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2009/6
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L’inchiesta e l’invettiva
Che cos’è diventato il capitalismo nell’epoca della crisi globale? Michael Moore, già regista del discusso Fahrenheit 9/11 , con il suo ultimo film Capitalism: A Love Story prova a ragionare sul costitutivo innamoramento degli americani per il capitalismo anche di fronte a dati che dicono che il 99% degli abitanti USA ha sempre di meno e che l’1% ha sempre di più. Ma più che i toni dell’inchiesta, il documentario ha quelli dell’invettiva.
Capitalism: A Love Story
Regia: Michael Moore
Film documentario
USA, 2009
A vent’anni esatti da Roger & Me, il più radical dei registi americani, Michael Moore, torna su una delle tematiche che più gli sono care: gli effetti a suo dire disastrosi prodotti dal dominio delle grandi Corporations sulla vita degli abitanti degli Stati Uniti d’America. Capitalism: A Love Story, presentato in anteprima alla Mostra del Cinema di Venezia, racconta la relazione d’amore fra il capitalismo e il popolo americano: ma lo fa ricordando come anche questa storia, come tutte le storie d’amore, sia fatta soprattutto di illusioni, inganni e tradimenti. Sullo sfondo del passaggio di consegne tra l’entrante amministrazione del neoeletto Barack Obama e quella uscente dell’ex presidente Bush, il documentario mostra le conseguenze provocate negli Stati Uniti dalla crisi economica mondiale e le responsabilità delle grandi banche nel disagio provocato nelle esistenze non solo dei cittadini americani, ma anche negli abitanti del resto del mondo. “Un conto – ha scritto autorevolmente Natalia Aspesi – è leggere dei numeri, un conto è vedere le facce sperdute, incredule, delle vittime di questo disastro, come ce le mostra con rabbia dolorosa e gentile ironia l’atteso documentario di Michael Moore.” Rispetto ai suoi film precedenti – fra cui ricordiamo almeno Bowling for Colombine sull’ossessione americana per le armi da fuoco; Fahrenheit 9/11, furente e sofferta rilettura delle premesse e delle conseguenze dell’attacco terroristico alle Twin Towers, e Sicko, sullo scandalo del sistema sanitario americano – questa volta Moore, come consapevole della difficoltà e dell’ambizione del compito che si è autoattribuito, si muove su due piani: da una parte fa “controinformazione” rivelando azioni e comportamenti poco noti, dall’altra attacca con le armi dell’ironia e del sarcasmo gli eccessi più macroscopici della finanza americana. Ma il risultato convince solo fino a un certo punto e desta più di una perplessità. Come affermano, sia pure con accenti diversi, Severino Salvemini e Gianni Canova nel dialogo che segue.
S.S. Io ho un po’ l’impressione che il grande talento analitico di Moore si sia come affievolito, o snervato. Il tema che affronta in questo film, certo, è di grande complessità, e vedendo il suo lavoro più di una volta si ha la sensazione che Moore non abbia gli strumenti critici e gnoseologici per maneggiare tale complessità e per sintetizzarla attraverso il linguaggio filmico in modo efficace…
Finché si trattava di raccontare la crisi di una fabbrica, o di una città, la sua Flint, Moore riusciva a fornire informazioni sorprendenti. Questa volta, avendo nel mirino qualcosa di impossibile da circoscrivere o da perimetrare, le sue incursioni con la macchina da presa mi sembra non funzionino più come prima.
