E&M

2002/5

Claudio Dematté

Creare fiducia negli investitori responsabilizzando il management

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Negli ultimi mesi si è fatto un gran parlare sia delle falle dei sistemi contabili americani sia della filosofia e dei modelli di gestione che in quel paese sembrano avere creato incentivi al management ad avvalersi dei margini di discrezionalità congeniti a qualsiasi sistema contabile per gonfiare gli utili, per manovrare i corsi dei titoli, per arricchirsi indebitamente o, comunque, per posporre la manifestazione di uno stato di crisi.

Il susseguirsi di “incidenti” – dal caso Enron, che più ha destato scalpore per la sua dimensione, per essere stato il primo e anche per essere stata, questa società, accreditata per anni come esempio di gestione innovativa ed efficiente, al caso Worldcom, che ha innescato quello che potrebbe diventare il più grande fallimento della storia, senza dimenticare una serie di altre società travolte da gestioni disinvolte – dopo la prima tentazione di liquidare i fatti come eccezioni, ha indotto le autorità di quel paese a rivedere la normativa e l’assetto istituzionale e ha costretto gli studiosi e gli operatori a interrogarsi sui principi e sulle prassi di gestione.

Questo dibattito, che è stato molto acceso sui media e nella politica americana, ha trovato un notevole risalto anche da noi. Anche in questa rivista il tema è stato seguito e interpretato, come era giusto fare. Nel nostro paese c’è però qualche cosa di strano nel modo di seguire la questione. È come se si trattasse di una malattia spuntata altrove, che non ci riguarda, e che si osserva per consolarci per il fatto di non averla. Anzi, se ne parla con un sottofondo di soddisfazione nel rilevare che quel sistema, lo statunitense, che è stato presentato come il più forte, il più innovativo, il più dinamico, quello dal quale trarre insegnamenti, in fondo non era quell’esempio degno di imitazione. Nessuno si è chiesto se non vi siano state anche nel nostro paese rappresentazioni gonfiate della situazione economica e patrimoniale – per esempio nella fase del boom borsistico – e se non vi siano tuttora imprese e banche che non espongono fino in fondo minusvalenze o insussistenze per non peggiorare i loro utili, ma anche per non dovere riconoscere la perdita del capitale sociale e non dovere ricorrere agli articoli 2446 o 2447 del codice civile. Nessuno si è chiesto se l’apparente maggiore tenuta delle nostre imprese in questa svolta di ciclo sia dovuta a una maggiore saggezza contabile o gestionale nella fase precedente, oppure al fatto che poche nostre imprese si erano avventurate nei territori nuovi dove l’innovazione rende ricche alcune imprese ma ne conduce altre al fallimento. Infine, nessuno si è chiesto se il nostro impianto normativo e istituzionale e il nostro sistema di governance siano più adeguati rispetto a quelli americani ora giustamente criticati.

Questa lettura dei problemi contabili e di gestione delle società americane, così poco attenta al confronto rispetto ai nostri problemi, è ancora più strana alla luce del fatto che siamo reduci da una stagione tormentata di vicende di falso in bilancio e del fatto che è in corso un processo di riforma del diritto societario sul quale si dovrebbe discutere più di quanto non si sia fatto e si faccia, non solo nelle riviste giuridiche o nei fogli degli ordini professionali, ma anche in quelle di management.

Per coprire questa carenza di dibattito e legare le vicende nostre a quelle che hanno interessato la realtà americana, in questo numero la rivista ospita tre primi interventi che scaturiscono da un progetto di ricerca interdisciplinare attivato dall’Area Amministrazione e Controllo: il primo inquadra il quadro complessivo della riforma del diritto societario; il secondo fa il punto sulla tormentata e disputata questione del falso in bilancio; il terzo illustra, sia pure sommariamente, l’evoluzione in tema di sanzioni amministrative e sistemi di controllo interno, anche alla luce del d.lgs n. 231/2001.

Come risulterà chiaro dalla lettura di questi tre interventi, il quadro normativo è in forte evoluzione, con aspetti potenzialmente positivi – come quello dell’ampliamento dell’autonomia statutaria – e altri controversi, come le misure contrastanti sulle responsabilità in fatto di bilancio. Purtroppo la contingenza storica che ha visto diversi partiti politici scomparire sotto le macerie delle tangenti, divenute sistema, e diversi dirigenti e imprenditori travolti dai connessi veri o presunti falsi in bilancio ha fatto sì che la discussione sul tema della trasparenza contabile assuma da noi un forte connotato emotivo e politico, ostacolando un ragionamento pacato e di sostanza. Il fatto che l’attuale presidente del consiglio e alcuni suoi uomini, divenuti anch’essi nel frattempo parlamentari, siano sotto giudizio per analoghe vicende rende ancora più difficile dibattere sulla questione.

