E&M

2009/1

Dalla finestra del mio ufficio vedo i tanti campi da gioco del Centro Sportivo Masseroni di Milano. Centinaia di ragazzi si divertono con la stessa felicità – che ancora mi porto dentro – di quando, bambino, vedevo un pallone. Ma i tempi stanno cambiando. Un ragazzo proveniente dal Brasile, di soli nove anni, è approdato alla Roma, accompagnato dalla madre. Fanatico di Mexes, precisa: “Voglio diventare un difensore. Ho la forza di giocare in questo ruolo”. E mamma Alessandra si affretta a precisare: “Mio figlio conosce tutti i fondamentali del calcio da quando aveva sei anni”. Questa donna, che viene da Petropolis, dalle montagne del Brasile, per intenderci, non è arrivata a Roma per caso. Al mediatore chi la spiega la tratta dei minori?

Solo a Milano i ragazzi di nove anni che giocano a calcio e partecipano a un campionato sono tremila. Novantamila in Italia. Solo uno su duemila arriverà in serie A. Ne conosco uno, Stefano, che saggiamente sogna anche l’Accademia Militare. Poi, magari, farà l’avvocato. Il suo allenatore, Alessandro De Luise, precisa che la parte tecnica è importante, ma viene dopo le valenze umane: la capacità di ascolto, la voglia di imparare, l’accettazione delle regole, il rispetto delle persone e delle cose, il valore dell’amicizia, l’obbedienza alle direttive. Soprattutto la disponibilità a fare squadra. La squadra non è una somma di giocatori, ma ognuno moltiplica le potenzialità degli altri. La tecnica evolve se esiste un gruppo. Nei giochi di squadra non esistono campioni solitari. Parole sante che aiuterebbero le imprese a smettere di giocare con alcuni sottoprodotti del management, a cominciare dalla leadership, che tra poco la insegneranno alle elementari. Per consolare la nuova leva che, sbarcata in azienda da un’università prestigiosa e con grandissime attese, si vede promossa sul campo come addetto alle fotocopie, gli spiegano che esiste la leadership diffusa. E la sua perplessità diventa panico quando si accorge che tutti si sentono in diritto di dargli degli ordini che lui non può scaricare a valle. Di notte sogna di essere un talento e vede il suo futuro con gli euro che crescono a vista d’occhio. E giustamente, perché i talenti non sono una persona ma una moneta. Ai tempi in cui qualcuno raccontava delle belle parabole, un talento valeva duemila e duecento giornate di lavoro di una persona. Moltiplicate il vostro stipendio annuale per dieci e avrete il valore di un talento. Quello che ne prese cinque credo che abbia aperto un fondo di investimento e riuscì a raddoppiarli senza derivati. Che tempi!

Una volta i talenti, in impresa, li chiamavano Alti Potenziali. Era un eufemismo meno crudele perché, anche se illudeva, sollecitava una crescita continua. Non bastava un centodieci e lode per fare carriera ma servivano anche esperienza, simpatia, determinazione, creatività, curiosità, capacità di relazioni, autostima corretta. Sono doti che lo sport giovanile può regalare a chi lo affronta senza fanatismo. Ricordo un dirigente di una grande impresa che, in mia presenza, salutava due ingegneri che andavano all’estero per portare a casa un’importante commessa. Con la mano fece loro un segno: cinque. Mi confidò: “Ho ricordato loro che possono spendere sino a cinque milioni per oliare i rapporti”. Poi, dopo un lungo silenzio, aggiunse: “Chi mi assicura che una parte di quei soldi non se li tengano per loro?”. E concluse: “Lo dico sempre a quelli del personale: datemi degli uomini che i tecnici li formo io”. Alla fine, sono i valori che contano.