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2016/2

Stefano Gatti

Credito cooperativo: i perché della riforma

Le banche di credito cooperativo detengono il 7,7 per cento della raccolta diretta in Italia. La riforma varata dal governo mira a risolvere i temi degli assetti di governance e qualità del credito.

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Dopo la riforma delle banche popolari, a metà febbraio è stato varato anche il riassetto delle banche di credito cooperativo (BCC).

Si tratta di un gruppo di 364 banche con un volume totale di attività intermediate tale da farne una componente molto rilevante del sistema bancario nazionale. A settembre 2015 le BCC annoveravano 4403 sportelli, il 14,6 per cento del totale nazionale, 37.000 dipendenti e una quota di mercato del 7,7 per cento della raccolta diretta (depositi e obbligazioni) e del 7,2 per cento degli impieghi. Gli ultimi dati disponibili indicano inoltre una dotazione patrimoniale misurata dal CET1 medio del 16,2 per cento rispetto al 12,1 per cento delle altre banche italiane.

Sono numeri importanti, che indicano una presenza significativa delle BCC nel sistema bancario nazionale. Nate alla fine dell’Ottocento, dapprima in Trentino e in Lombardia, queste banche hanno saputo superare periodi di crisi prolungata riaffermando costantemente il proprio modello di business fondato sulla forma cooperativa (una testa un voto), sul reinvestimento dei profitti come base per la ricapitalizzazione e sulla relazione con le comunità locali, le famiglie e la microimpresa.

Nel corso degli anni, grazie anche a una normativa bancaria ad hoc nell’ambito del Testo Unico, il movimento cooperativo si è strutturato attorno a un’anima imprenditoriale, rappresentata da Iccrea Holding, e un’anima associativa, facente capo a Federcasse e articolata territorialmente in federazioni locali. Questo particolare disegno di gruppo rovesciato, in cui le singole BCC sono socie della holding e non viceversa, ha consentito alle BCC di allargare il perimetro di offerta dai più tradizionali prodotti bancari alle attività di leasing, factoring, credito al consumo, bancassurance e asset management, pur mantenendo una sostanziale autonomia gestionale rispetto alle strutture centrali.

C’è quindi da chiedersi perché il governo abbia deciso di accelerare il processo di riforma di questa parte del sistema bancario e quale sia il disegno sottostante a tale riforma.

La prima ragione è relativa alla rischiosità del credito concesso. Si tratta in parte delle conseguenze della prolungata recessione italiana, che ha colpito in modo intenso queste banche: il forte radicamento territoriale non consente alle BCC di beneficiare degli effetti di diversificazione di portafoglio tipici di banche operanti su scala nazionale. Si è trattato però talvolta anche di scelte deliberate, che hanno visto le BCC entrare su classi di clientela rifiutate dalle banche concorrenti durante i periodi di stretta creditizia.

Ne è derivato un effetto immediato sulla dotazione patrimoniale. Partite deteriorate e sofferenze assorbono più capitale, il che impedisce di concedere nuovo credito. La compressione dei tassi, inoltre, ha messo sotto pressione il margine di interesse e quindi la possibilità di incrementare il patrimonio attraverso l’autofinanziamento. Le ricapitalizzazioni attraverso aumenti di capitale sono diventate più difficili, anche a fronte di una maggiore cautela dei soci a seguito dei recenti casi di fallimento pilotato di banche locali.

La seconda ragione attiene alla governance, con consigli di amministrazione spesso poco preparati ad affrontare un contesto di mercato molto più insidioso che in passato, con conflitti di interessi nell’ambito della gestione delle pratiche di credito, con assetti di controllo non sempre in grado di valutare e apprezzare i livelli di rischio a cui le BCC sono sottoposte.

La riforma varata recentemente cerca di dare alcune risposte. Viene prevista una holding unica nazionale posseduta dalle BCC, anche se in modo non esclusivo. Ciò permette di aprire il capitale a investitori terzi, anche internazionali, attraverso la holding che, a sua volta, potrebbe procedere a ricapitalizzare le BCC socie con aumenti di capitale o con prestiti subordinati (secondo il modello Holdco-Opco già usato nel Regno Unito e in Svizzera).

Quanto ai temi della qualità del credito e degli assetti di governance, la riforma prevede un’adesione volontaria da parte delle BCC e la stipula di un «contratto di coesione» con la holding centrale. Per quanto non esattamente un patto di dominio come nel caso francese, il contratto di coesione implica una funzione di coordinamento e controllo da parte della holding nel rispetto dell’autonomia gestionale della singola banca. Tale autonomia può però essere ridotta solo nei casi più gravi, nei quali la holding possa intravedere motivi di significativo degrado della performance gestionale e potrebbe prevedere interventi per la sostituzione degli organi di amministrazione della banca.

Il credito cooperativo assume in tal modo un assetto più vicino alle esperienze europee senza peraltro giungere a un completo «rovesciamento» delle funzioni di coordinamento e controllo. Si tratta evidentemente di una soluzione di compromesso tra le istanze avanzate dal governo e dalla Banca d’Italia e quelle volte a mantenere la propria identità e autonomia provenienti dalle BCC e dalle rispettive federazioni.