Ma il tema è troppo importante per evitarlo. Specialmente in tempi come questi, nei quali, come si è visto dagli incidenti accaduti negli Stati Uniti, l’alterazione dei risultati patrimoniali ed economici non è funzionale solo all’intento di evadere il fisco o alla volontà dell’azionista di maggioranza di appropriarsi di valore a scapito degli azionisti di minoranza o dei creditori, e non è solo strumentale a procurarsi risorse per pagare tangenti, ma può anche essere funzionale a progetti di arricchimento rapido e indebito da parte del management beneficiario di stock options, a danno di tutti gli altri stakeholders della società.

Il modo migliore per affrontare la questione, senza farsi condizionare dalle contingenze storiche, è chiedersi quale importanza abbia per l’organizzazione dell’attività economica la corretta rappresentazione contabile della situazione delle imprese, e da lì ricavare principi che la indirizzino.

Trasparenza contabile: tabù o esigenza funzionale all’efficienza economica?

Troppo spesso si dà per scontato – senza dimostrarlo – che la corretta rappresentazione contabile sia un valore in sé, assoluto e indiscutibile: una specie di tabù da tutelare a tutti i costi e in tutte le circostanze. È davvero così?

La conoscenza tempestiva, accurata e dettagliata della effettiva e reale consistenza economica e patrimoniale dell’attività di un’impresa è certamente un valore assoluto: è la condizione necessaria, anche se non sufficiente, per porre chi guida un’impresa nella possibilità di compiere le scelte giuste. Essa è talmente importante che ha dato corpo al primo fondamentale insieme di concetti e di strumenti di economia aziendale: la contabilità generale prima, e quella analitica poi. Non a caso Luca Paciolo, il fondatore dello strumento della partita doppia, è conosciuto in tutto il mondo come colui che ha posto le basi per un lungo e fondamentale tragitto di lavoro sul quale si reggono tutti i sistemi contabili moderni.

Affermare che la conoscenza della situazione economica e patrimoniale (e si dovrebbe aggiungere, anche finanziaria) è un valore in sé, per tutti i soggetti interni ed esterni che intervengono nella gestione di un’impresa, non comporta affatto che permanga lo stesso giudizio di validità universale quando si passa a ragionare sul grado e l’ampiezza di diffusione di questa conoscenza, per esempio attraverso il conto economico d’esercizio – annuale o trimestrale – e lo stato patrimoniale. Qui gli interessi possono divergere, e di solito divergono. Chi ha il controllo dell’impresa può avere interesse a fornire una rappresentazione difforme dalla situazione reale, a volte in senso peggiorativo, altre in senso migliorativo, secondo le circostanze e gli obiettivi che si pone. Può farlo nell’ambito del lecito, giocando sulla discrezionalità di certe valutazioni e con l’obiettivo di smorzare i cicli e di rafforzare l’impresa senza alcun danno, bensì solo benefici, per gli altri stakeholders, oppure con l’intento di procurarsi un vantaggio illecito, a scapito di altri soggetti, omettendo poste o falsificando i dati. Nel primo caso si parla di “politica di bilancio”, prassi normale e perfino consigliata. Nel secondo si cade, invece, nella patologia che è oggetto di intervento normativo.

Lo è perché la falsa rappresentazione della situazione è strumentale al perseguimento di altri reati: l’appropriazione indebita di risorse spettanti ad altri (ai creditori, agli azionisti di minoranza, agli azionisti tutti, ai lavoratori); l’evasione fiscale; l’acquisizione di fondi per corrompere e alterare la concorrenza. Conoscendo gli intenti, il momento specifico, i fatti e il grado di discrezionalità esercitato è possibile distinguere fra le due fattispecie, quella lecita e quella illecita. A posteriori, lontani dagli elementi che in quel momento hanno alimentato certe valutazioni, in concomitanza di altre circostanze che possono sollevare ombre sugli intenti, la valutazione può diventare difficile.

