E&M

2012/5

Vincenzo Perrone

Il bastone del maresciallo: consigli per l’uso

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Pare che Napoleone, tra le tante frasi diventate storiche e proverbiali pronunciate nella sua intensa vita, abbia anche ricordato che “ogni soldato porta nel suo zaino il bastone di maresciallo”. Fine conoscitore di uomini prima ancora che di campi di battaglia, l’imperatore combattente aveva espresso in poche parole un principio fondamentale della motivazione: La speranza di potere essere un giorno promossi al rango più alto della propria organizzazione stimola le persone, il soldato semplice in questo caso, a dare il meglio di sé e ad impegnarsi al massimo per raggiungere gli obiettivi che sono loro assegnati proprio da quel capo, da quel “maresciallo” di cui un giorno vorrebbero prendere il posto.

Si tratta di una dinamica ancora essenziale anche nelle imprese dei nostri giorni. La promozione, con i connessi vantaggi intrinseci ed estrinseci, a cominciare da retribuzioni più alte e più potere, rappresenta anche oggi una delle ricompense più importanti che le persone possono aspettarsi dall’impresa per la quale lavorano. Si può anzi ipotizzare che i processi di appiattimento delle strutture che hanno portato a ridurre il numero di posizioni gerarchiche abbiano acuito la competizione per raggiungere i pochi ruoli di comando rimasti, fino alla solitudine estrema dell’unica posizione di vertice assoluto presente in ogni organizzazione. Senza considerare il fatto che la recessione che sta colpendo più o meno tutto il mondo occidentale ha un impatto negativo anche su queste dinamiche di sviluppo, rendendo le occasioni di promozione più rare e per questo ancora più critiche. La riduzione del numero di divisioni per il concentrarsi su un insieme più limitato di aree di business e, più in generale, l’operare su una scala ridotta – tutti effetti diffusi della crisi epocale in atto – si traducono anche in minori opportunità di sviluppo di talento manageriale e di crescita per le persone capaci alle quali, soprattutto nel nostro paese, non resta che cercare sfide adeguate all’estero o in quelle imprese multinazionali che riescono a prosperare anche in questa congiuntura. Occorrerebbe riflettere attentamente sul fatto che una delle conseguenze negative che avremo nel medio-lungo periodo, da gestire anche quando saremo finalmente fuori dal tunnel, sarà una relativa scarsità di personale dirigente maturato in incarichi di complessità e responsabilità adeguati. È come se il fenomeno della polarizzazione al quale assistiamo nella società (e nella politica, dominata appunto dal “leaderismo”) si stesse manifestando anche nelle imprese, nelle quali, a un’élite ristretta di dirigenti apicali dotati di grande potere e di altrettanto grandi incentivi, corrisponde solo una massa di esecutori, essendo stata molto compressa una fascia intermedia di manager dalla quale attingere al momento opportuno i talenti necessari al ricambio.

