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2009/1
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Dieci, cento, mille ITEA. Condizioni per un nuovo Rinascimento italiano
Scarica articolo in PDFSi prepara un lungo inverno per l’economia mondiale e per quella italiana in particolare. E sarà un inverno di molto e profondo scontento soprattutto per i ceti più deboli ed esposti della nostra società. Per affrontare una stagione così complessa e piena di incognite e farne l’occasione per arretrare solo l’indispensabile, raccogliere le energie necessarie ed essere pronti a una nuova primavera, occorre avere le idee chiare ed evitare errori noti nei quali si è dimostrata una diabolica capacità di perseverare. Abbiamo un’occasione per rompere una tendenza al declino, alla rassegnazione, alla perdita di centralità cominciata per il nostro paese ben prima dell’inizio della crisi attuale. Dobbiamo cercare a tutti i costi di non sprecarla.
La crisi che stiamo vivendo, un insegnante molto severo, con una certa violenta propensione ad abbattere veloce un pesante righello sulle nostre nocche di allievi ignoranti, svogliati e di corta memoria, ci può aiutare in primo luogo a ripassare alcune idee semplici, presentate, un tempo almeno, in qualunque corso base di economia. Volete sentirne una? Eccola: non si dà distribuzione di ricchezza, e tantomeno la sua miracolosa moltiplicazione, senza che questa venga prima prodotta. Non sembra che occorra un premio Nobel per capire una cosa così semplice. Ma provate a rileggere le storie delle piramidi societarie, dei prodotti finanziari sempre più fantasiosi e rischiosi, delle vorticose transazioni senza controllo montate solo per fare lievitare ad arte una qualche forma di rendita per chi partecipa all’inizio lasciando un candelotto di dinamite acceso nelle mani degli ultimi. Provate a rileggervi gli inviti ad accettare il nostro destino e la nostra vocazione, facendo di un popolo di quasi sessanta milioni di persone nel cuore dell’Europa e della sua storia, un popolo pasciuto e competitivo di sarti, camerieri e animatori di villaggio vacanze, cuochi e ristoratori o produttori di mobili e imbottiti. Pensate a chi, celebrando l’avanzata del terziario, si è dimenticato di specificare a chi e come quei servizi devono essere venduti e chi tra i vicini di casa di Cantù o Nola, e i loro figli, avrebbe avuto le capacità e le conoscenze per arrivare rapidamente a competere in questi settori, nel volgere di meno di una generazione, con i corrispettivi di Londra o New York. Fatelo e vedrete che la semplice verità che abbiamo enunciato, e che viene ripetuta nelle orecchie più o meno attente di migliaia di giovani studenti ogni giorno, è stata nascosta e mistificata. Per convenienza. Per la superficialità che porta a trascurare, per esempio, piccoli dettagli come il fatto che, nel passare dal mondo di oggi a quello ideale di domani, occorre creare in continuità le condizioni perché milioni di concittadini, e non solo alcuni privilegiati, trovino pane e futuro. Oppure, fatto questo ancor più grave, non si è colta l’essenza delle cose per semplice ignoranza.
Per chi siamo noi e per il passato che abbiamo, la possibilità di un Rinascimento passa dal mettere al centro delle politiche per lo sviluppo economico la conoscenza, le competenze distintive e difficilmente imitabili che sostengono il vantaggio di industrie ad alto valore aggiunto, i brevetti e la ricerca che li genera, il miglioramento della qualità e della produttività in tutti i settori a cominciare da quello pubblico, il coraggio che serve per sfruttare insieme fino in fondo la nostra forza, le dimensioni del nostro mercato e la nostra capacità di innovare e crescere in un mondo di competizione globale e di spietata lotta per la supremazia economica che sostiene eserciti bene armati e supremazia politica.
