E&M

2007/3

Gianni Canova Severino Salvemini

“These Boots Are Made for Walking”?

Un calzaturificio inglese, sull’orlo del crack, riesce a rilanciarsi con un’innovazione coraggiosa che si lascia alle spalle il prodotto classico e generalista puntando su una produzione decisamente di nicchia. Kinky Boots, dell’inglese Julian Jarrold, mette a fuoco con grande efficacia un modello di management visionario che punta sul rischio e sul cambio di paradigma produttivo e organizzativo.

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Kinky Boots

Regia: Julian Jarrold

Interpreti: Joel Edgerton, Chiwetel Ejiofot

Gran Bretagna, 2005

Northampton, provincia britannica. Un’azienda produce scarpe. Lo fa da quattro generazioni, riproponendo sul mercato sempre il solito modello ormai ipercollaudato: scarpe classiche, rifinite con cura e con estrema attenzione ai dettagli, realizzate per un mercato che per decenni non ha sentito il bisogno di innovare un prodotto apprezzato per le sue indiscutibili qualità. Ma quando l’anziano proprietario muore, il figlio che gli succede alla guida del calzaturificio scopre che le cose vanno meno bene del previsto: il mercato è in crisi, le vendite languono, il prodotto giace invenduto nei magazzini e i dipendenti sono allarmati per il loro posto di lavoro. Il protagonista si rende conto che per continuare la gloriosa tradizione di famiglia è necessario innovare: ma l’innovazione non è semplice per chi è abituato a ragionare secondo schemi consolidati. Sarà la conoscenza casuale con una drag queen di colore, promossa a stilista, a salvare il calzaturificio dal crack riconvertendo la produzione e puntando su un settore di nicchia quale quello costituito dagli stivali con tacco per transessuali. Nel solco della miglior tradizione della commedia britannica a sfondo sociale, Kinky Boots di Julian Jarrold traccia un quadro credibile e illuminante su alcune dinamiche dell’azienda contemporanea, dal problema della successione a quello dell’innovazione via via fino al tema della “passione”. Ne discutono, come di consueto, Severino Salvemini e Gianni Canova.

S.S. L’inizio di Kinky Boots richiama quello di L’eredità (2004) di Per Fly: là il figlio dell’imprenditore si allontanava dal laminatoio danese di famiglia e raggiungeva la compagna che faceva l’attrice a Stoccolma, qui invece il figlio del titolare del calzaturificio lascia la provincia e un mondo fatto solo di scarpe per trasferirsi a Londra con la fidanzata. In entrambi i casi, la morte improvvisa del padre induce i figli a tornare e ad affrontare quel particolare “momento della verità” che è la decisione di farsi carico dell’azienda di famiglia.

G.C. È significativo anche il fatto che in entrambi i film il primo impatto del giovane con l’azienda sia l’incontro con i dipendenti: il primo giudizio a cui viene sottoposta la sua competenza è quello di chi ha lavorato per il padre e probabilmente continuerà a lavorare per lui…

S.S. È quasi inevitabile che sia così: in fin dei conti le aziende sono fatte dalle persone più che da astratti fattori produttivi. Ed è proprio per questo che i dipendenti sono molto più perentori rispetto ad altri stakeholder (i clienti, o i banchieri/finanziatori): sanno che da quattro generazioni la famiglia si avvicenda alla guida dell’azienda, hanno instaurato una relazione di fiducia con il padre defunto, che li chiamava per nome a uno a uno, e ora si ritrovano di fronte a un figlio che non li conosce, che non sa nulla di loro, che li vede come una massa di individui anonimi e che nonostante ciò deciderà dei loro destini.

G.C. Non è un caso, in questa chiave, che il primo incontro con i dipendenti avvenga con il protagonista che parla loro con un interfono, nascosto da uno schermo di vetro, quasi a suggerire metaforicamente la difficoltà della comunicazione. I dipendenti non sentono le sue parole, e lo guardano con aria di sfida, nel tentativo di capire se quel giovane imberbe sarà in grado o no di pagare loro lo stipendio. È una scena molto forte, dietro cui si intravede un po’ tutto il filone della commedia inglese a sfondo sociale, da Full Monthy a Grazie, signora Thatcher, da Calendar Girls a Svegliati Ned, per non parlare dei film inglesi di Ken Loach.