Se guardiamo a questo fenomeno dal punto di vista dell’impresa non è possibile quindi non riconoscere l’importanza di riuscire a selezionare per le posizioni più importanti e delicate le persone migliori e più capaci, siano esse già presenti in impresa o ricercate nel mercato del lavoro esterno. Succedere al vertice, mantenere e gestire la motivazione degli aspiranti a quella posizione, reagire in modo appropriato nel caso in cui le proprie aspettative di carriera vengano frustrate (altamente probabile a mano a mano che ci si avvicina all’apice della struttura, perché alto è in genere il numero di aspiranti in rapporto all’unico posto disponibile) sono dunque temi che dall’esercito napoleonico ad oggi non hanno perso né la propria attualità né la propria rilevanza. Il punto di partenza di queste nostre brevi riflessioni ci viene offerto, una volta tanto, da un lavoro di ricerca condotto da un team per due terzi italiano, guidato dalla collega Silvia Bagdadli, professore associato di organizzazione aziendale in Bocconi ed esperta di gestione del personale. In un articolo comparso qualche anno fa, ma che non ha nel frattempo perso la propria attualità, lei e i suoi colleghi hanno dimostrato in che modo è possibile per le aziende scegliere tra candidati alternativi per una stessa posizione dirigenziale e mantenere elevato nello stesso tempo il livello di impegno verso l’organizzazione anche degli aspiranti esclusi.[1] La variabile chiave è l’equità con la quale il processo di selezione/successione viene condotto.[2] Che l’equità giochi un ruolo fondamentale nella relazione tra gli individui e le imprese per le quali lavorano è cosa nota da tempo. Gli esperti, riprendendo concetti sviluppati nel contesto dell’amministrazione della giustizia civile e penale, distinguono tre tipi di equità: distributiva, procedurale e di interazione. Con la prima si intende l’equità con la quale i premi o le punizioni sono distribuiti in rapporto ai comportamenti virtuosi o viceversa riprovevoli esibiti da individui diversi. Il principio di fondo, in questo caso, è quello che vuole che a parità di contributo siano pari anche gli incentivi ricevuti (il che, nel caso delle pene, vuol dire che reati di pari gravità siano puniti in modo simile). Gli esseri umani sono sensibilissimi al tema della giustizia: distribuire risorse scarse sulla base di un criterio accettabile da tutti, scoraggiando nel contempo comportamenti opportunistici e prepotenti oppure evitando esclusioni arbitrarie, è una capacità che sta alla base della convivenza umana in comunità organizzate non solo gerarchicamente, sulla base della forza relativa, ma anche su principi di solidarietà e sostegno reciproco. Abbiamo imparato a essere giusti per adattarci meglio di altre specie a un ambiente complesso e pericoloso e dentro di noi l’idea di cosa sia giusto e cosa no è così radicata da essere rinvenibile anche nei bambini. Anche in azienda continuiamo a osservare come veniamo trattati in rapporto a quanto accade a persone simili a noi. Se viene promosso alla posizione alla quale aspiravamo un collega che riteniamo più esperto e più capace di noi dovremmo accettare di buon grado un esito giusto. Viceversa, se questo successo arride a una persona che pensiamo abbia dato un contributo inferiore al nostro all’impresa per la quale lavoriamo, saremo tentati di andarcene, sia fisicamente sia riducendo il nostro livello di impegno verso l’impresa nel caso in cui una fuga verso un’alternativa non fosse possibile o fosse giudicata troppo costosa. Sono infatti proprio questi due (uscita e riduzione del commitment) gli effetti che la ricerca ha rilevato come più frequenti nel caso di rottura nell’attesa di equità di trattamento a causa di una mancata promozione. L’esercizio effettivo della “meritocrazia”, da più parti oggi invocata come panacea per tutti i mali profondi del nostro paese, è complicato dal fatto che i giudizi di equità che stiamo esaminando possono essere profondamente influenzati da distorsioni percettive e cognitive individuali. Sappiamo infatti che tendiamo a proteggere l’immagine che abbiamo di noi stessi e il nostro livello di autostima. Il che ci porta, per esempio, ad attribuirci i meriti per un successo e a maledire il fato in caso di un fallimento e ad essere pronti a fare esattamente il contrario nel caso in cui giudichiamo comportamenti e risultati di un altro individuo. E non bisogna essere necessariamente dei narcisisti conclamati per sopravvalutare i propri risultati in rapporto alle ricompense che riceviamo e a quanto vediamo fare e ottenere da altri che, erroneamente, consideriamo inferiori a noi. Per non parlare di tutte le attività di impression management che noi e gli altri concorrenti alla medesima posizione possiamo strategicamente mettere in atto per influenzare, manipolandola, la percezione dei nostri meriti relativi.[3] Insomma: siamo tutt’altro che buoni giudici e forse non lo sarebbero nemmeno gli umani come noi che siedono sullo scranno più alto di un’aula di tribunale se fossero lasciati da soli con la propria coscienza e con i propri filtri percettivi e cognitivi a giudicare della vita e, in sempre meno paesi per fortuna, anche della morte di propri simili. Senza contare che, nelle imprese, le distorsioni tendono a cumularsi e rafforzarsi nell’elaborazione collettiva di informazioni, punti di vista, pregiudizi e pettegolezzi.