Ma le lezioni della maestra crisi non sono finite. Anche se la finanza ha sviluppato prodotti e processi sempre più complessi e sofisticati non è un’industria con un’autonoma capacità di sopravvivenza e di produzione di reddito. Vive in simbiosi con l’economia reale: peggio funziona l’integrazione tra la prima e la seconda, più si inceppano i processi di crescita di un’economia. Chiedere la salvezza solo alla finanza (o assicurarla alle banche) mentre si trascura l’economia reale è un modo non troppo intelligente, ammesso che invece ce ne sia uno, di suicidarsi. Parlando di finanza, e di banche e assicurazioni in particolare, giova per una futura maggiore saggezza anche ricordare che la maggior parte delle bolle speculative, degli errori se non delle vere e proprie frodi è stata alimentata con risorse messe a disposizione da istituzioni soggette a regolazione e controllo da parte di autorità pubbliche, nonché allo scrutinio di accreditate, ben pagate e, fino ad allora, molto autorevoli agenzie di rating. Occorre fare tesoro dell’esperienza e non lasciare che, passata la buriana, i sistemi di regole e controlli rimangano quello che sono: un’arma spuntata e inoffensiva di fronte alla potenza spregiudicata e globale degli interessi che dovrebbero governare. La lezione numero tre dice infatti che non si dà libero mercato senza controllo e senza istituzioni forti capaci di regolarlo. Con buona pace di un malinteso liberismo da bar o da salotto. La crisi ha mostrato che tutte le ideologie, e quindi anche quella del libero mercato quando diventa un totem al quale inchinarsi sempre e comunque, forse aiutano a orientare l’azione dei governi, ma non servono a comprendere la realtà fino in fondo né a dominarla nei limiti del possibile e dell’utile. Quanto meglio sarebbe affinare un pensiero critico, capace di partire dai fatti, di ordinarli tenendo conto degli interessi e dei soggetti che ne sono portatori (persino gli Stati Nazionali non paiono proprio essere scomparsi come qualcuno credeva) e di guardare in faccia la realtà per quella che è e non per quella che vorremmo che fosse!
Con il suo etimo la parola crisi ci invita infatti al discernimento, a separare le idee buone da quelle cattive, a guardare meglio e senza pregiudizi. Segna una frattura fra un passato che conosciamo e un futuro diverso. Se ne saremo all’altezza impareremo a considerare gli interessi dei consumatori insieme a quelli dei produttori, guardando piuttosto all’individuo e alle formazioni sociali, in primis le famiglie, che interpretano entrambi i ruoli; impareremo a porci il problema delle conseguenze delle privatizzazioni fatte quando manca una classe imprenditoriale adeguata, sufficientemente ricca e coraggiosa, e quando non sono accompagnate da uno sviluppo della concorrenza; conteggeremo, in un’analisi costi e benefici equilibrata, le conseguenze che sulla dotazione di capitale umano e intellettuale del nostro paese hanno gli spostamenti in altri luoghi del globo di quartieri generali di imprese, di conoscenze tecnologiche, di abilità commerciali e di progettazione. Arriveremmo persino a rivalutare il ruolo dello Stato nell’economia. E non avremmo a quel punto paura, come non ne hanno negli Stati Uniti d’America o in Francia, e non solo nella Russia di Putin o in Cina, di parlare di interesse nazionale. Utile anche in chiave simbolica, per compattare attorno a un’identità condivisa un popolo che non ha ancora fatto in tempo a svilupparne una forte, della quale essere orgogliosi e dalla quale trarre stimolo a migliorarsi e a guardare avanti invece di arroccarsi sul passato e sulle poche e sempre più odiose rendite rimaste. Potremmo dirci, senza paura di passare per eretici o ingenui, che l’economia globale capitalista, per come la stiamo vivendo e comprendendo, va preservata così com’è solo se si dimostra ancora il miglior strumento al servizio del benessere degli individui. Altrimenti è un incubo di impotenza autogenerata, di schiavitù autoinflitta, dal quale la crisi ci può e ci deve svegliare. Imponendoci riflessioni, rinunce, riforme e rilanci in avanti. E potremmo infine ricordare che il modo con il quale gli individui possono riprendere controllo e direzione dell’economia, almeno nell’Occidente sviluppato, perché illuminista, riformatore e democratico, al quale vogliamo continuare ad appartenere, è la politica, che a questa funzione alta, soprattutto in questo momento, dovrebbe essere tutta dedicata. E non per complicare le cose o corrompere ulteriormente, per sopravvivere nonostante la palese incompetenza e arricchirsi a spese di tutti – un sistema già prostrato – ma per indicare priorità, eliminare vincoli inutili, stabilirne altri essenziali per raggiungere la meta desiderata, valutare i risultati delle proprie politiche e delle azioni degli altri soggetti economici, assicurare la tenuta del tessuto sociale, garantire un sistema di relazioni con gli altri Stati in linea con gli interessi e i valori civili dell’Italia.
Sono questi solo sogni di una notte di mezzo inverno? Per scongiurare il pericolo dell’ottimismo della sola buona volontà occorre sapere guardare ai piccoli semi di un possibile Rinascimento italiano che il nostro genio ancora riesce a spargere, nonostante la qualità del terreno tenda a peggiorare di stagione in stagione. Uno di questi semi si chiama ITEA. Un’azienda la cui storia esemplare vogliamo raccontare ai nostri lettori, dopo averla ascoltata dall’ingegner Giampietro Tedeschi, proprietario e presidente del gruppo al quale ITEA appartiene, perché racchiude in sé, trasformate in fatti ed evidenze concrete, molte delle lezioni che abbiamo appena ripassato insieme.
