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2013/4

Gianni Canova Severino Salvemini

Mi rifaccio vivo. Il guru del marketing e l’imprenditore invidioso

Attraverso la spassosa vicenda di un imprenditore aspirante suicida che si reincarna per far fallire il suo rivale, il nuovo film di Sergio Rubini ( Mi rifaccio vivo , 2013) mette in scena con garbata leggerezza alcuni paradossi del management contemporaneo e ironizza su certi guru del marketing dei nostri tempi.

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Mi rifaccio vivo

Regia: Sergio Rubini

Interpreti: Emilio Solfrizzi, Neri Marcorè, Pasquale Petrolo, Margherita Buy

Italia, 2013

Tutta colpa di un chiodo. Mentre cammina scalzo su un pontile che dà accesso a un laghetto del Centro Italia, con una corda al collo legata a una pesantissima pietra, l’industriale Biagio Bianchetti oberato di debiti, distrutto dalla sfortuna e dalla concorrenza mette involontariamente il suo piede ignudo sul chiodo che spunta ritto fuori dal legno, vola in acqua urlando dal dolore e, trascinato dal peso della pietra che porta con sé, finisce direttamente nell’aldilà. Dopo una breve corsa in taxi, si ritrova in una sorta di lussuosa spa dove i defunti in accappatoio bianco vengono accolti da un vecchio con la chioma folta e la barba bianca. Ma non si tratta di San Pietro tanto meno di Domineddio: il vecchio si fa chiamare Carlo Marx e smista le anime dei defunti ai vari piani dell’edificio a seconda dei meriti e dei demeriti accumulati in vita. Quando arriva il turno di Biagio, l’anziano demiurgo decide di concedergli i tempi supplementari: lo invita a scegliersi una nuova identità e lo rispedisce sulla terra per una settimana. Comincia così Mi rifaccio vivo, decima regia di un grande autore/attore come Sergio Rubini: una libera rivisitazione di Il cielo può attendere (1943) di Ernst Lubitsch che affronta nei toni e sui registri di una commedia sofisticata il classico tema della seconda chance. Prima di mettere il piede sul chiodo fatale, l’industriale “reincarnato” era sull’orlo del fallimento soprattutto a causa della feroce concorrenza del suo acerrimo rivale Ottone Di Valerio (Neri Marcorè), un bellimbusto vanesio che l’ha oscurato, scavalcato e umiliato fin dai tempi delle scuole elementari. Ora Biagio torna in vita con l’intento evidente di vendicarsi: e per farlo nel più perfido dei modi decide di assumere l’identità fittizia di Denis Ruffino (Emilio Solfrizzi), un manager di successo, considerato un guru del marketing, che affiancherà Ottone nella gestione della sua azienda. Apparentemente con l’obiettivo di farla crescere, in realtà visto che Denis non è altri che Biagio con il desiderio segreto di portarla alla rovina. Nella rivalità fra i due e nel diverso modo di affrontare il ruolo di imprenditore, Sergio Rubini tratteggia sorridendo alcuni paradossi del management contemporaneo e offre più di uno spunto di riflessione.

Ne discutono, come di consueto, Severino Salvemini e Gianni Canova.

G.C. Il personaggio di Denis Ruffino è una caricatura riuscita di certi aspiranti guru che popolano la scena del management contemporaneo. Parla per slogan, pronuncia con aria ispirata formulette facili facili (“La montagna più alta è dentro di noi”) e lancia campagne che fondano sulla banalità la loro ossimorica efficacia (Little is big)…

S.S. Non solo. L’intreccio che la sceneggiatura gli cuce intorno fa che egli si trovi al centro di una sorta di paradossale eterogenesi dei fini: qualunque cosa faccia, anche quando agisce per danneggiare spudoratamente il suo amico-rivale, in realtà produce comunque l’effetto opposto e finisce per favorire e avvantaggiare Ottone e la sua azienda. È tale la reputazione di cui gode, che ogni suo gesto viene letto come risolutivo. Come protettivo. Quando Ottone gli trova in tasca le foto “hot” che Denis/Biagio gli aveva scattato per comprometterlo, non pensa neanche lontanamente che le abbia scattate lui, e che intenda avvalersene per ricattarlo. Pensa invece che Denis le abbia requisite a qualcun altro, quelle foto compromettenti, e che quindi abbia agito per proteggerlo…

G.C. È vero. La sua forza è nella capacità di generare fiducia. E lui la possiede a tal punto, questa capacità, che di fatto può permettersi di fare qualsiasi cosa. Qualunque cosa faccia, viene sempre creduto. È un tema di grande attualità, quello della fiducia incondizionata nel leader, che il film mette a fuoco molto bene.

S.S. Così come molto bene mette a fuoco la figura di Ottone in quanto vincente: un figlio di papà sempre alla moda, che frequenta circoli molto esclusivi e che un’immagine di molto charmant. Anche se poi, a osservarlo più da vicino, rivela una sostanziale precarietà psicologica: la sua presunta invincibilità gli crea spesso crisi di panico, è sotto pressione da quando era bambino perché la famiglia gli ha sempre chiesto di essere il primo. Col risultato che quando si guarda allo specchio la sua autostima traballa. Non è un caso che alla fine tenti il suicidio sul leggendario cornicione…

G.C. La scena sul cornicione, in realtà, secondo me è una citazione di La vita è meravigliosa (1948) di Frank Capra. Il film di Rubini ha il pregio di ispirarsi non al comico ma alla commedia. In particolare alla commedia americana anni quaranta, da cui deriva la capacità di agire su equivoci, fraintendimenti e scambi di persona per trasmettere un messaggio alla fine positivo. È un modello anomalo per il cinema italiano…

S.S. Condivido. E aggiungo che proprio perché basato sul comico di situazione, il film riesce ad accostare così efficacemente due diverse figure imprenditoriali, apparentemente antagoniste ma in realtà complementari. Penso al patto in cui i due imprenditori annunciano di volere fare una joint venture (50%-50%) per acquistare una nave coreana: mentre si stringono la mano per l’accordo, ambedue stanno già pensando a come danneggiare il potenziale socio, sfruttando a proprio vantaggio il 50% del socio-rivale. La cultura antagonistica, in loro due, produce di fatto solo free riding.

G.C. In ultima istanza, però, la cosa interessante del film è che assumendo la falsa identità del manager Denis Ruffino, da acerrimo nemico di Ottone quale è stato per tutta la vita Biagio diventa suo malgrado il salvatore del rivale. Ed è l’osservazione ravvicinata a favorire lo scambio di ruoli. Quando si rende conto che Ottone ha problemi con la moglie (Margherita Buy) e ha problemi ancora più grossi con la sua psicoanalista (Valentina Cervi), Biagio smette di farsi divorare dall’invidia. Come dire: lo sguardo ravvicinato muta la percezione delle cose. Solo se vista da lontano l’erba del vicino appare sempre più verde. Da vicino, si rivela per quello che è. Spelacchiata e qua e ingiallita. Esattamente come la tua. È una morale interessante. Che ci ricorda come spesso tanti problemi derivano dal fatto che per avere uno sguardo panoramico completo forse ci accontentiamo di guardare le cose un po’ troppo da lontano.