E&M

2009/3

Giuseppe Soda

"Ma sei proprio tu?” Relazioni, reti ed economia ai tempi del social networking

Al finire del giorno in cui leggerete questo editoriale, quando l’ultimo computer sarà spento, circa 50 milioni di persone avranno speso in media venti minuti del proprio tempo nell’interazione sociale mediata dalla tecnologia, ciò che nel linguaggio corrente è conosciuto come “social networking”. Un totale di un miliardo di minuti, che corrispondono a circa 16 milioni di ore, 694.444 giorni, ossia 1902 anni. Anche quel giorno, il genere umano avrà dedicato alla piattaforma di social network Facebook un tempo quasi pari alla storia del cristianesimo.

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Seppure con qualche primo labile segnale di crisi, i numeri sulle comunità di social network si commentano da soli. Un fenomeno impressionante anche per l’impatto intergenerazionale che le diverse piattaforme, Facebook in testa, stanno esercitando. L’imponenza del fenomeno produce diversi effetti, incluse le distorsioni semantiche.

Nel linguaggio emergente il termine social networking sembra essere riferito esclusivamente alle relazioni che viaggiano attraverso le reti informatiche, come se incontrare gli amici al bar o nelle piazze non coincidesse più con il concetto di rete sociale. In verità, l’unica differenza è che il luogo dello scambio “sociale” non è un luogo fisico o, se non raramente, un compito o un’attività, ma la sincronia di emozioni, scambi di idee e di ricordi affidata alla tecnologia e al suo straordinario potere di mediazione. Ormai semideserti i luoghi dell’aggregazione di matrice ideale e politica, scomparsi o lasciati a nuovi gruppi sociali i luoghi di incontro tradizionali e le piazze, la socialità nell’era postmoderna e nelle società avanzate si esprime attraverso l’interazione efficiente, dinamica e multidimensionale assicurata dalle piattaforme tecnologiche. Se prendiamo il solo esempio di Facebook, che nel giugno di quest’anno è diventato il social network più grande al mondo, con dati che ogni giorno rischiano di essere obsoleti (quando questo articolo uscirà gli utenti saranno cresciuti al ritmo di almeno il 3% a settimana), possiamo stimare circa 132 milioni di visitatori mensili, una crescita del 35% rispetto alla fine del 2007, e si parla ormai di 200 milioni di utenti. I ritmi sono quelli di una media di 250.000 nuove registrazioni giornaliere da gennaio 2007 e un numero di utenti che raddoppia ogni sei mesi. Facebook è poi un motore per lo sviluppo di network tematici: si stimano circa 55.000 network a base geografica, professionale, di interesse. Oltre la metà degli utenti Facebook non sono studenti e il gruppo che negli ultimi mesi cresce con il maggior ritmo è quello che supera i trent’anni di età. Alla fine di luglio l’Italia, paese per molti versi allergico alla tecnologia ma tradizionalmente predisposto agli “amici degli amici”, contava circa 600.000 utenti con un ritmo di crescita su base annua del 139%, seconda solo alla Grecia (con il 181%) in Europa, e seguita dalla Spagna con il 132%. Di fronte agli esangui tassi di crescita dei principali indicatori economici, questi numeri destano una certa impressione.

