E&M
2012/5
Indice
Rilevanza e rigore
The double-edged sword of experience in strategic decisions. Evidence from the private equity sector
The dangers of purity. How team leaders may select team members and achieve better performances
Forum
Il Diversity Management
Flessibilità spazio-temporale e Diversity Management: false credenze e nuove opportunità
La finestra sul mondo
South Korea: squeezed between the ailing dinosaur and the emerging superpower
Il mercato delle regole
Fuoricampo
Temi di Management
Competere in tempi di crisi è un lusso. Meglio usare l’intelligence
Storie di straordinaria imprenditorialità
Margin Call. Loro, i soldi non li perdono mai
Lucido e intransigente, Margin Call di J.C. Chandor analizza i meccanismi economico-finanziari che hanno generato la grande crisi. E lo fa senza guardare in faccia nessuno, additando caso per caso le omissioni e le responsabilità. Un film duro, informato, per molti versi necessario.
Margin Call
Regia: J.C. Chandor
Interpreti: Kevin Spacey, Jeremy Irons, Demi Moore
USA, 2012
Tutto in una notte. La notte in cui è iniziata la grande crisi della finanza globale. Nel cuore di Manhattan, ai piani alti di un grattacielo, alcuni boss della finanza mondiale fanno i conti con ciò che alcuni di loro oscuramente già sapevano: la loro banca d’affari ha ingurgitato e immagazzinato una quantità spropositata di titoli tossici. Se qualcuno se ne accorgesse, se il mercato lo capisse, la banca accumulerebbe una montagna di perdite, superiori anche alla sua capitalizzazione di borsa, e il default sarebbe inevitabile. Che fare? In poco più di ventiquattr’ore, in una serie di riunioni dal ritmo sempre più convulso, gli dei della finanza – tra cui spiccano Jeremy Irons e Kevin Spacey – decidono di immettere i loro titoli tossici sul mercato. Cioè di infettare gli incauti acquirenti pur di salvare se stessi e i loro profitti. La gente comune, quella che vive e cammina per strada, è ignara di tutto. Ma lassù, nell’Olimpo, si decidono i destini del mondo, e le cadute all’inferno. Margin Call, diretto da J.C. Chandor, allude con un occhio al fallimento Lehman Brothers e indaga con l’altro sulla crisi del capitalismo globale. Ne discutono, come di consueto, Severino Salvemini e Gianni Canova.
S.S. Il riferimento al fallimento Lehman Brothers è abbastanza evidente. Anche se va detto che in realtà le cose andarono un po’ diversamente da come le racconta il film. La liquidazione dei titoli tossici da parte di Lehman andò avanti per molti mesi, e anche la scoperta del rischio eccessivo non avvenne improvvisamente, ma emerse piano piano. La decisione di concentrare tutto in una notte mette un po’ in ombra le responsabilità della banca, che per molti mesi si è resa colpevole di infettare consapevolmente tutto il sistema bancario internazionale…
G.C. Vero. Ma non puoi negare che dal punto di vista drammaturgico la scelta di puntare sulle tre unità aristoteliche di tempo, di luogo e di azione si rivela alla fine molto efficace e serve a far capire meglio anche ai non addetti ai lavori i complessi meccanismi che stanno dietro la speculazione. A partire dal concetto richiamato dal titolo: “margin call”, la clausola di garanzia che tutela il broker dal non oltrepassare la soglia di rischio nell’investimento dei mutui subprime. La grande banca del film ha costruito un modello economico per calcolare il rischio di investimento su una formula inaffidabile, che non contempla, appunto, la clausola di garanzia.
S.S. … e l’inaffidabilità del modello viene scoperta all’improvviso, grazie ai calcoli contenuti in una chiavetta USB che un broker licenziato lascia in eredità a un giovane analista. Comincia così la lunga notte delle decisioni improcrastinabili: otto top executive della banca si ritrovano in un summit che deve decidere il futuro di milioni di persone. Cominciando dal loro. Sono le due di notte, la città dorme, ma loro vegliano. In una luce permanentemente sonnambula, negli uffici semivuoti, questo manipolo di mostri crudeli e senza scrupoli resta nell’attesa di cosa deve compiersi e parla sottovoce. I loro sguardi silenziosi e impotenti dai vetri dei lussuosi uffici verso la Manhattan che progressivamente si riaccende all’alba sono più eloquenti di molte parole. Così come lo è il rumore elettronico dei molti schermi di pc accesi dove si susseguono indici, istogrammi e quotazioni di valori mobiliari nel buio della notte.
G.C. … non sarei del tutto d’accordo nel definirli mostri. Il film ci suggerisce la loro apparente, assoluta normalità. E ha il pregio di dare un volto e una voce a uomini spesso anonimi, nascosti dietro la freddezza matematica delle transazioni finanziarie. Sono avvoltoi, ma ciononostante ci assomigliano. Sono lontanissimi da noi, eppure, al contempo, sono come noi. Penso anche solo al broker interpretato da Kevin Spacey, alla sua solitudine, alla sofferenza per la morte del suo cane. Questi tratti di comune umanità accentuano poi – come dire – la feroce disumanità delle decisioni che egli contribuisce a prendere.
