E&M

2007/4

Gianmario Verona

La Corporate America dal ponte di comando

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Ad Hanover, un piccolo paese a nord-ovest del New England in un lembo di terra a cavallo tra gli stati bucolici di New Hampshire e Vermont, animato da circa diecimila abitanti e punto di sosta intermedia tra il Settecento e l’Ottocento dell’allora lungo e faticoso viaggio che conduceva alcuni intrepidi viaggiatori da Boston a Montreal, c’è un inusuale via vai di CEO di imprese americane della cosiddetta “Fortune 500” – la celebre classifica delle aziende economicamente più produttive secondo la rivista Fortune. Nelle migliori tradizioni degli Stati Uniti, anche in questa circostanza il concetto di “middle of nowhere” è divenuto anni or sono occasione per essere trasformato nella sua antitesi, ovvero in centro di gravità permanente. Hanover è infatti la culla di Dartmouth College, annoverato nell’esclusiva Ivy League – non nel senso moderno ed esteso del termine, ma nel senso storico e iperesclusivo degli otto college della East Coast americana, che hanno cambiato lo spirito dell’istruzione accademica e hanno trasferito circa un secolo fa il baricentro accademico dal vecchio al nuovo continente.[1] Date le dimensioni ridotte dell’offerta rispetto agli altri college “Ivy” (cinquemila studenti contro una media che è tre o quattro volte superiore), Dartmouth è un esempio da manuale della capacità di coniugare la piccola dimensione con l’esclusività. Tra le prestigiose scuole in cui si articola figura anche la Amos Tuck School of Business, che si contende il primato con Harvard per aver inventato lo standard dei prodotti moderni di education nel campo del management, l’MBA, e che da sempre è nella top ten delle Business School più prestigiose negli Stati Uniti e nel mondo.

L’inusuale atmosfera del college e in particolare della Business School, altamente professionale nel suo lato tecnico e singolarmente calda e umana nell’ambito delle relazioni sociali, spinge diversi CEO a intraprendere un viaggio mirato, decisamente più agevole di altri tempi, ma indubbiamente abbastanza scomodo (due ore di macchina a nord di Boston o, come molti sembrano preferire, corporate jet fino a Manchester e un’ora di percorrenza in macchina). Trovandomi a Tuck per un sabbatico, non ho potuto non constatare questo curioso andirivieni. Alla luce del contesto socievole e delle diverse occasioni di interazione loro proposte (tra cui pranzi, interviste mirate, interventi più o meno formali rivolti agli attuali studenti e in generale agli alumni della scuola), mi è capitato di interagire in questi lunghi e proficui dibattiti.

Quelli che seguono sono tre sintetici punti che riassumono i tratti comuni che ho osservato sulla base delle menzionate occasioni di incontro – ciò, naturalmente, esula dalla ricca letteratura che si occupa di alcune delle considerazioni espresse di seguito. Nonostante, infatti, la profonda varietà degli stili di interazione (e, ipotizzo, anche di comando), l’elemento curioso che ho riscontrato è una notevole convergenza nei contenuti e anche nei diritti/doveri legati al ruolo di chi la Corporate America la vive dal ponte di comando.

Inizio con la parte comportamentale che, da non esperto della materia, ho trovato particolarmente affascinante, per concludere con gli aspetti legati alla strategia e alla governance.

Le nuove star del panorama mediatico

Il dato di fatto di cui tutti i CEO e tutti gli studenti, che li osservano con gli occhi speranzosi di essere un giorno nel loro stesso ruolo a visitare la propria Alma Mater, sono consapevoli è quello di essere delle vere e proprie star. Non nel senso metaforico del termine, ma nel senso effettivo delle rockstar e dei divi di Hollywood. Dopo l’ondata che ha investito negli anni ottanta e novanta il mondo dello sport, sembra oramai a tutti evidente che il settore che i media hanno indicato come nuovo covo di celebrità è quello dell’economia e della finanza. Tutto ciò è stato ben colto da Donald Trump, che ha rinforzato e ammodernato la sua immagine di re Mida del settore delle costruzioni, grazie all’invenzione del reality show “The Apprentice”, quest’anno alla sua quinta edizione e annoverato come il programma più profittevole nella storia recente della tv (il reality ha infatti per ogni puntata come sponsor un’azienda che, dando un compito strategico legato, per esempio, al lancio di un prodotto o alla creazione di una campagna pubblicitaria, ottiene una singolare pubblicità per la propria immagine e per quella dei propri brand ed è disposta a spendere parecchi quattrini, grazie anche all’imprevedibile audience televisiva). Ben tre cable tv negli USA offrono settimanalmente trasmissioni con approfondimenti e interviste dedicate ai CEO e non è un caso che uno degli incontri cui ho assistito, che ospitava il CEO di General Electric, Jeffrey Immelt, che è riuscito nella missione impossibile di far scordare agli azionisti dell’azienda da lui governata l’indimenticabile Jack Welch, è stato registrato per la trasmissione televisiva “CEO Exchange” del network PBS, presentato da un’icona del giornalismo americano, Jeff Greenfield.