La macchina del tempo e il mondo ancora più piccolo

Le implicazioni di costume legate al fenomeno social network, che pure tanta attenzione suscitano nei media e nel dibattito pubblico, sono in fondo quelle più superficiali. Più interessanti appaiono le trasformazioni nei modelli di interazione sociale che la diffusione dei social network mette in luce. Per le nuove generazioni i social network rappresentano un’innovativa forma di interazione e di costruzione di nuove relazioni, o presunte tali. Ma è per le persone con maggiore esperienza ed età che il fenomeno assume aspetti in grado di proiettare una luce nuova e diversa sul funzionamento della società contemporanea. Infatti, per le generazioni che portavano i calzoni corti quando il mezzo di interazione più sofisticato era il telefono, la nuova tecnologia ha in larga parte favorito la riattivazione di relazioni sociali passate, di contatti ibernati e inattivi in molti casi da tantissimi anni. Dal punto di vista scientifico, si tratta di un fenomeno interessante e che dà evidenza all’ipotesi per cui le relazioni sociali godano di una memoria propria, non soggettiva e condivisa da due o più individui. Il disgelo generalizzato delle relazioni passate, in larga parte scatenato dalla diffusione delle comunità sociali virtuali, induce molti studiosi a ripensare l’idea stessa di relazione sociale, eliminandone il carattere temporale. Così, Facebook funziona per molti come una vera e propria macchina del tempo. Vecchi compagni, colleghi, amici, vicini di casa e semplici conoscenti si ritrovano scambiando immagini e ricordi del passato. Stiamo non a caso parlando della principale piattaforma per la condivisione di foto nel web con una media di 14 milioni di foto caricate quotidianamente. Sovente, la riattivazione delle relazioni passate svela verità nascoste, si scoprono cose mai viste, si affidano alla rete parole mai dette, emozioni mai emerse nelle interazioni dirette e per molto tempo dimenticate. Il fenomeno assume anche aspetti decisamente più ironici – o tragici – con la diffusione del “lifting” da Facebook, ossia quei ritocchi al proprio aspetto per cancellare i segni lasciati inevitabilmente dallo scorrere del tempo e prepararsi a rigenerare la memoria relazionale attraverso la rigenerazione fisica affidata al chirurgo plastico. Tutto ciò per un consolante: “ma non sei cambiata/o affatto”. Emerge dunque una scoperta importante che ci aiuta a comprendere in profondità i complessi meccanismi di funzionamento della nostra società, che inevitabilmente riverberano sull’economia. Una rappresentazione statica della mappa delle relazioni di una persona o di un gruppo sociale è chiaramente riduttiva, poiché i network sociali si modificano continuamente attraverso l’attivazione di nuovi legami e la cancellazione di altri. Se alla dinamica corrente dei network aggiungiamo quella proiettata dalle relazioni passate, se cioè includiamo nella rappresentazione anche le relazioni passate, che come abbiamo visto sono facilmente riattivabili, allora la rete che permea una società diventa straordinariamente complessa, stratificata e in grado di connettere mondi e fasi della vita molto diverse tra loro. Italo Calvino aveva intuito questa complessità nelle sue Lezioni americane descrivendo il romanzo, e per analogia la vita di ciascuno di noi, come una grande rete multipla. Oggi sappiamo che questa rete non è rappresentabile con un’immagine temporalmente confinata, ma con uno schema che rompe i vincoli del tempo e introduce un nuovo concetto di tempo sociale e di memoria sociale. Le società appaiono così molto più simili ai sistemi complessi che credevamo confinati al mondo delle leggi astronomiche, fisiche o alle descrizioni più analitiche dei meccanismi e dei processi chimici e biologici. Questa rete complessa attraversa il tempo fisico e proietta un’immagine forse più realistica, sicuramente meno contingente, dell’identità di ciascuno di noi. Una prospettiva atemporale delle relazioni sociali, ossia l’impossibilità di impiegare realmente il tempo passato per descrivere le relazioni sociali di un individuo, crea un diverso modo di guardare a ciò che gli studiosi chiamano il “capitale sociale” e all’effetto che le relazioni hanno sulle azioni e sui comportamenti individuali. Infatti, la velocità e la facilità di riattivazione delle relazioni passate rende il mondo ancora più piccolo di come creduto sino ad oggi.

Un mondo sempre più piccolo

“Everybody on this planet is separated by only six other people. Six degrees of separation. Between us and everybody else on this planet. The president of the United States. A gondolier in Venice... It’s not just the big names. It’s anyone. A native in a rain forest. A  Tierra del Fuegan. An Eskimo. I am bound to everyone on this planet by a trail of six people. It’s a profound thought... How every person is a new door, opening to other worlds” (John Guare, Six Degrees of Separation: A Play, Vintage, New York, 1990).