La natura strutturalmente ambivalente del tema, nell’ambito di un procedimento giudiziale, può portare a interpretazioni decontestualizzate, lasche oppure eccessivamente rigorose, al pari di molte altre questioni soggette al vaglio della giustizia. I giudici hanno uno spazio di discrezionalità che, se usato in modo difforme da soggetto a soggetto, può trasformarsi in ingiustizia, e quando viene esercitato in modo diffusamente aggressivo può anche divenire un impedimento al normale svolgimento dell’attività economica.

Essendo il problema configurato in questi termini, il nuovo assetto normativo a cui si è pervenuti in merito al reato di false comunicazioni sociali va nella stessa direzione auspicata e in via di realizzazione negli Stati Uniti dopo gli eventi di cui si è fatta menzione, oppure va in direzione opposta?

Pur ammettendo che la nostra normativa previgente fosse molto inclinata verso una trattazione penale, anziché amministrativa, del reato in questione, non c’è dubbio che la riforma abbia di molto sollevato la pressione sull’argomento. Come sintetizzano nell’articolo citato Lunghini e Troyer, le conseguenze sono un forte alleggerimento delle sanzioni: “l’area penalmente rilevante risulta per alcuni aspetti limitata; le conseguenze sanzionatorie si sono ridotte; i termini di prescrizione si sono abbreviati; la possibilità che il falso in bilancio si trasformi in ipotesi di bancarotta è stata circoscritta”. Inoltre, per le società non quotate il delitto è procedibile solo a querela di parte. Tutti coloro che siedono in consigli di amministrazione o in collegi sindacali hanno motivo per tirare un sospiro di sollievo di fronte a questi allentamenti. Ma è, tutto ciò, nell’interesse delle imprese e dell’economia nel suo insieme, se è vero che i sistemi economici più efficienti – quelli centrati sui mercati – hanno bisogno di una cornice normativa che tuteli in modo rigoroso le parti in causa? Ammettere che non è un falso, sic et simpliciter, una differenza del 5% del risultato economico, anche se ciò fosse il frutto di una volontà deliberata di alterare la realtà, corrisponde davvero alle esigenze delle imprese?

Guardando alla questione con atteggiamento pacato non si può fare a meno di constatare che nello stesso momento la SEC americana sta spulciando i conti di molte blasonate società per verificare se i loro amministratori non abbiano gonfiato gli utili, con l’esito deliberato o meno di alterare i corsi dei titoli e di fuorviare i creditori. E l’Amministrazione americana, con il pacchetto legislativo sulla disciplina contabile del luglio scorso, ha imposto che i risultati siano “certificati” dai vertici aziendali e ha ordinato alla SEC, con il Sarbanes-Oxley Act, di stilare regole che prevedano che gli amministratori delegati e i direttori finanziari delle società quotate presentino statements trimestrali giurando sulla loro accuratezza e completezza. Da notare che la legge prevede che vi sia anche un’altra separata certificazione del rapporto finanziario che rende le violazioni punibili penalmente anche con la reclusione.

Nel momento in cui queste note vanno in stampa anche la Germania, attraverso il suo ministro delle finanze, Eichel, ha annunciato una nuova normativa di regolamentazione della disciplina contabile e finanziaria che prevede diverse innovazioni rispetto al passato, con rafforzamento dei poteri del Bundesanstalt für Finanzdienstleistungssaufsicht, il nuovo supervisore dei mercati, con la possibilità di usare l’informazione acquisita nell’esaminare un’azienda per perseguirne altre, con la determinazione di potenziare i diritti degli azionisti di perseguire l’alta direzione e il consiglio d’amministrazione nel caso di comunicazioni false, incomplete o fuorvianti, in contrasto con la tradizione tedesca che prevedeva che le azioni potessero essere intraprese solo contro una società, anziché contro le persone (Financial Times, 3 settembre 2002).

È possibile che da noi, in passato, vi sia stato un cattivo uso da parte di qualche componente della magistratura dello spazio di discrezionalità nell’interpretazione dei fatti, tanto da formulare accuse di falso in bilancio laddove c’erano solo valutazioni discrezionali che ex post, si sono rivelate sbagliate. Ma è sufficiente questo per allentare la normativa su una questione così vitale per il buon funzionamento dell’economia? Si può pensare che la sola tutela connessa alla facoltà di querela di parte lesa sia sufficiente e possa generare quel clima di fiducia negli investitori che è la linfa di un’economia di mercato?