Per questo è necessaria la seconda forma di equità: quella procedurale. Non conta infatti solo il risultato finale, ovvero il delicato equilibrio tra prestazioni e premi/punizioni in relazione a quanto ottenuto da altri con i quali ci confrontiamo, ma il modo con il quale quel risultato è stato definito e raggiunto. Ci vuole un giusto processo affinché la sentenza possa essere ritenuta equa anche da chi viene giudicato. E questo è esattamente quello che i ricercatori guidati da Bagdadli hanno provato: se la procedura che un’azienda segue nel decidere in merito alle promozioni è ritenuta equa, anche l’esito della procedura stessa viene ritenuto equo (anche se eventualmente sfavorevole per il diretto interessato). Le procedure sono infatti lo strumento attraverso il quale è possibile contenere i rischi di un’eccessiva soggettività nel giudizio a causa di tutte le distorsioni possibili alle quali abbiamo fatto cenno. Occorre allora chiedersi cosa rende una procedura equa. La risposta migliore l’ha suggerita un grande studioso della giustizia come John Rawls: una procedura è equa quando può essere accettata da chiunque con un velo di ignoranza sugli occhi. Ovvero prima di sapere quale ruolo avremo nella sua applicazione. Una procedura è quindi idealmente equa quando è accettabile senza sapere se ci toccherà un giorno il ruolo di giudice, pubblico ministero, avvocato difensore o imputato. Nessuno trae vantaggi certi o viene pregiudizialmente colpito nei propri interessi. Tanto per fare un ulteriore esempio con riferimento alle cronache di questi mesi, una legge elettorale equa sarebbe quella che non garantisce a priori vantaggi per nessuno di coloro che hanno contribuito a scriverla e approvarla: a ciascun lettore il compito di misurare la distanza del reale dall’ideale anche in questo delicato campo e non solo nel nostro travagliato e fantasioso paese. Tornando alle aziende e ai processi di selezione e promozione, in particolare al vertice dell’organizzazione, l’equità della procedura comporta in genere almeno i seguenti elementi: la raccolta di informazioni e dati “oggettivi” sul percorso professionale e sui risultati conseguiti dal candidato lungo tutta la sua esperienza in azienda; la valutazione comparata di più profili per la stessa posizione condotta anche con l’aiuto di risorse specializzate, a cominciare dalla funzione del personale; la raccolta strutturata di opinioni da parte di colleghi, collaboratori e capi del candidato; la valutazione del potenziale dei candidati in rapporto al profilo di competenza e ai comportamenti/risultati attesi nel ruolo da ricoprire (profilo che deve essere opportunamente definito e reso esplicito); colloqui diretti e approfonditi con i candidati, condotti anche questi con l’ausilio di esperti in modo da verificare anche gli aspetti più personali e i livelli di motivazione dei singoli; esplicitazione del processo di scelta e dei criteri che lo hanno ispirato; comunicazione appropriata dell’esito finale a ciascuno dei candidati alla posizione da ricoprire. L’elenco potrebbe essere anche più lungo. Quello che vogliamo però che sia immediatamente chiaro è che la selezione e la promozione a posizioni chiave all’interno dell’organizzazione (tralasciando qui il caso di assunzioni dall’esterno per la stessa posizione) è un processo delicato e complesso che deve seguire un iter strutturato per essere giudicato equo e che si avvale di sistemi di gestione del personale sviluppati. È pressoché impossibile, infatti, gestire al meglio questa attività se si opera in un’azienda dove non esistono sistemi di definizione degli obiettivi e di valutazione dei risultati adeguati, se la valutazione del personale non è condotta in modo strutturato, ricorrente nel tempo e documentato in modo accessibile anche a distanza di anni, se non ci sono sistemi di mappatura delle competenze, tavole di rimpiazzo e processi formativi adeguati allo sviluppo dei talenti necessari; se i vertici attuali dell’azienda, incluso chi ricopre la posizione che deve essere nuovamente occupata, non danno importanza allo sviluppo del capitale umano e non lo ritengono una risorsa competitiva critica. Questo contribuisce a spiegare perché le piccole e medie imprese, soprattutto se con un imprenditore forte ancora saldamente al comando, fanno spesso fatica a gestire i processi di selezione e inserimento al vertice delle strutture. In questi ambienti, e in altri dove l’assenza di pressione competitiva fa sì che le dinamiche del personale siano soprattutto dinamiche di potere, si riscontra anche spesso il tentativo di utilizzare procedure come quelle che abbiamo descritto per mascherare scelte compiute per cooptazione arbitraria del candidato prediletto da chi esercita il controllo e ha più potere o semplicemente piazzando nelle posizioni di comando i membri della famiglia proprietaria. Questo utilizzo manipolatorio di procedure formali, così come l’alternarsi opportunistico e arbitrario tra criteri di selezione diversi ma messi tutti al servizio della stessa potente discrezionalità, fanno sicuramente più danni rispetto all’equità percepita del processo di selezione rispetto alla scelta esplicita di ricorrere ad altri sistemi: dall’elezione all’ereditarietà, dai concorsi allo scatto per anzianità, fino ai riti che regolano la vita delle comunità governate da una leadership carismatica.