Da qualche tempo è nata una nuova “scienza dei network” attorno al lavoro di studiosi come Duncan Watts o Steven Henry Strogatz, che hanno formalizzato l’intuizione di Stanley Milgram. Il fenomeno è certamente sorprendente. Nel 1967 Milgram intuì che il numero di passaggi per connettere due persone scelte in modo casuale fosse molto più piccolo di quanto siamo normalmente disposti a credere. In quello che è ormai divenuto un esperimento mitico, Milgram chiese a un centinaio di persone di Omaha (capitale dello Stato del Nebraska) di recapitare una lettera a una persona identificata solo dal nome (Sharon), dalla professione (operatore finanziario) e dalla città (Boston). A ogni partecipante all’esperimento veniva chiesto di trasmettere la lettera a un amico che egli considerava più vicino possibile all’imprecisa destinataria di Boston. E così la catena prendeva vita perché l’amico del soggetto partecipante avrebbe a sua volta passato la stessa lettera a un suo amico che egli riteneva vicino al target. In questo modo, l’aspettativa era che per arrivare a destinazione la lettera dovesse compiere decine di passaggi. Invece, analizzando il percorso seguito dalle lettere arrivate a destinazione Milgram osservò una lunghezza media di sei passaggi. Nacque così l’idea dei “sei gradi di separazione’”.

Sebbene a ciascuno di noi sia capitato almeno una volta di sperimentare quanto il mondo sia piccolo, dal punto di vista matematico il fenomeno è incredibile così come ben illustrato da Piergiorgio Odifreddi nel suo Matematico impertinente: “… se disponessimo l’umanità in un enorme girotondo e ciascuno conoscesse soltanto le 25 persone che stanno immediatamente alla sua destra, e le 25 alla sua sinistra, tra due persone agli antipodi del girotondo ci sarebbero non sei, ma 60 milioni di gradi di separazione!” (Longanesi, 2005, p. 231).

Watts e Strogatz hanno osservato che la caratteristica dei pochi gradi di separazione riguarda molti aspetti della vita sociale e non. Dagli studi è emerso che reti di relazioni di vari sistemi sociali, biologici, fisici, tecnologici ed economici mostrano un’architettura convergente. Riprendendo l’idea di Milgram questa architettura è oggi conosciuta con il nome di small world.

L’esempio più noto di small world è quello che riguarda il mondo del cinema. Kevin Bacon è un attore americano che ha recitato in moltissimi film: chi non lo ricorda, per esempio, in Mystic River, uno dei capolavori di Clint Eastwood? Esiste un sito Internet chiamato l’Oracolo di Bacon (Oracle of Bacon http://oracleofbacon.org/) che, partendo da Kevin Bacon, ha mappato la rete delle collaborazioni tra gli attori – chi ha lavorato con chi e in quali film – per circa 1,2 milioni di film e show televisivi. Il gioco che si può fare sul sito Bacon Oracle è molto interessante. Si sceglie un attore a caso, per esempio Thomas Milian, e si tenta di calcolare il suo “numero di Bacon”. Se Milian ha recitato insieme a Bacon in almeno un film, allora l’attore avrà un numero di Bacon pari a 1. In effetti, Milian era nel cast di JFK, il film diretto da Ridley Scott in cui recitava anche Kevin Bacon. Dunque il Bacon di Thomas Milian è 1. Se, invece, prendiamo l’attore Stefano Accorsi, che non ha mai recitato direttamente con Bacon, ma con John Hurt in Tabloid (2001), che a sua volta ha recitato con Kevin Bacon in New York, I Love You (2008), allora l’attore italiano ha un numero di Bacon pari a 2. L’esperimento consiste nel determinare per gli attori il percorso più breve fino a Bacon attraverso la catena delle collaborazioni. Se provate a fare un esperimento sarà molto difficile trovare un attore con un numero di Bacon superiore a 4. Senza alcuna ironia né fini politici, se si provasse a interrogare l’Oracolo di Bacon con l’attrice Veronica Lario, il suo numero di Bacon sarebbe sorprendentemente 3. Infatti, Veronica Lario recitò in Sotto… sotto… strapazzato da anomala passione (1984) con Luisa De Santis, che ha lavorato in Alla ricerca di Gregory (1969) con John Hurt che, come visto per Stefano Accorsi, ha lavorato con Bacon in New York, I Love You (2008). Dunque, ciò che immaginiamo essere la periferia estrema di un mondo come quello del cinema hollywoodiano, è in realtà molto vicino al suo centro: bastano solo tre passaggi.