La questione è troppo complessa per trarre conclusioni affrettate. Ma prima di cantare vittoria su una riforma così impostata, forse è il caso di riflettere.[1] Si noti, a questo riguardo, che il mercato azionario italiano soffre già di una seria crisi di reputazione che ha allontanato e tiene lontani molti investitori stranieri, anche istituzionali, che pure dovrebbero essere attrezzati per difendere i loro interessi, con conseguenze negative per gli investimenti esteri nel nostro paese. Se anche fosse vero quanto ha scritto il 28 dello scorso agosto il Wall Street Journal in un articolo sui problemi della borsa giapponese, che “No nation is immune to stock market chicanery” (nessun paese è immune dalle malefatte di borsa), è però certo che alcuni di essi sono determinati ad andare nella direzione giusta – quella di prevenirle – piuttosto che nella direzione opposta, di renderle più agevoli.

Il contrappeso delle sanzioni amministrative delle persone giuridiche

A parziale contrappeso dell’allentamento normativo sul reato di false comunicazioni sociali è arrivato il d.lgs. 231/2001, modificato dal d.lgs. 61/2002, che prevede una responsabilità amministrativa – peraltro di competenza del giudice penale – delle persone giuridiche (cioè delle società) in merito ad alcuni reati, fra i quali anche quello in questione, purché commessi nell’interesse o a vantaggio della società. Questa previsione, che contempla sanzioni pecuniarie e ancora più gravose pene interdittive a carico della società, sembra controbilanciare in parte la minore severità nei confronti dei singoli amministratori di cui si è detto sopra.

Nella realtà, la fattispecie in questione riguarda ipotesi di reato più riduttive (reati a favore o vantaggio per la società), anche se con applicazione a categorie di reati più ampie. Non copre, invece, i reati di falso in bilancio perpetrati a danno di singoli soggetti, che si presuppongono coperti dalla facoltà di querela della parte lesa. Quindi, non risponde al bisogno di tutelare in generale i vari stakeholders che negoziano con l’azienda anche sulla base delle informazioni loro rivenienti dai bilanci.

Le nuove norme sono ispirate da un principio in sé positivo, ma di complessa applicazione: quello di rinunciare all’obbligatorietà, creando invece gli incentivi affinché le imprese installino sistemi di risk assessment e di controlli che prevengano la commissione di reati. Con la nuova norma le imprese, infatti, non sono costrette ad applicare quanto prescritto, ma, se vengono commessi i reati in questione, subiscono le sanzioni laddove non siano in grado di provare che avevano previamente adottato modelli di organizzazione, di gestione e di controllo idonei a prevenirli. Come risulta chiaro dall’articolo di Cameran, Lunghini e Pecchiari, questa impostazione, che potrebbe compensare l’alleggerimento di cui al paragrafo precedente, presuppone un lavoro complesso e oneroso, con soluzioni organizzative che mettono a soqquadro il sistema degli organi ora vigenti. Fra l’altro, è necessario istituirne uno che, dovendo essere dotato di poteri di iniziativa e di controllo autenticamente autonomi, è destinato a entrare in rotta di collisione con quelli esistenti.

Chi abbia provato ad applicare quanto previsto dalla 231 si rende conto che c’è il rischio di essere caduti dalla padella alla brace, anche perché la discrezionalità dei giudici nel valutare se i modelli adottati siano o meno idonei a prevenire i reati non è affatto minore rispetto a quella che essi avevano nel giudicare il reato di false comunicazioni sociali.

Per il momento limitiamoci a constatare che nell’insieme dei due provvedimenti non si rintracciano quelle preoccupazioni che hanno investito gli organi politici e le agenzie di controllo americane o tedesche all’indomani della scoperta delle manipolazioni di bilancio incriminate. Ed è difficile credere che da noi il rigore nel prevenire e perseguire questo tipo di problemi fosse già maggiore rispetto a quello di questi paesi. È cosa nota che in Italia molti casi di gestione fallimentare che avevano alle spalle bilanci falsi sono sfociati in concordati con i creditori che hanno privilegiato soluzioni di accomodamento, piuttosto che l’accertamento rigoroso delle responsabilità.

La riforma del diritto societario

Nella legge delega per il pacchetto di riforma del diritto societario è inclusa anche una maggiore articolazione dell’autonomia statutaria, una riforma delle società a responsabilità limitata e alcuni interventi in merito alla disciplina di bilancio.