Se si vuole invece approfondire le modalità attraverso le quali in un’organizzazione moderna, caratterizzata, secondo Weber, da una struttura di potere razionale-legale, le cose importanti come quella di cui ci stiamo occupando possono essere fatte per bene e per tempo, conviene andarsi a riguardare il modo con il quale tra il 1994 e il 2001 (sono occorsi infatti ben sette anni per completare il processo) General Electric ha gestito la successione al suo mitico CEO Jack Welch.[4] La gara a tre fra Jeff Immelt, risultato alla fine vincitore,[5] Jim McNerney e Bob Nardelli è un fantastico esempio di buone pratiche manageriali e di capacità di gestire il personale di qualità elevata o, come si ama dire oggi, i talenti. Compresa l’uscita attesa dei due “perdenti”, finiti il primo a dirigere 3M (e successivamente Boeing) e il secondo Home Depot (con una ulteriore e meno fortunata esperienza al vertice di Crysler). A testimonianza del fatto che tutti e tre i candidati erano stati riconosciuti correttamente dal processo di selezione come persone pronte per assumere la direzione di un’azienda complessa. Diversi ulteriori studi a proposito di queste dinamiche hanno, per esempio, messo in luce come non sia solo la successione al vertice dell’impresa ma anche la mobilità dei senior manager che spesso l’accompagna (soprattutto se a essere nominato CEO è un esterno all’azienda) ad avere un impatto sui risultati dell’impresa stessa;[6] o esplorato l’utilità di indicare con largo anticipo un successore in pectore del CEO attuale[7] piuttosto che i vantaggi che derivano dal rimanere a lungo nella stessa impresa per raggiungerne il vertice, piuttosto che tentare di acquisire la visibilità e lo status necessari per aspirare a quella posizione cambiando un buon numero di imprese diverse.[8] A noi qui interessa piuttosto concludere richiamando l’importanza di un terzo tipo di equità necessaria a mitigare le conseguenze negative di un aspetto solitamente trascurato del processo. Si tratta dello stress da minaccia da valutazione sociale (social evaluative threat) che devono sopportare i partecipanti a tornei come quello organizzato e gestito per lunghi anni da GE. I neuropsicologi hanno infatti scoperto che nelle situazioni nelle quali noi e le nostre performance siamo sottoposti a una valutazione che potrebbe impattare negativamente sui nostri livelli di autostima e di autoefficacia – e quanto più è ampio il pubblico che assiste alla valutazione, elevata la probabilità di insuccesso e scarsa la possibilità di impegnarsi per influenzare l’esito della valutazione (tutte condizioni che si ritrovano proprio in occasione dei processi esaminati qui) – tanto più alti sono i livelli di cortisolo nel sangue dei soggetti interessati dalla valutazione.[9] Il cortisolo è l’ormone dello stress capace nel breve di attivare le risorse fisiche necessarie per fuggire/attaccare come risposta a una minaccia percepita, ma responsabile nel lungo, quando lo stress indotto da fattori emozionali e relazionali e non più da minacce fisiche si fa cronico, delle peggiori conseguenze sulla salute di tutti noi: dalle malattie cardiovascolari all’insorgere di tumori. Per mitigare queste conseguenze negative dicevamo che potrebbe essere utile una terza forma di giustizia organizzativa: quella che si manifesta nelle interazioni tra i soggetti interessati dal processo di selezione e promozione.[10] Si tratta del rispetto e del modo appropriato con il quale chiunque dovrebbe essere trattato. Con una particolare attenzione per categorie solitamente discriminate come le donne e gli appartenenti a minoranze etniche. Ci vuol poco a trattare male qualcuno nel processo di selezione e promozione: basta non dargli il tempo sufficiente e l’attenzione necessaria affinché possa dimostrare di avere tutti i requisiti necessari per la nuova posizione o utilizzare il sarcasmo, la maldicenza e l’ostracismo per ostacolarne la corsa. Colquitt suggerisce un’altra forma di equità nell’interazione che attiene alla gestione delle informazioni e ai processi di comunicazione.[11] Si va dall’estremo positivo di Jack Welch, che un secondo dopo avere preso la decisione finale insieme al suo board in merito al successore si intrattiene a lungo e personalmente con ciascuno dei due candidati “scartati” per dare loro la notizia e discuterne le conseguenze, a quello molto comune nelle nostre aziende dove i vertici soffrono di una perniciosa afasia quando si tratta di comunicare in modo puntuale, affidabile, preciso e personale sia le buone sia le cattive notizie.

