E&M

2007/1

Gianni Canova Severino Salvemini

L’odore dei soldi

In una Milano livida e stremata, un’umanità infelice insegue ad ogni costo il fantasma del denaro: A casa nostra di Francesca Comencini ripropone alcuni dei pregiudizi più radicati con cui spesso nel nostro paese viene demonizzata la ricerca del benessere e della ricchezza.

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A casa nostra

Regia: Francesca Comencini

Interpreti: Luca Zingaretti, Valeria Golino, Laura Chiatti

Italia, 2006

“Milano è molto meglio di così” (Letizia Moratti, sindaco). “No, la vera Milano è anche peggio” (Natalia Aspesi, la Repubblica). Le polemiche con cui è stato accolto il nuovo film di Francesca Comencini (Le parole di mio padre, Mi piace lavorare) hanno riguardato quasi solo il grado di pertinenza e di aderenza riscontrato dai vari interlocutori fra la propria – personale e privata – immagine di Milano e la rappresentazione della città ambrosiana offerta dal film. Come se un film si potesse giudicare per il presunto “realismo” con cui mette in scena la città in cui è ambientato. Come se pretendessimo di giudicare The Departed di Martin Scorsese sulla base della sua maggiore o minore aderenza all’idea che ci siamo fatti di Boston, o Morte a Venezia solo in base al nostro consenso o dissenso con la visione decadente e pestilenziale che la Serenissima offre di sé nel capolavoro di Luchino Visconti.

In realtà un film non è mai – né potrebbe essere – una rappresentazione oggettiva della città in cui è ambientato e girato. In qualsiasi film non c’è mai la città, ma ci sono piuttosto pezzi e schegge, frammenti e scorie. Ci sono storie e personaggi che stanno sì dentro la città, ma non la esauriscono e non la rappresentano se non in modo parziale. Il problema è capire allora quali fra gli umori e gli stati d’animo che serpeggiano oggi nella capitale lombarda vengono colti, privilegiati ed enfatizzati dal film di Francesca Comencini. Di fatto, A casa nostra è un film corale. Un po’ alla maniera di Robert Altman (America oggi) o di Paul Haggis (Crash). In una città livida e bluastra, fotografata da Luca Bigazzi in alcuni dei suoi luoghi meno ovvi e più segreti, si incrociano le vite e i destini di una mezza dozzina di personaggi: un banchiere che gioca sporco con la finanza e con le fusioni azionarie (Luca Zingaretti), una giovane ufficiale della Guardia di Finanza (Valeria Golino) che passa i suoi giorni ad ascoltare le intercettazioni telefoniche dei faccendieri milanesi nella speranza di riuscire a incastrarli; e poi un anziano professore (lo straordinario Teco Celio) che per sbarcare il lunario e pagare le tasse è costretto a vendere i suoi preziosi incunaboli e i suoi libri antichi (compresa la copia appartenuta a Giuseppe Verdi di La vie à vingt ans di Dumas), un pregiudicato uxoricida (Giuseppe Battiston) che si innamora di una prostituta venuta dall’Ucraina, un magazziniere ingenuo e ambizioso che sogna i soldi facili (ed è l’unico a finire in manette), una ragazzotta che fa la mantenuta di lusso del faccendiere di cui sopra, e che quando si ritrova scaricata da lui si vendica andando a piangere in diretta in un talk-show della tv del dolore. Ad accomunare la varie storie c’è appunto l’ossessione del denaro: tutti ne parlano, tutti lo vogliono, tutti agiscono in suo nome, per ottenerlo, per accumularlo, per incrementarlo. Con quali effetti sulla percezione che noi tutti abbiamo della realtà economica e sociale contemporanea? Ne discutono Gianni Canova e Severino Salvemini.

