E&M

2013/4

Giuseppe Soda

A che servono le fabbriche

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Il caso dell’Ilva di Taranto ha riportato all’attenzione dell’opinione pubblica il tema della deindustrializzazione e del rapporto tra l’industria e le comunità locali. Per settimane il problema Taranto si è posto come la ricerca di un equilibrio quasi impossibile, un dilemma senza uscita, incastrato in un angusto corridoio tra salute e impatto ambientale da un lato, lavoro e occupazione dall’altro. Posta in questi termini si tratta di una scelta drammatica, colma di analogie, come quella della madre che deve scegliere quale sacrificare dei suoi due amati figli. Sappiamo che il tempo gioca a favore della soluzione del problema e siamo consapevoli di come sia stato un gravissimo errore arrivare fino a questo punto.

Il grave conflitto che si è generato nei mesi scorsi e che è imploso nelle settimane scorse con il sequestro dei beni e le dimissioni del consiglio di amministrazione ha assunto una veste istituzionale fino a coinvolgere due poteri del nostro funzionamento democratico, esecutivo e giudiziario. È a tutti evidente che la decisione chiave non sia tanto su cosa fare, ma su come arrivare a una soluzione con una tempistica di intervento capace di tutelare la continuità aziendale, il futuro occupazionale per migliaia di persone – tra dipendenti diretti e indotto si stimano circa 40.000 persone – e la salute e la sicurezza ambientale di molti quartieri se non di un’intera città.

Nel paese dei problemi che giacciono per anni senza che nessuno si assuma l’onere di provare a risolverli, uscendo dalle specificità del caso Ilva e dalle responsabilità peculiari dell’impresa, dei decisori e dei controllori pubblici e lontani dai clamori della cronaca, l’esperienza di Taranto può essere lo spunto per una discussione più attenta e ragionata su un tema che interessa molti altri territori, ossia quello del rapporto tra industria e comunità locali.

Occorre anzitutto chiedersi se le fabbriche siano “solo” luoghi di lavoro e occupazione in grado di assicurare benessere e sicurezza a un numero relativamente ristretto di persone rispetto al territorio che le ospita. Chi ha avuto la possibilità di vedere con i propri occhi la disperazione che s’incontrava lungo la Rust Belt americana, la cintura industriale decaduta che dal Mid-West corre verso nord-est e il Canada, chi ne ha visto le città desertificate straordinario è il racconto del tentativo di rinascita in una città abbandonata della cintura arrugginita che Mario Calabresi offre nel suo libro La fortuna non esiste (Mondadori, 2009) comprende che ridurre il ruolo dei luoghi di produzione industriale nel territorio ai soli livelli di occupazione e al monte salari pagato è un grave errore di superficialità.

La perdita di occupazione è solo un indicatore che genera un effetto domino con ripercussioni che impattano ben oltre le industrie colpite e i territori interessati. L’onda lunga della deindustrializzazione nella Rust Belt ha generato un tracollo dell’occupazione manifatturiera che ha stravolto l’identità sociale di aree molto vaste. L’idea che la crisi dei presidi industriali nei territori si compensi con la ricchezza generata altrove è il solito mantra di chi guarda la foresta e non si preoccupa della salute degli alberi. Ma, soprattutto, di chi dimentica che nella crisi dei siti produttivi e industriali di un territorio si innescano processi molto più complessi che possono sfociare in un profondo declino sociale capace di alterare la coesione e il senso di appartenenza su cui si fonda la vita di una comunità. Dobbiamo al Boss della musica rock Bruce Springsteen, uno dei più grandi narratori della working class americana, la struggente e meravigliosa descrizione della crisi d’identità sociale innescata dal declino dei grandi impianti siderurgici della cintura arrugginita nella canzone Youngstown: Mio padre lavorava alle fornaci, le teneva a una temperatura più calda dell’inferno. Io tornai a casa dal Vietnam e riuscii a diventare pallettatore, un lavoro per il quale sarebbe adatto anche il diavolo. Carbone di taconite e rocce di calcare nutrivano i miei figli e mi mantenevano. Quei fumaioli si stendono come le braccia di Dio in un bel cielo di fuliggine e argilla. Qui in Youngstown [..] mia dolce Jenny sto sprofondando qui, mia cara, in Youngstown [..] Ora signore, tu mi dici che il mondo è cambiato, un tempo ti ho fatto molto ricco, talmente ricco che ti sei dimenticato il mio nome”.

Per sfuggire dall’aneddotica, che in casi come questo si può rivelare fuorviante, con un gruppo di colleghi della Divisione Ricerche della SDA Bocconi Stefano Basaglia e Fabrizio Perretti abbiamo studiato in profondità la relazione tra le comunità locali e tre grandi insediamenti industriali a forte impatto ambientale localizzati in aree del Nordest e del Centro Italia. Ovviamente, si tratta di impianti in possesso di tutte le certificazioni e autorizzazioni ambientali necessarie, ma caratterizzati da tecnologie, processi produttivi e dimensioni tali da generare un elevato impatto sul territorio. Il modello innovativo proposto nella ricerca ha previsto un’analisi articolata su due livelli: i dipendenti delle fabbriche operai, impiegati, quadri e dirigenti e un campione stratificato e rappresentativo di cittadini residenti, di amministratori e autorità locali dei territori prossimi agli impianti e soggetti ai rischi e al disagio delle emissioni, del rumore, del traffico pesante. La ricerca, che esce dal semplice calcolo economico e indaga l’impatto sociale e psicologico degli insediamenti industriali, ha messo in evidenza risultati molto interessanti che ci possono aiutare a capire il legame complesso che si instaura tra fabbriche e territorio. Il primo risultato che emerge è che a considerare le fabbriche “parte” del tessuto comunitario e della stessa identità del territorio non è solo, com’è facilmente intuibile, chi vi lavora o ne trae diretto beneficio economico, ma tutta la comunità. Pur avvertendone il peso, a volte anche sensoriale, “visivo” e “olfattivo”, le comunità locali segnalano con grande evidenza il valore di unità e coesione che gli insediamenti industriali assicurano al territorio, rappresentando nelle loro descrizioni i capannoni e gli impianti come vere e proprie “ancore” di sicurezza in un mondo esterno percepito come molto incerto. Specie nelle comunità piccole, le ciminiere delle fabbriche sono veri e propri artefatti dell’identità collettiva, fanno parte integrante del “noi” di un territorio, come i campanili o le torri medievali. Al punto che immaginare il territorio senza di essi è considerata una perdita. In ciascuna delle tre comunità indagate il grado di accordo sull’affermazione “Non riesco a immaginare la mia comunità senza lo stabilimento”, si e rivelato molto alto (5,53 di media su una scala 1-7) e sistematicamente più alto nella comunità che non tra gli stessi lavoratori diretti o dell’indotto. Sulla valutazione “fortemente negativa” della possibile perdita dell’attività industriale il dato è ancora più emblematico, con una media nei tre territori di 6,27 (sempre su una scala 1-7).

