E&M
2007/1
Indice
Focus intervista
Doing business in China
Il mercato delle regole
Repetita non iuvant: doppio fallimento per la riforma del risparmio
Temi di Management
L’utilizzo opzionale degli IFRS: un’opportunità per le società non quotate
Fuoricampo
Storie di straordinaria imprenditorialità
Fotogrammi
Io c’ero
Scarica articolo in PDFProvate ad andare allo stadio quando piove. L’ombrello, al pari di una monetina da un euro, è considerato oggetto contundente e uno zelante poliziotto vi obbligherà ad appoggiarlo alla cancellata dello stadio. Non illudetevi di ritrovarlo a fine partita. Anzi: se la vostra squadra avrà perso, la pioggia si sarà trasformata in diluvio. Quando piove, adesso me ne resto a casa. Davanti al televisore prendo nota che decine di mortaretti hanno beffato il mio inflessibile controllore. Una volta gli è addirittura sfuggita una moto, volata poi dal secondo anello. Se mi fossi trovato lì sotto, ammetto che l’ombrello non mi sarebbe servito. Forse era questo che il poliziotto mi voleva dire.
Da tempo immemorabile, in sintonia con il variegato tifo della mia famiglia, sottoscrivevo quattro abbonamenti al Milan e quattro all’Inter. Spesso mi servivano per accompagnare a San Siro alcuni miei studenti stranieri. Adesso gli abbonamenti sono nominativi. Non sai se chiudono un occhio e ti lasciano entrare. Ma detesto sgradite sorprese, soprattutto quando esco per divertirmi. Conclusione: non li ho rinnovati. Quest’anno, 152 spettatori in meno a San Siro sono i miei. Contribuisco al calo degli spettatori medi della serie A, passati in pochi anni da trentamila a meno di ventimila.
Sinceramente, la prima domenica mi è spiaciuto, la seconda ho cominciato a rassegnarmi, la terza ho trovato un rimedio davanti allo schermo televisivo. Adesso sono entusiasta di aver disdetto gli abbonamenti. Vedo quello che voglio, se lo voglio, quando voglio. Mi sono accorto che posso scegliere la mia partita preferita. Non solo. Mi avvertono se altrove è stata segnata una rete: la posso ammirare subito e rivederla più volte, se ne vale la pena. Altri sport fanno compagnia alla monotonia del calcio: il motociclismo, la Formula Uno, il basket, il ciclismo. Scopro che posso viaggiare in tutto il mondo e mi costa meno di otto abbonamenti. Allo stadio, invece, tutto è immutato da decenni: stesse code per entrare, bar sempre squallidi, bagni peggiorati. Sono sparite anche le maschere che ti garantivano il tuo posto di abbonato contro usurpatori irriducibili.
Sta succedendo al calcio quello che, tempo fa, è capitato alle sale cinematografiche. All’inizio degli anni cinquanta, in Italia, si staccavano quasi ottocento milioni di biglietti annui. Oggi non si arriva a venti milioni. L’industria cinematografica non guadagna più distribuendo i film nelle sale, ma grazie ai DVD. Sopravvivono solo i locali di nuova concezione, raffinati ed elitari. Gli stadi, invece, sono sempre più malandati. Ma a chi interessa spendere soldi per metterli in ordine? Una società sportiva importante guadagna sempre meno al botteghino. Una flessione degli spettatori non la preoccupa più di tanto. Il Milan fa sempre meno conto sulle cinquantamila persone della domenica: gli interessano invece i cinquanta milioni che guardano la partita da casa.
Non raccontatemi che sono gli adulti a invecchiare male. Sono i giovani che cambiano. Per loro, l’oscillazione del pendolo tra momenti di individualità e spunti di collettività si è allargato. Amano costruirsi una nicchia alimentata da un cellulare mai sazio ma restano fanatici di eventi collettivi, purché unici. Un creatore di palinsesti televisivi personalizzati farà sempre la fila per godersi i mondiali di calcio, per assistere a un concerto epocale. Anche per vedere in San Pietro il papa morto, li ricordate? Erano in pochi a pregare; la maggior parte scattava una foto da spedire immediatamente a parenti e amici lontani. Questa gente, allo stadio andrà soltanto se lo spettacolo permetterà di dire: “Io c’ero”.