Questa ondata di attenzione, come si può ben immaginare, porta a prestare una maniacale cura alla propria immagine e reputation, e al principale vettore che le alimenta: la comunicazione. I discorsi rivolti al pubblico sembrano minuziosamente preparati e ciò non sorprende. Ma anche la comunicazione interna all’azienda, l’elemento che insiste più di altri sull’identità organizzativa e sulla chiarezza degli obiettivi da perseguire, è apparentemente gestita con particolare attenzione. Le Fortune 500 sono aziende che giungono ad annoverare migliaia di dipendenti e che, nell’economia globale, sono sparse, nella peggiore delle ipotesi, in almeno una decina di paesi di rilievo. I top management team arrivano a includere a volte più di duecento persone, spesso ubicate nei posti più remoti del globo e nei confronti delle quali un frequente contatto diretto risulta sostanzialmente impossibile. Ecco quindi che una vision pervasiva ed efficace, i continui spostamenti e l’impiego intelligente delle tecnologie virtuali diventano gli strumenti impiegati per raggiungere questo obiettivo. Per esempio, tutti i CEO sono emotivamente coinvolti quando illustrano la vision dell’azienda da loro governata. Dimostrano in modo lampante come ogni parola è stata ponderata nei dettagli e che il suo significato fa implodere innumerevoli interpretazioni che rappresentano ciò che l’azienda dovrà fare sotto la loro tenure. I viaggi sembrano oramai non contarsi più – il corporate jet più sopra menzionato è infatti funzionale a questa necessità – e diventano in questi anni non solo sempre più frequenti, ma anche rivolti ai paesi del BRIC e, in quanto tali, logoranti dal punto di vista del tempo e dello sforzo fisico. Le tecnologie digitali aiutano pure, poiché consentono un immediato allineamento di obiettivi, azioni e risultati. Molti CEO ne sembrano decisamente entusiasti e stanno anche promuovendo l’impiego diffuso del podcasting con video legati ai contenuti aziendali – una grande multinazionale ha recentemente dato in dotazione ai propri manager degli iPod per favorire l’impiego di questa nuova opportunità tecnologica durante il frequente pendolarismo.

Comunicare in modo chiaro e preciso è in sostanza essenziale. Terry Lundgren, CEO di Federated Department Stores, azienda da 28 miliardi di dollari che ha deciso di acquistare aziende concorrenti nel settore (tra cui Bloomingdale’s, Marshall Field’s e Kauffmann’s) per integrarle tutte sotto il marchio storico Macy’s, ha descritto due dei principali problemi che ha dovuto gestire in seguito all’operazione di M&A che ha portato l’insegna Macy in più di quattrocento punti di vendita negli USA. Innanzitutto, l’estenuante interazione con i sindaci e alcuni cittadini delle città in cui i punti vendita Bloomingdale’s e Marshall Field’s sono stati trasformati in Macy’s, indotta dalla reazione appassionata di clienti fedeli alle insegne che andavano a morire. Inoltre, il coordinamento interno per far sì che il cambiamento delle migliaia di insegne stradali e interne ai centri commerciali con la nuova scritta Macy potessero apparire contemporaneamente in tutti gli USA per poter partire in modo coordinato con tutta la nuova campagna pubblicitaria. Come si osserva, il processo è piuttosto complesso: si passa dalla comunicazione della realizzazione di una vision strategica che sorregge il cambiamento da realizzare nel corso degli anni, alla comunicazione relativa ai microproblemi operativi che l’implementazione della vision richiede.