ITEA è un gioiello italiano che sta dentro il gruppo Sofinter (www.sofinter.it), che oggi fattura quasi 600 milioni di euro. Questo gruppo nasce nel 1979 e per i primi diciotto anni si occupa di servizi connessi con la produzione di energia elettrica e con la dissalazione delle acque. I due settori che ancora oggi sono al centro dell’attività del gruppo. Fin da subito l’arena competitiva è il mondo e imprenditori, dirigenti e maestranze imparano a prenderne bene le misure. Prendiamo subito nota dei tempi: il successo non si improvvisa. Le competenze distintive si costruiscono piano nel tempo. Sedimentano le une sulle altre; e nella loro varietà, pur partendo da un nucleo di know-how tecnologico omogeneo, creano le condizioni perché nelle intersezioni possa nascere l’innovazione necessaria a risolvere con profitto vecchi e nuovi problemi. Nel 1996 il gruppo comincia a spostarsi nella componentistica per impianti approfittando di una circostanza storica unica e per noi, ancora una volta, istruttiva. La grande industria elettromeccanica italiana, prevalentemente di proprietà pubblica, è a pezzi: nel senso letterale che se ne possono comprare i resti sul mercato. È stata travolta dal ciclone tangentopoli e ha collassato su sé stessa. Anche solo a esaminarne i pezzi in vendita, molti dei quali finiranno ad aziende di altri paesi, viene da fare una semplice constatazione: in questi settori l’industria italiana di proprietà pubblica aveva raggiunto la leadership competitiva a livello mondiale, forte di competenze tecnologiche uniche, sviluppate attraverso una ricerca finanziata e realizzata nei propri laboratori, e di una grande capacità di offerta e realizzazione. L’ingegner Tedeschi racconta, per esempio, senza nostalgia o commozione ma con la freddezza del testimone che ha vissuto quei fatti e li ha poi visti cambiare, come negli anni settanta e ottanta più del 70% del patrimonio di impianti per la produzione di energia elettrica installato in Iraq sia stato realizzato da imprese italiane come Ansaldo e Tosi, anche attraverso il GIE. Siamo certi che quell’eccellenza dell’Italia nel mondo, temuta e rispettata da tedeschi, francesi, statunitensi e coreani, sia stata vinta e cancellata solo dalle forze del libero mercato o dall’avidità corrotta e corruttrice di partiti politici e manager? Siamo certi che per arrivare a questo livello e tenere queste posizioni, come ancora oggi testimoniano Enel e ENI, forse le sole due vere grandi aziende multinazionali italiane rimaste, esistessero davvero valide e reali alternative alla forza economica e alla capacità di individuare priorità strategiche per il bene di tutti, propria dello Stato? In un paese con la storia e la borghesia imprenditoriale proprie dell’Italia? Occorre riflettere su queste domande proprio nel momento in cui si chiede oggi da più parti, alcune decisamente sospette per la disinvoltura con la quale hanno rapidamente cambiato opinione, sempre e di nuovo allo Stato di sostenere l’economia o di correre a soccorso di interi settori.
Ma torniamo alla nostra storia. Il gruppo entra decisamente nel settore della combustione, prima acquisendo dai commissari che gestiscono il crack del gruppo Fochi, la Macchi caldaie e poi, nel 2001, comprando da Finmeccanica Ansaldo Caldaie che ha impianto di produzione e centro di ricerca a Gioia del Colle. In poco tempo il nuovo management riesce a gestire un complesso processo di cambiamento organizzativo che porta un’azienda abituata a lavorare per un unico cliente captive (Ansaldo Energia) a competere sul mercato internazionale con colossi come Alstom, Mitsubishi o Babcock&Wilcox. È proprio l’estrema specializzazione nelle tecnologie per la combustione, la ricerca del miglioramento continuo nell’efficienza e nel rispetto di sempre più stringenti vincoli ecologici che prepara il gruppo Sofinter a sfruttare un’opportunità strategica fondamentale. Che si presenta nel 2002 nelle forme dimesse di una piccola azienda bolognese, ITEA appunto, impegnata, fino ad allora con scarsi successi, nel campo della combustione flameless. Quello della combustione perfetta, senza residui di alcun genere per intenderci, è un sogno che alletta campioni industriali tedeschi e americani e assorbe milioni di euro di investimenti in tutto il mondo. Trasferite le attività nello stabilimento di Gioia del Colle, dove Ansaldo Caldaie ha una piattaforma di ricerca fra le più avanzate d’Europa, grazie a 20 milioni di investimenti, a uno straordinario team capitanato dall’ingegner Massimo Malavasi – una delle migliori teste al mondo in questo campo, tecnico ricercatore di scuola Montedison (!) – alla preziosa collaborazione di ENEA, dei Politecnici di Bari e di Milano e della Facoltà di Chimica dell’Università di Bologna (e qui c’è la dimostrazione che al Rinascimento italiano serve il meglio della nostra università, in rete con il meglio della nostra industria), la nuova ITEA di proprietà Sofinter riesce a mettere a punto, usando rifiuti industriali liquidi come combustibili, la tecnologia flameless in un impianto dimostrativo da 5 MW termici. I tedeschi, tanto per intenderci, erano riusciti a realizzare la combustione flameless solo per i gas, che già bruciano piuttosto bene, e per potenze molto minori.