G.C. Io sarei anche più severo. Ormai Michael Moore sembra sempre più la versione yankee del Gabibbo. Quando in Capitalism si mette a cingere tutta Wall Street con il nastro adesivo giallo e nero con cui le forze dell’ordine sono solite delimitare la “scena del delitto”, Michael Moore non è più né situazionista né radical, ma semplicemente goliardico. E il suo film perde del tutto i caratteri dell’inchiesta (e della denuncia fondata sui risultati dell’inchiesta…) per assumere quelli dell’invettiva o del pamphlet. Che sono – per carità – forme antiche e collaudate di comunicazione politica (in fondo le usava già Cicerone nelle Catilinarie), ma che ormai sono diventate – qui come negli States – l’unica forma di comunicazione che trova eco e spazio e udienza nella stragrande maggioranza dei mezzi di comunicazione di massa. L’invettiva, si sa, non produce conoscenza, si limita a rafforzare il senso di appartenenza. Non scopre dati prima sconosciuti, non collega informazioni prima irrelate: si accontenta di insultare l’avversario, spesso infangandolo, per poi ribadire il proprio dogma, e la propria facile e pelosa verità. Tra tutte le forme di comunicazione è la più subdola e la più retriva. E Moore non usa che quella dall’inizio alla fine del film…
S.S. Forse stai esagerando. Ci sono brani e inserti divertenti, come quando, all’inizio, istituisce confronti e paragoni fra la situazione dell’impero romano in decadenza e quella della nostra società contemporanea, oppure quando usa il doppiaggio in modo disinvolto per fornirci una versione iperliberista del Gesù di Nazareth di Zeffirelli…
G.C. Cosucce, quisquilie. Io, lo confesso, non mi diverto più. Mi irrito. E non per quello che dice Moore, per carità, ma per come lo dice. Se il capitalismo fosse quella cosuccia un po’ ridicola e grossolana che parrebbe suggerirci il regista di Fahrenheit 9/11, forse l’umanità se ne sarebbe sbarazzata già da un pezzo, e la love story fra popolo americano e capitalismo sarebbe morta e sepolta. E invece le cose sono un po’ più complicate, un po’ meno scontate, un po’ più complesse. Ed è proprio questa refrattarietà ad affrontare la complessità che delude nell’ultimo Moore, questa incapacità di essere semplice ma profondo, questo imboccare senza esitazioni la scorciatoia populista e demagogica che è tipica, guarda caso, proprio di coloro che il film vorrebbe combattere e dileggiare.
S.S. Io credo si debba comunque riconoscere a Michael Moore un talentaccio politico senza pari, che lo porta a fiutare in anticipo i temi caldi dell’agenda politica americana. Il progetto di Capitalism: A Love Story risale a poco più di un anno fa, a ridosso dell’esplosione più virulenta della crisi con il fallimento di Lehman Brothers. Ne avesse fatto un instant movie, avesse scavato su quella storia, cercando di trarne volti, racconti, notizie, forse il suo film sarebbe stato diverso. Invece ha impiegato più di un anno a farlo, ma senza mettere a punto quell’indagine ad ampio respiro che pure aveva promesso. Ecco: quello che manca all’ultimo Moore è la capacità di fare indagine che aveva caratterizzato i suoi lavori migliori… D’altro canto, però, non bisogna scordare che l’intento di Moore non è mai sovvertire il sistema, bensì riportarlo alla sua purezza originaria. Moore si indigna quando vede che nel suo paese esiste un gruppo immobiliare che si autodefinisce gli Avvoltoi, il cui fine dichiarato è acquistare a prezzi stracciati case già pignorate per poi rivenderle facendo profitti, mentre la classe media vede falcidiati i propri beni primari dalla rapacità di banche prive di qualsiasi seppur remoto scrupolo. C’è sempre un candore di fondo nell’atteggiamento con cui Moore racconta la sua America. Un candore e in fondo anche uno stupore. Moore non è il liquidatore fallimentare del sogno americano, è il suo aspirante restauratore…
G.C. Io continuo a pensare che per restaurare la purezza perduta del sogno americano ci voglia ben altro. Moore ci va vicino solo in un passaggio del film, quando con un vero colpo da maestro del cinema di montaggio utilizza uno spezzone in cui Roosevelt, dalla Casa Bianca, spiega agli americani il suo ideale di società democratica, mettendo in chiaro per tutti che non sempre è possibile né legittimo continuare a confondere capitalismo e democrazia.