S.S. La mia impressione è che siamo di fronte all’ennesimo esempio di come il cinema italiano sia quasi sempre in ritardo nel rappresentare le dinamiche economiche e sociali che caratterizzano il nostro paese. Il pregiudizio ideologico, lo stereotipo consolidato, il luogo comune prevalgono ancora una volta e hanno la meglio rispetto alla necessità di capire davvero come vanno e come stanno andando le cose.

G.C. La cosa che più mi stupisce nel film è vedere come si continui a demonizzare il denaro come se fosse un portato della modernità. In realtà basterebbe rileggere – che so – Balzac e certe pagine della sua Comédie humaine per vedere come già in pieno Ottocento la grande cultura borghese fosse capace di analisi molto più raffinate, complesse e illuminanti di quelle partorite oggi dalla nostra cultura contemporanea.

S.S. Certo: siamo ancora fermi all’idea, non proprio nuovissima, che il denaro sia lo sterco del demonio, e che disponga di un potere di corruzione pressoché irresistibile e illimitato. Soprattutto, siamo ancora vittime di un pregiudizio antico secondo cui la ricerca dell’utile sarebbe fatalmente destinata a confliggere con la ricerca del bene e del giusto. Il modo in cui il film di Francesca Comencini rappresenta il mondo della finanza mi sembra ispirato, anche se involontariamente, all’antico disprezzo aristocratico nei confronti del commercio, del negotium: quel disprezzo per cui gli antichi patrizi possedevano terre e miniere ma non commerciavano, o gli aristocratici magari compravano ma non vendevano, non si sporcavano le mani, e preferivano l’otium al negotium

G.C. Credo si possa dire che un film come questo sia un esempio paradigmatico di come l’economia del simbolico nel nostro paese sia oggi quasi del tutto incapace di innovare: si continuano a usare simboli e metafore nati e cresciuti in altri contesti, sviluppati dentro scenari diversi, e li si applica un po’ meccanicamente all’oggi, e al qui. Penso, per esempio, all’epilogo della storia: il finale di A casa nostra convoca tutti i personaggi nello stesso luogo (non a caso, a proposito di metafore, un ospedale), con un gioco di incastri e di parallelismi non sempre credibili e spesso un po’ azzardati. Che la moglie del professore finisca in rianimazione proprio nel letto accanto alla prostituta ucraina, e che venga curata proprio dall’infermiera che è la moglie del magazziniere arrampicatore, e che nella sala d’attesa si ritrovino tanto il faccendiere quanto il pregiudicato, entrambi intenzionati a impossessarsi del bimbo che la prostituta morente sta per partorire, è davvero un po’ troppo: un eccesso di coincidenze e di forzature che irrigidiscono il tutto proprio per far rientrare la potenziale vitalità dei personaggi dentro lo schema metaforico predisposto a priori e imposto alla realtà come una sorta di letto di Procuste.

S.S. Certo. A casa nostra è un film pigro. È un indizio della pigrizia di molti intellettuali del nostro paese, che si sottraggono alla fatica di capire e interpretare il nuovo riconducendolo dentro gli schemi risaputi e collaudati del vecchio. Se continua a essere credibile il modo in cui viene rappresentato – poniamo – il vecchio professore in pensione, o il magazziniere avido e bramoso di arricchire in fretta, io trovo invece un po’ irritante il modo in cui vengono mostrati i grandi banchieri: come sacerdoti della finanza chiusi dentro i loro grandi palazzi, ricchi ma infelici, sempre pronti a trafficare con il torbido, e mossi – come si dice a un certo punto nel film – da un unico credo: “Che i soldi rendano il massimo che possono rendere in qualsiasi parte del mondo”. Rispetto al film francese Il costo della vita di Philippe Le Guay, di cui ci siamo occupati tempo fa anche sulle pagine di Economia & Management, siamo davvero indietro anni luce. Credo che questa sia una delle grandi battaglie culturali ancora da fare nel nostro paese: mostrare che il denaro può essere anche un presupposto di libertà, e non sempre e soltanto un demone di cui diffidare.