La tecnologia ITEA è la migliore, è unica al mondo ed è italiana. E funziona così. La combustione tradizionale può essere descritta come una reazione disordinata (i colori della fiamma di un camino che affascinano i romantici sono i segni di quel disordine) che genera fumi contenenti sostanze spesso pericolose e incombuste. Invece, la flameless, brevettata da ITEA con il marchio Isotherm Pwr, è una reazione ordinata, con rendimento termico molto elevato, che non produce emissioni pericolose. Infatti, le diossine risultano non misurabili, il contenuto di organici totali è di migliaia di volte inferiore ai limiti di legge e i fumi sono costituiti da vapore d’acqua e anidride carbonica. Ciò è possibile perché la combustione avviene a temperatura molto elevata, tra i 1500 e i 1700 gradi centigradi, a una pressione compresa tra cinque e dieci atmosfere. In queste condizioni, la reazione fra il combustibile, sempre alimentato in corrente d’acqua, e il comburente, costituito da aria arricchita di ossigeno, risulta omogenea in tutto il volume del reattore. Quando nel 2006, finalmente e dopo una serie sfibrante di traversie burocratiche, lo stabilimento pugliese sviluppa alcune prove di combustione di fronte alle persone che devono analizzarne i risultati (delle Agenzie Regionali per la Protezione Ambientale di Puglia e Piemonte, del CNR di Napoli e dell’ENEA), tali risultati sono talmente buoni che i controllori non se la sentono di prestar fede ai propri strumenti e ai propri occhi. L’ARPA della Puglia per sicurezza manda i dati alle Università di Baltimora, Zurigo e Milano. Solo per sentirsi confermare che i residui della combustione sono 50.000 volte inferiori al normale, ovvero pari praticamente a zero.
Ben altra rapidità d’azione ITEA, con la sua tecnologia, riscontra all’estero. Con un socio locale, ITEA ha costituito a Singapore la ITRO Ltd. La trattativa è avvenuta con la seconda autorità politica del paese: in una settimana è stato ottenuto il comodato gratuito dell’area. In due settimane si è definito un trattamento fiscale privilegiato per i successivi quindici anni. In un mese è arrivata l’autorizzazione a costruire un impianto per il trattamento di rifiuti industriali grande quattro volte quello di Gioia del Colle. Alla fine dell’agosto scorso, con un investimento di circa 20 milioni di euro, ITEA ha realizzato un impianto da 20 MW termici, al servizio delle numerose industrie petrolchimiche e farmaceutiche presenti in quell’area industriale. La combustione flameless si è innescata con facilità e si è rapidamente stabilizzata, con ciò confermando non solo la “scalabilità” della tecnologia, ma anche il miglioramento degli indici operativi con l’aumento delle dimensioni del reattore. La messa a regime dell’impianto era prevista entro fine 2008. Ed è solo l’inizio.
