non raggiunge prestazioni eccellenti a discapito del capitale umano posseduto, illustra in modo emblematico l’importanza di questi fattori. È questo un terreno ben esplorato anche se la capacità dell’organizzazione di incidere sui fattori socio-psicologici che influenzano le performance appare largamente sottovalutata o intrappolata nello scetticismo di molti decisori aziendali.

In secondo luogo, vi sono i fattori organizzativi che riguardano le componenti strutturali tra cui i ruoli, i meccanismi di coordinamento, i sistemi di governo delle persone, la strutturazione dei processi ecc. Possiamo disporre, in termini di capitale umano, del miglior centravanti del mondo, e magari può anche trattarsi di una persona legata emotivamente e affettivamente alla squadra: se però a costui affidiamo il ruolo di portiere difficilmente la sua prestazione sarà in linea con le aspettative. Allo stesso modo, se al centravanti non arriva mai un passaggio decente dai compagni di squadra, difficilmente, per quanto bravo, riuscirà a fare goal e il livello della sua prestazione ne risentirà pesantemente. Il capitale umano senza organizzazione non riesce a tradurre il potenziale di cui dispone in risultati concreti. Gli investimenti nel capitale umano, quando non accompagnati da adeguati investimenti e attenzioni nelle capacità organizzative, sono largamente improduttivi. Le capacità organizzative rappresentano la competenza a livello d’impresa nel combinare efficacemente il capitale umano, i processi psicologici che sottendono la relazione persona-organizzazione e le decisioni di struttura e processi organizzativi.

Un breve esempio può essere d’aiuto per comprendere meglio questo punto. A un anno di distanza da un intenso programma di formazione per i district manager di una grande azienda (cento persone che supervisionano la rete commerciale, alle dipendenze di venti capi area), il direttore del Personale era sommerso dalle critiche dei manager di linea (Vendite, Marketing, Assistenza post-vendita) poiché nulla era cambiato rispetto alla situazione precedente. Eppure, coerentemente al nuovo piano strategico, il programma formativo era stato erogato senza tralasciare nulla: i nuovi strumenti di vendita; il rafforzamento delle capacità autonome di negoziazione; le conoscenze di analisi e monitoraggio della domanda ecc. Contrariamente alle attese, gli impatti sulla prestazione individuale, analizzati tenendo conto di tutte le possibili contingenze, erano stati pressoché nulli, a fronte di un rilevante investimento. La ricerca dei colpevoli era al punto di massimo e i soliti sospetti oscillavano tra il responsabile della formazione e il principale fornitore della formazione. In verità era accaduta una cosa molto semplice. Le nuove competenze dei capi distretto erano impiegabili solo in una situazione di forte delega da parte dei capi area (diretti supervisori), i quali non avevano nessuna intenzione di perdere potere e controllo sui budget, sui clienti, sulle politiche di vendita e sulle modalità di pagamento. I manager di distretto avevano sperimentato, nell’immutato contesto organizzativo, la quasi totale inapplicabilità delle nuove competenze e non avevano neppure avuto la possibilità di migliorarle attraverso l’applicazione pratica. Ciò aveva generato un diffuso senso d’insoddisfazione che era stato trasmesso alla rete di vendita. In sostanza, il contesto organizzativo era immutato e il nuovo “capitale umano”, ottenuto attraverso un cospicuo investimento, era inutilizzabile in quelle condizioni. Dopo sei mesi il tasso di turnover dei capi distretto era cresciuto del 30% e un concorrente diretto aveva accolto gran parte dei fuggitivi. La battuta che circolava in azienda era scontata: “Certo che abbiamo investito nel capitale umano. Degli altri”.

Il caso mette in luce che esiste una condizione di complementarità tra capitale umano e capacità organizzativa. Quando non compresa, la complementarità alimenta un sillogismo che diventa spesso una trappola di autoconferma dell’inutilità degli investimenti in capitale umano: s’investe nel capitale umano, non se ne vedono risultati tangibili, si ritiene che non vi sia relazione tra capitale umano e performance.