Eppure alla fine, meglio – come speriamo di avervi dimostrato – se nel modo più equo possibile, può darsi benissimo che la promozione alla quale aspiravate non arrivi. Che la vostra azienda vi preferisca un altro o un’altra. Come recita una nota canzoncina, ci sono infatti posizioni per le quali solo uno su mille ce la fa: e contro la statistica e la quasi certezza che ci siano tra i mille persone brave quanto e più di noi, è difficile vincere. Che fare allora del bastone che avete segretamente accarezzato per lunghi anni e con il quale avete sfilato in immaginaria parata d’onore davanti allo specchio? No, non siate violenti o autolesionisti nel decidere dove e come riporlo. Conviene pensare che ora il vostro zaino, senza il peso di quel bastone e del carico di ambizioni che gli avevate legato, è assai più leggero. Potete viaggiare più spediti. Verso nuove mete e, forse, migliori compagnie.

 

P.S. A proposito di promozioni a incarichi importanti, segnaliamo con piacere che lavorare per Economia & Management ha un effetto positivo. Il nostro amico e collega Andrea Sironi, vicedirettore di questa rivista, è stato infatti meritatamente scelto dal CdA dell’Università come rettore della Bocconi. Siamo certi che tutti i nostri lettori si uniscono a noi, al comitato editoriale e all’editore nel ringraziare Andrea per il contributo prezioso che ha dato in tanti anni al successo di Economia & Management e nell’augurargli ogni fortuna nell’assolvere al nuovo e delicato incarico che gli è stato affidato.

1

Bagdadli S., Robertson Q., Paoletti F., “The Mediating Role of Procedural Justice in Responses to Promotion Decision”, Journal of Business and Psychology, 2006.

2

In questo articolo parleremo di varie forme di equità anche se nelle scienze organizzative si è sviluppata, partendo proprio da riflessioni sull’equità, una prospettiva teorica e di ricerca empirica che indaga la “giustizia organizzativa”.

3

Perrone V., “Che impressione! Management ed economia della bella figura”, Economia & Management, n. 1, 2012, pp. 3-7.

4

Bartlett C.A., McLean A.N., GE’s Talent Machine: The making of a new Ceo, Case Study n. 9-304-049, Harvard Business School, November 3, Boston, 2006.

5

È interessante ricordare che la scrupolosità del processo di selezione era anche determinata da fatto di volere assicurare al nuovo CEO una tenure attesa di almeno dieci anni, ritenuto il tempo minimo necessario per essere davvero in grado di comprendere, governare e sviluppare un colosso delle dimensioni di un medio Stato nazionale come GE.

6

Shen W., Cannella A.A., “Revisiting the Performance Consequences of Ceo Succession: The impacts of successor type, postsuccession senior executive turnover, and departing Ceo tenure”, Academy of Management Journal, vol. 45, n. 4, 2002, pp. 717-733.

7

Cannella A.A., Shen W., “So Close and Yet So Far: Promotion versus exit for Ceo heirs apparent”, Academy of Management Journal, vol. 44, n. 2, 2001, pp. 252-270.

8

Hamori M., Kakarika M., “External Labor Market Strategy and Career Success, Ceo Careers in Europe and the United States”, Human Resource Management, May-June, vol. 48, n. 3, 2009, pp. 355-378.

9

Dickerson S.S., Kemeny M.E. 2004, “Acute Stressors and Cortisol Responses: A theoretical integration and synthesis of laboratory research”, Psychological Bulletin, vol. 130, n. 3, 2004, pp. 355-391.

10

Bies R.J., Moag J.F., “Interactional Justice: Communication criteria of fairness”, in R.J. Lewicki, B.H. Sheppard, M.H. Bazerman (Eds.), Research on Negotiations in Organizations, vol. 1, JAI Press, Greenwich, 1986, pp. 43-55.

11

Colquitt J.A., “On the Dimensionality of Organizational Justice: A construct validation of a measure”, Journal of Applied Psychology, 86, 2001, pp. 386-400.