Il grosso obiettivo di ITEA con le sue caldaie senza camino, visto che non c’è nulla da immettere nell’aria che respiriamo, è cambiare per sempre il modo con il quale si brucia il carbone. Nelle prime prove è stata usata materia prima, sia di eccellente sia di modesta qualità, macinata grossolanamente e alimentata al reattore in corrente d’acqua, ottenendo risultati eccezionali. Enel ha subito dimostrato un grande interesse. Nel novembre 2006 è stato stipulato un accordo. Dopo quasi due anni di esperimenti effettuati nello stabilimento di Gioia del Colle e dopo aver raggiunto la certezza della scalabilità della tecnologia, si sta ora progettando un impianto da 48 MW da realizzarsi nella centrale Enel di Brindisi, con entrata in esercizio prevista entro la primavera del 2010. Tutte le prove hanno confermato l’eccellente rendimento, l’assenza di polveri, anche di quelle sottili. I fumi che si ottengono, dopo separazione del vapore d’acqua, sono costituiti in misura prevalente da anidride carbonica, la quale risulta già pronta per il confinamento sotterraneo. Nell’agosto 2008, Enel ha presentato in sede ASME, uno studio di fattibilità, poi pubblicato dalla stessa ASME, relativo a una centrale elettrica a carbone da 320 MWe, che potrebbe essere realizzata entro il 2013. È ormai opinione diffusa che l’ossicombustione flameless del carbone si inserisca nel ristrettissimo novero di tecnologie che consentiranno di usare questa materia prima nel pieno rispetto dei più stringenti vincoli ambientali e in linea con l’obiettivo di non emettere gas con effetto serra.
Ma a noi questo non basta. La cosa che ci entusiasma di più è il fatto che con la tecnologia ITEA si possono bruciare i rifiuti tossici industriali e, a maggior ragione, quelli solidi urbani. Numerose prove già condotte dall’azienda hanno addirittura dimostrato che persino una sostanza cancerogena come il cromo esavalente, micidiale prodotto di scarto dei processi di concia delle pelli, può essere trasformata, grazie a questa tecnologia, in cromo trivalente inerte e inoffensivo. Non vi stanno scorrendo davanti agli occhi le immagini dei rifiuti di Napoli mentre scoprite che questa tecnologia italiana potrebbe risolvere in modo perfetto, senza fumi e diossina, il problema dei problemi se solo si investissero le risorse necessarie per raggiungere il break-even e rendere conveniente l’operazione? se solo si riuscisse a decidere e operare nel territorio senza corruzione e ritardi, senza burocrazia inutile, imitando Singapore invece di Bisanzio?
Ogni tanto, nel cuore della notte, l’ingegner Malavasi, che è uno degli artefici di questo grande successo e di questa ancor più grande speranza, viene svegliato bruscamente da una telefonata inattesa. La voce che lo butta giù dal letto è quella di Beppe Grillo, che vuole che l’ingegnere spieghi a quanti sono venuti al suo spettacolo che è tutto vero: che davvero in Italia abbiamo una tecnologia capace di bruciare rifiuti industriali e carbone senza creare fumi tossici e polveri. E il tutto producendo vapore che può essere ulteriormente utilizzato per produrre energia elettrica. Ma una storia così non meriterebbe di stare con altre simili sulle prime pagine dei giornali tutti i giorni fino a convincerci che ce la possiamo davvero fare? Questi imprenditori non meriterebbero un invito e un’attenzione costante da parte del ministro per lo Sviluppo Economico o del ministro dell’Economia?
È questa la morale della storia che vi abbiamo raccontato e che, per fortuna, non è una favola. Ci sono in Italia tante gemme come ITEA, che è spiata e controllata dai colossi che competono con lei e che cercano di strapparle a suon di offerte milionarie i collaboratori più critici. Aziende che insegnano al mondo che un vantaggio competitivo capace di produrre vera ricchezza si ottiene solo con tenacia, pazienza, tempo, investendo in conoscenza e mettendosi alla frontiera della tecnologia e della ricerca. Aziende che, se fatte crescere e moltiplicare, potrebbero offrire opportunità di lavoro e di crescita ai nostri migliori laureati che magari si iscriverebbero con più entusiasmo e in maggior numero nelle nostre migliori facoltà scientifiche. Certo, occorrerebbe fare dell’Italia, come ci ha detto l’ingegner Tedeschi nel corso del nostro incontro, un paese “più ospitale”. Dove le cose importanti si fanno in fretta e bene. Dove si è capaci di scegliere le priorità e di perseguirle. Dove si lavora tutti, a cominciare dal potere politico, locale come nazionale, per difendere e aiutare il genio italiano. Che ha bisogno di poche e chiare regole, di finanziamenti assegnati sulla base del merito, di una burocrazia rapida ed efficiente, della consapevolezza nei cittadini dell’importanza delle attività di produzione e ricerca per il futuro nostro e dei nostri figli. Di meno ideologia e di più idee. ITEA è uno dei semi dai quali potrebbe sbocciare un possibile Rinascimento. E in ogni caso indica la direzione giusta nella quale guardare e verso la quale impegnarci. È responsabilità di tutti e di ciascuno far sì che il 2009 sia l’anno della crisi che ci salvò.