La corporate tenure e Wall Street

Se, come è ben noto, agli onori si accostano spesso oneri, il ruolo di star sembra realizzarsi in un ciclo di vita incredibilmente breve. In positivo (ovvero nel caso di CEO che lasciano l’azienda per nuovi approdi) o in negativo (quando, cioè, viene meno la fiducia concessa dal consiglio di amministrazione), la corporate tenure nell’ambito della medesima azienda è infatti di poco inferiore ai quattro anni. C’è da chiedersi come può un CEO, nel giro di un orizzonte temporale così breve, portare risultati significativi in tema, per esempio, di innovazione. Come, ricordando il suo esordio, ha efficacemente sostenuto il CEO di Starbucks, Howard Schultz, per un imprenditore che possiede solo sei punti vendita e che chiede finanziamenti per vendere a tre volte il prezzo di mercato un caffè in un bicchiere di carta ampliando in modo deciso i punti di contatto con i clienti, farsi ricevere per un road show dagli investitori è operazione di non poco conto. Ex post, tutti sono in grado di riconoscere il successo e il valore di aziende che hanno prodotto innovazioni significative. Ma cosa succede ex ante? La crescita che ha caratterizzato negli ultimi anni il valore delle azioni di Google (oggi giunta a quintuplicare il prezzo delle proprie azioni a più di 500 dollari rispetto al valore della quotazione di tre anni fa) è significativa: il mercato apprezza le innovazioni radicali quando incontrano le aspettative e i bisogni insoddisfatti dei clienti, ma ex ante fa fatica a riconoscerle e a finanziarle.

Cosa rende quindi un CEO più longevo di altri in un mondo dominato dalle attenzioni trimestrali di Wall Street? Il caso di Mark Reuben, CEO di Colgate-Palmolive, uno degli amministratori delegati più longevi nella storia della Corporate America (ventitré anni di tenure nella stessa impresa) sembra illuminante. Se a una strategia ben focalizzata si aggiunge una serie di microinnovazioni, ancorate su basi di crescita credibili, e si ricerca un immediato consolidamento, il risultato sembra apprezzato dal mercato. Colgate-Palmolive è cresciuta negli anni esportando il suo dentifricio storico nei paesi più lontani del mondo. Innovazioni incrementali sul prodotto di riferimento e acquisizioni mirate hanno permesso all’azienda di raggiungere gli invidiabili risultati di cui sopra. La strategia del citato Terry Lundgren, denominata da alcuni la “Macyfication” del mondo del retailing, è evidentemente nella stessa direzione: si acquista e si consolida sotto un medesimo marchio ombrello. Operazione per certi versi simile sta tentando Gary Rodkin, da nove mesi al timone di ConAgra Foods, colosso americano da 15 miliardi di dollari e concorrente, tra gli altri, delle più globali Nestlé, General Mills e Kellogg. La sua azienda include brand di riferimento nell’alimentare americano e dopo anni di crescita diversificata e poco integrata dal punto di vista organizzativo, con il suo arrivo l’azienda sembra decisa a focalizzarsi su un più limitato numero di brand che catturano l’attenzione del mercato servito e a integrare le divisioni che fino ad oggi gestivano i brand come vere e proprie aziende autonome. Allo stato attuale il mercato sembra apprezzare. In sintesi, innovare sì, ma con un’attenzione prevalente al consolidamento e ai risultati immediati.

Customer-centricity e One-stop-shopping

Una conseguenza della preponderante tendenza all’innovazione incrementale e al consolidamento è legata alle scelte effettive in tema di contenuti strategici. Da questo punto di vista, la novità nell’ambito delle strategie di mercato riguarda il cosiddetto one-stop-shopping. Se gli anni ottanta sono stati archiviati come gli anni della crescita e della diversificazione conglomerale, e i novanta sono oggi ricordati come gli anni dello sviluppo interno a partire dalle core competence, la supremazia del cliente e la strategia di one-stop-shopping sembrano la scelta che taglia trasversalmente le aziende governate da questa generazione di CEO. Il messaggio è chiaro e semplice: focalizzarsi su un mercato e cercare di ampliare la gamma di prodotti e servizi per offrire al cliente il massimo della soddisfazione tramite un unico fornitore di riferimento. L’innovazione viene cioè ricercata sempre a partire dalle proprie competenze distintive, ma viene finalizzata all’ampliamento della gamma di offerta rispetto alla soddisfazione complessiva del segmento di mercato servito.