S.S. Di fatto, però, dopo questo incipit Kinky Boots si concentra soprattutto sul tema dell’innovazione in un processo produttivo standardizzato. L’azienda che il protagonista si trova a ereditare produce da più di quattro generazioni lo stesso modello di scarpe, le Oxford, quasi la quintessenza del prodotto classico. Non solo per la qualità delle scarpe, ma per la logica da magazzino che presiede alla produzione: il calzaturificio del signor Price non conosce il just in time della Toyota o la supply chain del prêt à porter. L’azienda ha ormai consolidato una cultura organizzativa che ha inaridito l’apprendimento di metodi diversi e non riesce neppure a immaginare un ringiovanimento del prodotto. In casi come questo, il prodotto nuovo può nascere solo o attraverso un break­through, una forte discontinuità, oppure facendo nascere la novità in un altro setting, che non sia contaminato dalla cultura dell’esistente. La scossa in questo caso arriva da Lola, la drag queen che diventa stilista della compagnia, costituendosi come polo opposto rispetto alla normalità e alla tradizione dell’azienda Price.

G.C. Come dire, insomma, che per innovare bisogna “lateralizzare”, bisogna operare uno scarto: come ricorda al giovane imprenditore la sua assistente, non si può pensare di innovare restando “inchiodati negli uffici, e continuando a piangersi addosso, o ripetendo ‘Io che ci posso fare…?’”. Il nuovo, insomma, non si respira all’interno, occorre andare fuori…

S.S. Certo: è il cosiddetto management walking around, tra l’altro in perfetta sintonia con il prodotto scelto per il film, le scarpe, che servono proprio per camminare in posti diversi dal consueto. Il che è ripreso concettualmente dalla canzone storica di Nancy Sinatra These Boots Are Made for Walking, eseguita dal gruppo alla fine della sfilata di Milano.

G.C. Insomma: chi è da molto tempo in un framework cognitivo difficilmente riesce a percepire i segnali deboli, che vengono letti più in chiave di minaccia che in chiave di opportunità. La cultura più come fonte di conservazione che di innovazione…!

S.S. In parte è così. Anche perché l’innovazione che si verifica alla Price implica il passaggio da un prodotto che era venduto per la sua funzione d’uso (la scarpa pesante e resistente, pensata per durare e per resistere all’atmosfera rude e umidiccia della provincia britannica) a un prodotto che – dalla forma al colore – vale soprattutto per la sua funzione simbolica di trasgressione e di evocazione erotica. “Ottanta centimetri di irresistibile sesso”, recita lo slogan con cui il nuovo stivale viene lanciato: il che implica un nuovo significato simbolico della scarpa, di difficile comprensione da parte dei dipendenti della Price, figli del secolo scorso e della sua tradizione industriale e funzionalista.

G.C. Mi sembra di poter dire, però, che l’innovazione passa perché Charlie riesce a trasmettere una passione a tutti i suoi dipendenti e collaboratori…

S.S. È vero. Solo con una passione collettiva e condivisa un’organizzazione riesce a crescere e a cambiare. Charlie è a suo modo un manager visionario. Lascia la prima fidanzata, che lo consigliava di vendere l’azienda (risk adverse), privilegiando il certo (la vendita) all’incerto (il rilancio), e si mette con una collaboratrice che invece lo spinge a rischiare e a inseguire il suo sogno. Non solo: riesce a diffondere fra i dipendenti l’orgoglio di appartenere alla Price e di intraprendere una nuova avventura, ottenendo da loro prestazioni straordinarie, ben al di fuori dei doveri contrattuali canonici. Come si dice nel film: “Il giudizio degli altri non è in base a ciò che lasci, bensì a ciò che trasmetti alle persone”.