S.S. Per certi versi questi “maghi” della finanza sembrano una casta sacerdotale. Guardano dall’alto i comuni mortali, quelli che camminano per le strade, e sottolineano con un certo disprezzo come vivano ignari di tutto…
G.C. … è esemplare in questo senso la scena ambientata in ascensore, dove due degli otto executive parlano di quello che stanno per fare del tutto indifferenti alla presenza della donna delle pulizie. Come se non esistesse. Come se non potesse capire. Una forma di superomismo finanziario e castale davvero impressionante…
S.S. “Dobbiamo essere i primi ad agire per essere gli ultimi a sopravvivere” dice il boss interpretato da Jeremy Irons (con chiara allusione al CEO John Tuld). Così, all’alba, la decisione è presa. Bisogna svendere i titoli il più in fretta possibile. Bisogna passare la mela marcia a qualcun altro prima che il mondo si accorga che è marcia. La scena dove i trader contattano i loro amici compratori e ad ognuno cercano di vendere manipolatoriamente una transazione esclusiva è sintomatica dei valori degli emergenti gnomi finanziari newyorkesi. La consegna è “passare il cerino acceso”. A mano a mano che l’orologio avanza, il prezzo cala, ma è indispensabile uscire il più possibile dalla sicura catastrofe. E i trader bugiardi inventano scuse pur di vendere, a tutti i costi. L’importante è non far sapere al mondo perché la banca si sta liberando della zavorra. La soluzione aggira i sentimenti e sopravanza la morale. Ci sono mille dubbi, ma sbrigativamente essi sono rabberciati da squallidi compromessi e da crudeli regolamenti di conti personali.
G.C. Mi ha molto colpito la rivendicazione di incompetenza del boss interpretato da Jeremy Irons. “Non è stato il cervello a portarmi qui” dice a un certo punto con un tono solo in apparenza paradossale. In realtà, egli afferma con grande lucidità che la sua unica dote è la capacità previsionale: “Io sono qui per indovinare come sarà la musica fra una settimana, fra un mese, fra un anno”. Nessuna competenza tecnica, insomma: solo un gran fiuto, un po’ da rabdomante, per captare in anticipo le tendenze in via di formazione.
S.S. Ma non è solo lui a decidere di infettare il mercato pur di salvaguardare il proprio ruolo e i propri profitti. Anche gli scampati ai licenziamenti mostrano scarsa solidarietà nei confronti dei colleghi colpiti dal downsizing. Si voltano dall’altra parte per parlare di quanto guadagnino i loro superiori e di come sia possibile dissipare i loro guadagni in lusso e sesso a pagamento.
E in questa scena dove l’egoismo è ai massimi livelli irrompe il capo che addirittura motiva i pochi rimasti con frasi quali: “Dovreste ringraziarmi. Prima avevate otto persone sopra di voi. Ora ne avete solo quattro”. Oppure: “Cercate di trasformare questa crisi in opportunità, perché da domani tutto sarà diverso”.
G.C. Potremmo dire, secondo te, che i dirigenti della banca praticano un moral hazard di fatto immorale? Cioè assumono un rischio estremamente elevato, le cui conseguenze positive recano un vantaggio a chi ha assunto il rischio, mentre le eventuali conseguenze negative ricadono su terzi…
S.S. Si tratta proprio di questo. Dico di più: anche oggi, 2012, la storia si ripete. Segno che la lezione non è servita a niente. Anche oggi i banchieri sono tornati a colpire, rimanendo quelli del 2008: impuniti, impenitenti, pericolosi come quando scatenarono la grande crisi. Infatti, nei primi giorni di maggio 2012, la più grande banca americana, JPMorgan Chase, ha scoperto un buco di due miliardi di dollari (che potrebbero diventare anche di più) derivante da speculazioni in derivati non controllati. Anche qui, come nell’istituto finanziario del film, il CEO di JPMorgan, Jamie Dimon si era costruito la reputazione del “banchiere più saggio di Wall Street”, ma indubbiamente conosceva il tarlo del suo sistema di investimento, poiché gli era stato fatto notare dai suoi vigilanti. E proprio in questi giorni veniamo a sapere che Bob Diamond, l’amministratore delegato dell’inglese Barclays, è stato costretto a rassegnare le dimissioni perché si è saputo che la sua banca manipolava il tasso Libor (equivalente del nostrano Euribor) per evitare che un tasso eccessivamente elevato segnalasse a operatori e clienti una situazione critica della banca. Siamo pertanto al continuo remake della scorribanda speculativa. L’establishment della finanza è recidivo, con gli stessi metodi e la stessa arroganza dei protagonisti di Margin Call.