Il primo intervento sembra riconoscere l’opportunità di aprire un “mercato dei modelli di governance”, lasciando alle società la facoltà di scegliersi quello che a loro sembra più idoneo: se quello attuale con consiglio di amministrazione e collegio sindacale, oppure quello alla tedesca con consiglio di amministrazione e consiglio di sorveglianza, oppure quello americano centrato su un solo organo che opera su più funzioni attraverso sottocomitati. Se coordinato con la legge Draghi e il codice Preda, questa libertà può diventare fonte di innovazione, sempre che non prevalga il desiderio di sottrarsi il più possibile alla disciplina alla quale le società, in particolare quelle quotate, devono sottostare per il buon funzionamento del mercato. La possibilità di scegliere la tipologia di organi con i quali governare la società dovrebbe accompagnarsi a una revisione complessiva della normativa attuale, la quale ha visto sovrapporsi più funzioni e più organi, creando una situazione di fatto in cui coesistono sovrapposizioni e rischi di confusione fra collegio sindacale, comitati di auditing, società di revisione e auditing interno.

La riforma delle società a responsabilità limitata risponde, invece, alla necessità oggettiva che, mentre si intensificano gli obblighi informativi e i meccanismi di controllo per le società aperte al mercato dei capitali, siano però disponibili forme societarie più snelle, soggette a forme di contabilità semplificata, con una disciplina più flessibile, che possano accedere a forme di finanza istituzionale purché non coinvolgano i piccoli risparmiatori, in modo da favorire l’avvio di nuove attività.

La terza linea di intervento sembra quella che più delle altre va nella direzione tracciata dalle autorità americane per prevenire il formarsi di bilanci non veritieri. Si tratta di interventi che dovrebbero regolare la contabilizzazione di operazioni finanziarie particolari le quali, anche se tecnicamente danno luogo a impegni “fuori bilancio” possono compromettere la veridicità e la completezza dei bilanci ed essere fonti di potenziali ingenti perdite, senza che di ciò vi sia evidenza alcuna: locazioni finanziarie, derivati, operazioni a termine. Questi interventi rispondono all’evoluzione dei tempi e alle continue innovazioni negli strumenti finanziari, che contengono profili di rischio un tempo sconosciuti e in molti casi sfuggono alla rilevazione contabile.

Conclusioni

Le vicende societarie che hanno interessato gli Stati Uniti non sono isolate e non sono la manifestazione di un singolo sistema malato: quello statunitense. Vicende simili hanno colpito anche imprese e banche di altri paesi, incluso il nostro. Alcune delle nostre banche del Sud sono state salvate in extremis, per acquisizione, con i bilanci precedenti mantenuti artificiosamente nella loro apparente integrità fino al momento della verità.

La differenza, rispetto agli Stati Uniti, è che nell’Europa continentale i casi di mala gestione e di bilanci falsi non sono assenti, ma sono stati gestiti nel riserbo delle stanze che contano e senza esporre i responsabili alle sanzioni della giustizia. Ma questa differenza non può esimerci dal considerare il problema e dall’esaminare i modi più giusti per prevenirlo e per trattarlo quando accade. È un dato di fatto che nell’economia – in quella vecchia come in quella moderna – vi sono due modi per arricchirsi: quello del produrre valore, grazie all’innovazione, all’efficienza, all’impegno continuo, e quello di appropriarsi del valore di altri con artifizi che si distinguono dal furto solo nella forma, ma non nella sostanza. Dietro alcune delle vicende cui abbiamo assistito in questi anni non c’è niente di diverso dai comportamenti dei robber barons americani (i Vanderbilt, i Morgan, i Rockefeller), i cui comportamenti fraudolenti nei confronti degli investitori, ma non solo, sono stati ampiamente documentati dagli storici. Questo tipo di economia arricchisce i prepotenti, ma non fa progredire la società, non favorisce l’afflusso del risparmio alle imprese, non crea quella fiducia che è necessaria per favorire l’attività economica organizzata. Per questo motivo, quanto più le imprese, per realizzare la propria strategia, sono costrette a ricorrere a capitale di terzi (specie se con diretto accesso ai singoli risparmiatori), e quanto più devono fare conto sulla collaborazione di altri soggetti che per destinare risorse al partner hanno bisogno non solo di contratti, ma anche di segni tangibili della capacità di onorarli, tanto più devono pagare il prezzo della trasparenza. E la normativa deve essere strumentale a creare questo requisito per motivi di efficienza (favorire la corretta allocazione del capitale) e per motivi di equità (evitare che alcuni soggetti si approprino del valore aggiunto spettante ad altri).

1

Si veda a questo riguardo Marco Reboa, “Aspetti critici del nuovo falso in bilancio”, Rivista dei dottori commercialisti, LIII, fasc. 2, 2002.