La seconda evidenza, forse la più sorprendente, è la percezione della fabbrica come ambito di espressione di comportamenti di cittadinanza fondati su un sentimento di “proprietà” di tipo psicologico: “la nostra fabbrica” è la descrizione più ricorrente. Appare evidente che, nel dissolvimento degli ambiti tradizionali di soddisfazione dei bisogni di affiliazione e di identificazione, il luogo di lavoro che assicura continuità e stabilità proietta la relazione persona-lavoro e persona-luogo di lavoro in un periodo che va oltre l’ansia del temporaneo e anche dello stesso scorrere del tempo fisico. Padri che sperano che la fabbrica resti viva per i propri figli, figli che aspirano a un contesto di sicurezza di lungo termine per essere come i padri. Questa è una fonte di coesione e identità per la comunità e le persone che vi vivono appaiono esserne profondamente consapevoli.

Per approfondire meglio questo fenomeno, uscendo anche dai cancelli della fabbrica e provando a sondare il territorio, abbiamo misurato il grado di istituzionalizzazione degli insediamenti industriali ospitati. In particolare abbiamo calcolato quanto nelle risposte dei residenti gli stabilimenti a forte impatto ambientale fossero considerati elementi della cornice istituzionale della comunità, al pari dell’ospedale, della scuola o del municipio. Il dato più interessante è che l’istituzionalizzazione delle fabbriche nella comunità è strettamente legata alla percezione che i cittadini hanno rispetto alla gestione dell’impresa e della fabbrica. Impianti governati con il dialogo, il consenso, il supporto e l’integrazione con il territorio sono considerati parte integrante della comunità. Al contrario, gestioni vissute come distanti, non dialoganti, spezzano irreparabilmente il rapporto con il territorio.

Abbiamo così compreso che la mediazione tra territorio e insediamenti industriali è una precisa responsabilità del management, degli imprenditori e delle amministrazioni locali che devono essere consapevoli di un rapporto molto profondo con il territorio e non gestirla semplicemente come una relazione di pura localizzazione. In altre parole, lo scambio lavoro vs localizzazione degli stabilimenti a forte impatto ambientale non è accettato dal territorio se i primi non si collocano nella cornice istituzionale della comunità. Pensare di esaurire la relazione con il territorio con l’idea di offrire occupazione e qualche tassa locale non consente di valorizzare le potenzialità che si celano in una relazione molto più profonda.

Il terzo aspetto che emerge dalla ricerca è che, nel diffuso smarrimento su “cosa fare da grande”, la fabbrica è ancora diffusamente vista come luogo di apprendimento di mestieri, come fucina di sviluppo di saperi e competenze considerati concreti e utili per affrontare le incertezze e le ansie del futuro. Così, attorno ai luoghi di lavoro della fabbrica si intrecciano due identità che svolgono una cruciale funzione di collante sociale. L’identità territoriale e quella professionale che si manifesta in sentimenti di appartenenza a categorie lavorative ben identificate e socialmente riconoscibili. La nostra ricerca non ha soltanto sottolineato l’importanza percepita in tutta la comunità di un contesto di formazione di “mestieri”, ma ha messo in luce come questa percezione positiva attraversi le generazioni senza significative differenze tra giovani e meno giovani.

Infine un elemento solo all’apparenza secondario. Nelle risposte dei lavoratori e del territorio, la fabbrica si dimostra uno dei più potenti luoghi di integrazione e tolleranza. Scritte xenofobe sui muri, abbracci, solidarietà e sudore insieme nei capannoni bollenti. È questo un altro paradosso. Nella fabbrica, ai tempi della crisi, non conta da dove uno viene. È una scuola di tolleranza, dove ogni giorno ci si confronta necessariamente sulle cose, sui comportamenti, non sui pregiudizi. Questo ruolo dei luoghi di produzione industriale è parte integrante della rinascita italiana del dopoguerra e, forse, abbiamo dimenticato quanto le grandi fabbriche abbiano contribuito a consolidare il senso di identità nazionale durante l’imponente flusso di manodopera da sud a nord.

Se si vuole riflettere seriamente sul ruolo degli insediamenti industriali in un paese la cui base produttiva è in forte ridimensionamento, con una struttura manifatturiera che ha risentito più di altri dei processi di globalizzazione e nella consapevolezza che il rispetto delle norme sia una condizione non negoziabile, occorre ricordare la luce della coesione sociale e del senso di identità che le fabbriche assicurano ai territori. Luce che nel buio della crisi può assumere un valore vitale.