In verità, il mondo non è piccolo perché le reti sociali prendono la forma di gruppi coesi dove tutti sono connessi con tutti e tutti conoscono un numero elevatissimo di persone, ma perché vi sono persone che fungono da perni di connessione e rendono possibili i contatti tra mondi altrimenti separati. Kevin Bacon ha dimostrato di essere, nel mondo del cinema, uno di questi perni di collegamento.

Le strutture di small world prendono forme varie e si pongono come strutture complesse intermedie tra un mondo segregato in piccole comunità isolate e un mondo molto più integrato, come si vede nella figura 1 (si veda pdf allegato).

Un mondo diverso?

Dunque, se le reti sociali contemporanee permettono di dimostrare l’esistenza di un mondo molto più piccolo e raggiungibile di quanto non appaia a prima vista, l’inclusione in questo small world delle relazioni passate riattivate grazie alle piattaforme tecnologiche produce effetti sorprendenti. I gradi di separazione si comprimono e le distanze sociali si annullano ancora di più.

Di là dalle descrizioni, si pone evidentemente la domanda su quali siano gli effetti di queste strutture relazionali di small world. È, questo mondo piccolo, più desiderabile di uno magari basato su cluster più limitati, più chiusi e isolati, di relazioni magari più stabili? Così come agevola la riattivazione delle relazioni passate, può il social networking mediato dalla tecnologia favorire – se non ha già imposto – una filosofia e una pratica “consumistica”, one-off delle relazioni amicali e affettive?

Difficile rispondere oggi. Certo, la ricerca scientifica molto ci ha detto sull’impatto che le reti di relazioni hanno sulle persone, sui gruppi e anche sulle organizzazioni. Sappiamo, per esempio, che le reti aperte, quelle dove vi sono nodi che mediano – i perni di collegamento, i mediatori, i broker – altri nodi altrimenti separati, permettono di generare più innovazione e creatività di reti più coese, dove tutti sono connessi con tutti. Sappiamo che queste ultime tipologie di reti sono invece più utili per generare fiducia, reciprocità tra le parti, spirito di appartenenza, coesione e controllo sociale. Molti studi hanno dimostrato che le relazioni di mediazione, al contrario di quelle coese, decadono rapidamente con lo scorrere del tempo, come dire che le rendite relazionali dei broker hanno vita breve.

Tornando al fenomeno delle piattaforme tecnologiche, la domanda è: che forma prende il mondo Facebook? Se ci affidiamo alla percezione di chi è dentro questo mondo i risultati sono interessanti. Grazie ai dati raccolti in una recente ricerca abbiamo evidenziato quali sono le tipologie che gli utenti di Facebook percepiscono relativamente ai propri network. Abbiamo individuato quattro possibili forme di network che potrebbero rappresentare i legami di una persona (IO) all’interno di Facebook (figura 2; si veda pdf allegato).

Il network A rappresenta quello di una persona che si trova al centro e si relaziona con altri utenti non legati tra loro da alcuna relazione. In altre parole, il nodo centrale è collegato a ogni altro nodo attraverso una relazione esclusiva e priva di interferenze.

Il network B rappresenta un gruppo di utenti sostanzialmente chiuso, in cui tutti i nodi si relazionano a vicenda. Il network è caratterizzato da un fitto intreccio di legami e allo stesso tempo dalla mancanza di relazioni con l’esterno. L’utente che appartiene a un network di questo tipo si considera un nodo al pari degli altri, senza attribuirsi alcuna funzione centrale di collegamento.

Al network C appartiene una persona che si considera il nodo centrale di collegamento tra network differenti. In altre parole, il modello si riferisce a gruppi differenti di persone che non si conoscono e sono legati non da relazioni dirette ma attraverso un nodo centrale che rappresenta un intermediario.

Il network D ha la medesima forma del network C; tuttavia, l’utente che si sente rappresentato da questo modello non si considera un nodo centrale di collegamento, ma piuttosto uno dei nodi appartenenti a un network, come nel caso del modello di tipo B, con la differenza di avere un legame diretto con un nodo centrale di collegamento tra gruppi differenti di persone.

La figura 3 (si veda pdf allegato) mostra chiaramente quali sono i due modelli maggiormente rappresentativi: il network B (30,7%) e il network C (41,4%).