Office Depot, distributore leader nel settore dei prodotti da ufficio, ha cominciato a servire in modo sempre più integrato i propri clienti a partire da soluzioni che prevedono, per esempio, l’e-commerce (pochi sanno che l’azienda è oggi quarta al mondo in termini di fatturato in tema di e-commerce dopo e-Bay, Amazon e Dell) e investendo nell’idea di marca commerciale.

La crescita ininterrotta del valore delle azioni da quando il CEO Steve Odland ha preso in mano l’azienda sembra soprattutto legata a questa promessa. La strategia di one-stop-shopping non è solo prerogativa delle aziende di servizi e che operano nel mondo del retailing, ma investe interamente anche il mondo industriale, alla ricerca di nuovi schemi di soddisfazione di un cliente sempre più esigente e globale. Apple è forse l’azienda che a partire da Mac fino ad arrivare a i-Mac, i-Pod e il più recente i-Phone, ha sicuramente fatto scuola, ma la soluzione è simile per aziende dei settori più disparati. Iniziando con i dentifrici, Colgate-Palmolive è cresciuta consistentemente negli ultimi venti anni espandendosi in modo deciso in tutto il mondo e diventando in tutti i mercati uno dei primi tre competitor di riferimento (in gran parte di essi il leader assoluto in termini di quota di mercato), puntando al segmento Oral Care. La strategia di HP in seguito al consolidamento con Compaq, voluto da Carly Fiorina e sostenuta dal nuovo CEO Mark Hurd, non è da meno. Il mercato di riferimento, rappresentato nel caso dei consumatori finali dal concetto di Personal System (dal pc alla tv passando attraverso l’insieme di hardware che permette di risolvere qualsiasi problema digitale) e, nel caso delle imprese, dal concetto di Technology System (ogni forma di servizio informatico nell’enterprise market), è un’ulteriore esemplificazione. Anche General Electric, la regina della diversificazione che, negli anni settanta, ha dato vita all’ideazione di una serie di strumenti di pianificazione che tuttora vengono insegnati nelle Business School, nell’ambito di una strategia di mantenimento del proprio portafoglio sembra comunque ricercare un ombrello più integrato in sei business che caratterizzano la sua nuova mission (finance, healthcare, industry, infrastructure, money, entertainment) e che accorpano al loro interno gli innumerevoli prodotti gestiti dall’azienda.

In conclusione, la nuova competizione del mondo globale, volta a richiedere innovazione, ma congiuntamente certezza nei risultati di breve, sembra rendere la vita altamente complessa per la nuova generazione di CEO, che sono peraltro in modo continuativo sotto la luce dei riflettori mediatici e sotto la lente di osservazione di Wall Street. A questo fine, una buona dose di leadership non deve certamente mancare a chi si trova in questo momento storico sul ponte di comando delle grandi multinazionali.

Post Scriptum

A proposito di grandi leader che sanno coniugare l’armonia organizzativa con le alte competenze professionali, in conclusione di questo editoriale e a due anni dalla prematura scomparsa, vogliamo ricordare Claudio Dematté.

In memoria della sua opera è stata recentemente assegnata la borsa di studio sponsorizzata dal Comitato Amici Claudio Dematté, SDA Bocconi e Fondazione del Trentino Università, nell’ambito dell’incontro a lui dedicato e svoltosi presso l’Università di Trento. Il compianto professor Dematté ha lasciato un vuoto incolmabile anche nelle pagine di Economia & Management, la rivista da lui voluta e diretta per lungo corso. Il direttore di Economia & Management, Enzo Perrone, e tutto il comitato editoriale lo ricordano con affetto.

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Per i più curiosi, l’Ivy League è una celebre competizione atletica che comprendeva i seguenti college fondati in epoca coloniale: Brown, Cornell, Columbia, Darmouth, Harvard, Princeton, University of Pennsylvania e Yale.