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2009/3
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La precarietà sta diventando una condizione fisiologica dello status professionale delle giovani generazioni? Una forma non più patologica nelle relazioni di lavoro? Il film di Massimo Venier Generazione 1000 Euro affronta il problema con leggerezza ma anche con profondità. E prospetta alcune soluzioni che fanno riflettere.
Generazione 1000 Euro
Regia: Massimo Venier
Interpreti: Alessandro Tiberi, Valentina Lodovini, Carolina Crescentini, Paolo Villaggio
Italia, 2009
“Sono un luogo comune.” Si presenta così il protagonista del nuovo film di Massimo Venier Generazione 1000 Euro, girato a Milano e incentrato sulla condizione professionale dei giovani che si affacciano in tempi di crisi sul mercato del lavoro. Laureato a pieni voti in matematica, Matteo fa l’assistente (meglio: il cultore della materia, a titolo gratuito, all’università) e per sbarcare il lunario lavora nell’ufficio marketing di una multinazionale in fase di riassetto organizzativo. La precarietà è la sua condizione non solo economico-professionale, ma anche – per così dire – “esistenziale”: precario negli affetti (la sua ex gli ha appena chiesto la fatidica pausa di riflessione) e nell’alloggio (è sotto perenne pericolo di sfratto perché il proprietario dell’appartamento che condivide con un amico, precario come lui, non tollera più i ritardi nel pagamento dell’affitto…), Matteo galleggia in uno stato di totale instabilità, e fatica a prendere decisioni impegnative per il suo futuro. Intanto aspetta, vivacchia, sopravvive. Forse nell’attesa che nel frattempo accada qualcosa che scelga per lui, e lo esoneri dalla responsabilità di fare delle scelte. Il film è tratto dall’omonimo romanzo di Antonio Incervaia e Alessandro Rimassa, divenuto una sorta di fenomeno di costume: prima diffuso on line, poi uscito in libreria, è stato “adottato” dalla generazione dei trentenni di oggi, che vede il futuro come una scommessa. Il tono del film è leggero, frizzante, da commedia brillante hollywoodiana: Venier (già regista dei primi film del trio Aldo, Giovanni & Giacomo) non giudica e non pontifica, racconta. Lo fa come avrebbero potuto farlo, in passato, Pietro Germi o Vittorio De Sica. Ma facendolo riesce a mettere a fuoco questioni complesse e non banali che riguardano il rapporto delle nuove generazioni con il mondo del lavoro e, più in generale, con la vita. Ne discutono, come di consueto, Gianni Canova e Severino Salvemini.
S.S. Ho apprezzato molto il fatto che il film lasci intendere con chiarezza che su questioni come quella delle relazioni di lavoro non ci sono scienze esatte, nemmeno la matematica insegnata all’università dal protagonista e dal suo maestro (Paolo Villaggio), ormai in procinto di pensione. Il precariato non è più rappresentato come una tragedia epocale ma come una condizione fisiologica del mercato del lavoro, soprattutto in tempi di crisi come quelli che sta attraversando oggi l’economia.
G.C. Però, a differenza di altri film, anche recenti, che hanno affrontato temi analoghi – penso a Tutta la vita davanti di Virzì o a Fuga dal call center di Federico Rizzo – Generazione 1000 Euro ha il pregio di mostrare una pluralità di situazioni non tutte esattamente omologate. Mi riferisco, per esempio, al fatto che nel film si dà conto di come alcune “vecchie” professioni (il medico, o l’insegnante) continuino a essere meno “precarie” di altre. E forse non è un caso che a sceglierle siano soprattutto i personaggi femminili del film…
S.S. È vero. Le due “fidanzate” del protagonista (la ex e la nuova) hanno meno ambizioni creative (il che non significa che abbiano meno ambizioni in assoluto…) e riescono a trovare una collocazione professionale meno instabile. D’altro canto, c’è anche chi ha teorizzato la precarietà come condizione necessaria nelle professioni creative: Giorgio Gori e Oliviero Toscani, per esempio, hanno sostenuto che solo in condizioni di stress e di instabilità il creativo è indotto a dare il meglio di sé, e che non esistono professioni creative – come dire – stabilizzate dal punto di vista contrattuale…
G.C. ... il che, però, non mi pare del tutto condivisibile. Perché mai la condizione creativa deve continuare a rientrare per forza nello stereotipo del bohémien? Una cosa sono l’elasticità organizzativa e la flessibilità contrattuale, altra cosa è la mancanza totale di stabilità, o l’insicurezza come stato permanente della quotidianità in un mercato del lavoro in cui è ancora troppo difficile e complesso il rientro da parte di chi è stato costretto a uscire dall’organizzazione in cui operava in precedenza.
S.S. Questo è vero. Come è anche vero, però, che la scelta finale del protagonista di rinunciare a un posto di lavoro sicuro a Barcellona, in un ruolo ben remunerato ma poco gratificante, per assumersi il rischio di continuare a coltivare i propri sogni e le proprie ambizioni, è una scelta che credo molti giovani oggi condividerebbero volentieri. È una questione di employability: il singolo investe sempre più spesso sulle proprie competenze e sul proprio talento, invece che affidarsi a occhi chiusi a un’organizzazione. E anche all’interno delle organizzazioni la carriera è sempre più soggettiva e meno oggettiva, meno standardizzata. Come scrive Zygmunt Bauman nel suo saggio L’arte della vita (Laterza), “ognuno di noi è artista della propria vita: che lo sappia o no, che lo voglia o no, che gli piaccia o no. Essere artista significa dare forma e struttura a ciò che altrimenti sarebbe informe e indefinito. Significa manipolare probabilità”. Nella società liquida conta sempre di più saper negoziare il proprio destino. Se un giovane ha la forza psicologica per sostenere lo stress della precarietà, ha molte più probabilità di riuscire a concretizzare le proprie ambizioni e aspirazioni…
G.C. È vero. Alla fine, il film non è un carpe diem movie. Il finale smentisce quello che il protagonista aveva detto in precedenza: “Se non ho quello che voglio, mi convinco di volere quello che ho”. Piuttosto, a uscire un po’ a pezzi, nel film, è la centralità del marketing in molte organizzazioni aziendali contemporanee. La bionda maliarda interpretata da Carolina Crescentini, la manager che cerca di portare con sé a Barcellona il candido Matteo, a un certo punto gli dice esplicitamente: “Noi pensiamo alle bugie, e tu a farle sembrar vere…”. Quasi a suggerire che per vendere un brand o un prodotto serve comunque uno con la faccia di chi crede ancora in quello che dice e in quello che fa.
S.S. Questa è una delle frecce più acuminate che Venier infila nella faretra di Generazione 1000 Euro. Siamo ancora a Packard e ai “persuasori occulti”? Chissà. Certo, la manipolazione è sempre possibile. E a volte il marketing, purtroppo, si riduce a questo: a produrre manipolazione e a generare bisogni indotti. Ma forse anche questo, come il protagonista del film, è solo un “luogo comune”.