Conclusioni

Raider di borsa e “locuste del capitalismo” (così sono stati definiti alcuni operatori finanziari e i fondi altamente speculativi in un dibattito apparso nei mesi scorsi sui quotidiani e sulle riviste economiche internazionali) non nutrono alcun interesse per gli investimenti del capitale umano perché, a conti fatti, non nutrono alcun interesse per le imprese e i progetti di lungo periodo. Peraltro, a un’analisi più attenta, non c’entra nulla la foglia di fico della responsabilità sociale poiché investire nel capitale umano significa solo in minima parte esercitare il ruolo sociale dell’impresa. Il capitale umano è impresa, l’investimento in capitale umano si alimenta di idee di sviluppo, valore e ricchezza che sfuggono ai calcoli finanziari di breve. Ne consegue che la visione (e la scommessa) deve necessariamente essere di lungo periodo. Certo, come abbiamo visto, l’investimento da solo non basta.

Se la finanza d’impresa, quella sana, deve guardare agli investimenti in capitale umano come ad azioni utili per migliorare strutturalmente la competitività, allora bisogna uscire da almeno due pantani. Il primo è pensare che sia sufficiente dotarsi di talenti per essere competitivi. Il talento va organizzato e l’organizzazione, indipendentemente dal capitale umano, è una fonte di competitività. Le imprese italiane, come anche le organizzazioni della pubblica amministrazione, devono interrogarsi sulle capacità organizzative contestualmente alla maggiore attenzione per il capitale umano.

La seconda è la trappola della valutazione dell’impatto sulla performance, specie di quella di breve. Se il livello delle competenze posseduto dagli individui rappresenta davvero un capitale per l’impresa, così come lo sono le risorse finanziarie e la reputazione, allora bisogna crederci senza cercare ROI o altre misure che raccontano solo una parte del problema. Ciò non vuol dire che le innovazioni sul fronte della misurazione del capitale umano e degli impatti sulla performance non siano benvenute, al contrario. Solo che, in attesa di riuscire a misurare quanto conta davvero il capitale umano, conviene forse credere nella sua importanza e lanciare il cuore al di là dell’ostacolo. Le argomentazioni sin qui sostenute sono altrettanto critiche a livello di sistema paese. Purtroppo, se gli investimenti in capitale umano hanno tempi di ritorno troppo lunghi rispetto alla velocità di reazione dei mercati e delle decisioni manageriali, la stessa cosa, se non in modo ancor più accentuato, si può dire per i tempi della politica.

Una politica economica realmente orientata a un’accelerazione dello sviluppo delle competenze diffuse nel sistema, specie quelle scientifiche e legate alle tecnologie, produrrà effetti visibili a molti anni di distanza. Ne consegue che gli investimenti nel capitale umano, nell’innovazione e nella ricerca appaiono incoerenti con i tempi del consenso elettorale e della politica. È una trappola dalla quale è difficile uscire se non con coraggio, determinazione e una proiezione di lungo periodo degli interessi reali del paese. Se si preferirà lasciare le cose come stanno, il cane continuerà a mordersi la coda, nella speranza che questa situazione di stallo duri a lungo e che qualche quota sul tessile cinese protegga i nostri livelli di sviluppo e di benessere. Ma si tratta di una speranza mal riposta: le situazioni sono solo all’apparenza bloccate, mentre si deteriorano lentamente e inesorabilmente. In tal senso, straordinariamente profetica sembra essere la scritta apparsa lungo le mura di cinta di una grande azienda italiana in crisi: “A forza di mordersi la coda, il cane finirà per mangiarsi il sedere”.

1

F. Barber, R. Strack, “The surprising economics of a people business”, Harvard Business Review, June 2005, pp. 80-90.