In sostanza, gli utenti si dividono tra la percezione di essere parte di una squadra molto coesa (tipo B), oppure giocare il ruolo di broker in grado di connettere mondi tra loro disconnessi, in pratica dei Kevin Bacon come nell’esempio visto parlando di small world.

E gli impatti sull’economia e sulle imprese?

Molti pensano che la diffusione dei social network e i relativi tuffi nel passato relazionale di ciascuno di noi altro non siano che indicatori di un disagio diffuso nelle società moderne. Segnali della paura di volgersi al futuro con la fronte invece che con la nuca, preferendo girare le spalle all’incerto mutevole dell’oggi in favore della nostalgia del tempo passato. O forse, il tentativo di riscoprire identità perdute quando quelle contemporanee sfumano o si fanno incerte. A conti fatti, una specie di amarcord che, bilanci delle piattaforme di social network a parte, non dovrebbe produrre effetti rilevanti sull’economia e sulle imprese. Altri, più ottimisti, credono che il mondo, reso ancora più piccolo dalle piattaforme tecnologiche, possieda i caratteri della partecipazione, dell’apertura e della democrazia di massa. Tutto ciò, come per il fenomeno Open Source, dovrebbe produrre un impulso rilevante sull’innovazione e sulla creatività, oltre che aggredire alcune rendite di posizione di molte imprese che utilizzano la conoscenza come asset principale.

Da una prospettiva più concreta, grazie a molte ricerche sappiamo che la capacità di interagire con l’esterno attraverso la mediazione tecnologica produce effetti positivi sulle prestazioni, almeno su quelle individuali. Uno studio interessante svolto da un team di ricercatori di IBM e del MIT, combinando dati di performance di diecimila consulenti con dati relativi ai network mediati dalla tecnologia (mail o social network) degli stessi, con un campione finale di mille consulenti, mette in luce come la quantità e la struttura delle reti dei consulenti influenzi in modo rilevante la produttività e la capacità di generare valore economico. Inoltre, dalla ricerca emerge in modo chiaro come non sempre il valore dei network individuali si traduca direttamente in beneficio per il team o l’organizzazione. Nello studio si vede come un team composto da persone molto centrali nei propri network generi effetti negativi sulla performance del team: in sostanza, una conferma dell’idea che molti galli in un pollaio non producono buoni risultati. Sappiamo inoltre che le persone che perdono il lavoro tendono a usare molto le piattaforme di social network (per esempio Xing e Linkedin), non solo per il maggior tempo a disposizione, ma anche perché, grazie al fenomeno degli small worlds, i network rappresentano un meccanismo molto efficiente di trasferimento delle informazioni in grado di superare i limiti e le inerzie dei mercati del lavoro, specie di quelli riferiti alle professionalità medio-alte. Non è quindi un caso che le iscrizioni a Linkedin siano passate a più di 31 milioni dai 18 milioni all’inizio dell’anno, con una crescita maggiore per quanto riguarda i servizi finanziari che più hanno risentito della crisi.

Dal punto di vista delle imprese, sappiamo con buona certezza che le reti sociali rappresentano potenti canali di influenza e cambiamento nei comportamenti sociali e, di conseguenza, anche dei comportamenti di consumo. È dunque difficile resistere alla tentazione di vedere nelle reti sociali uno straordinario potenziale di contagio e diffusione di “modelli” di consumo. Quindi, l’affermazione dei social network è diventato un ambito di sperimentazione importante per il marketing.

In una situazione di stagnazione nei consumi come quella che stiamo vivendo, con gli strumenti tradizionali della comunicazione ormai spuntati e in una cornice che riconosce alla fiducia un ruolo cruciale nelle relazioni e quindi nei processi di influenza, il canale dei social network è certamente molto appetibile per le imprese e gli operatori economici. Come e quanto questo potenziale possa essere utilizzato è una questione non facile da risolvere e con evidenti ripercussioni di tipo etico che hanno già suscitato l’attenzione delle istituzioni, come nel caso dell’Unione Europea sulla questione dei profili on-line dei minorenni.

Così, se dal punto di vista sociologico e della ricerca il fenomeno del social networking ha già prodotto effetti visibili, l’impatto sull’economia è ancora in gran parte da scoprire.