E&M
2006/6
Indice
Focus intervista
Il mercato delle regole
Doing business in China
I turisti cinesi amano l’Italia, ma sposano altre mete europee
Area Pubblica Amministrazione
L’arte del management nella sanità territoriale: sviluppi in corso, scenari futuri
Area Amministrazione e Controllo
Fuoricampo
Storie di straordinaria imprenditorialità
Caprai SpA: un caso di successione generazionale ben riuscita
Fotogrammi
Personal services
Scarica articolo in PDFDear Frankie
Regia: Shona Auerbach
Interpreti:Emily Mortimer, Gerard Butler
Gran Bretagna, 2006
“Dear Frankie”: cominciano tutte così le lettere che un ragazzino sordomuto riceve periodicamente dal padre lontano, imbarcato su una nave che solca gli oceani di tutto il mondo. Sono lettere appassionate e misteriose, che parlano di luoghi esotici e di avventure sul mare, di porti lontani e di popoli diversi. Dalla piccola cittadina scozzese in cui vive con la madre e con la nonna, il piccolo Frankie sogna a distanza i viaggi del padre, e compensa con l’eccitazione della fantasia e con il piacere dell’attesa il dolore provocato dall’assenza della figura paterna. Non sa, Frankie, che il padre non si è mai sognato di scrivergli, e che quelle lettere gliele invia direttamente la madre, abbandonata dal marito con quel piccolo figlio ipodotato: anche lei in fondo esorcizza una mancanza con l’immaginazione, e surroga l’assenza attraverso una simulazione innocente. Il problema nasce quando Frankie viene informato da un compagno dispettoso del fatto che la nave su cui crede stia viaggiando suo padre sta per attraccare al porto della cittadina scozzese in cui vivono lui e la madre. Il bimbo si aspetta ovviamente che il padre lo vada a trovare, e pensa che nelle sue lettere gli abbia nascosto il suo arrivo imminente solo per fargli una sorpresa. Quando la madre scopre che il figlio sa dell’arrivo della nave si trova di fronte a una situazione d’emergenza: o svelare al figlio la verità, oppure tenere in piedi il castello di finzioni alzando ulteriormente il livello del gioco. La madre scioglie il dilemma optando per la seconda possibilità: attraverso un’amica, assolda un uomo disposto a fingere di essere il padre di Frankie. Lo paga perché reciti una parte. E perché la reciti nel migliore dei modi possibili. Ambientato in una Scozia plumbea e decolorata, al di là dei toni da delicato mélo familiare, il film di Shona Auerbach presenta alcune situazioni che si offrono come perfette metafore di temi e problemi centrali nell’attuale riflessione sul management e sul marketing dei servizi. Come emerge dal consueto dialogo fra Severino Salvemini e Gianni Canova.
S.S. La cosa che più mi ha colpito nel film di Shona Auerbach è la chiarezza con cui, attraverso la figura dell’uomo assoldato per “interpretare” il padre di Frankie, viene messo a fuoco quello che oggi si ritiene debba essere il comportamento di un fornitore modello: attento alle esigenze specifiche del “cliente”, disposto a personalizzare al massimo il servizio e ad accogliere le esigenze anche più particolari del suo interlocutore.
G.C. In effetti, nel film la madre chiede all’uomo un servizio molto personalizzato. Non vuole che reciti un ruolo o che indossi una generica maschera di padre. Esige che sappia essere quel padre. Per questo gli dà il “copione” (le lettere che Frankie pensa gli abbia scritto…), gli racconta la storia, gli suggerisce come deve fare. E lui manifesta un certo imbarazzo, si interroga se ce la farà o no a reggere questa personalizzazione…
S.S. Io leggo nella relazione tra il piccolo Frankie e il suo finto padre un esempio quasi paradigmatico della relazione che sempre più esiste in ambito economico tra produttore (o fornitore) e cliente. Soprattutto in settori e comparti come la consulenza, la pubblicità, la certificazione o il personal care ormai il fabbisogno del cliente è così specifico che il servizio non può che essere personalizzato: non più standardizzato e di massa, ma sempre più tendenzialmente one to one.
G.C. Di fatto, il finto padre del film è un fornitore con due clienti: Frankie e la madre. E deve soddisfare due esigenze diverse: quella di rendere credibile e verosimile la finzione agli occhi del ragazzino e quella di mostrare che il ragazzino crede alla sua messinscena agli occhi della madre. Il film è interessante perché mostra la fatica inevitabilmente connessa con la personalizzazione del servizio, e con la necessità di articolare il “servizio” stesso anche sul piano degli affetti e dei sentimenti.
S.S. È vero. Ormai c’è la consapevolezza che bisogna saper fornire un servizio professionale tanto più sofisticato quanto più il bisogno è complesso e articolato. È un po’ quel che accade nella sartoria quando si passa dal prêt-à-porter all’abito su misura, tagliato con precisione sulle esigenze del cliente, tenendo conto anche dei suoi difetti…
G.C. Il personaggio del film, tuttavia, svolge il suo servizio quasi con un eccesso di zelo. Tanto che non solo convince il ragazzino, ma fa innamorare di sé anche la madre…
S.S. Questa è un’altra suggestiva metafora di una prassi ben nota ai professionisti dei servizi: quella che in gergo viene definita overservice. Il servizio è così ben personalizzato che eccede i limiti del contratto. Le società di consulenza conoscono bene questo tipo di sindrome: sanno che il consulente può essere preso dalla volontà di soddisfare così appieno il cliente – per narcisismo, o per legittimo desiderio di successo – da rendere antieconomica la sua prestazione. È un paradosso che si può verificare, per esempio, nel settore del private banking: per fornire un servizio davvero personalizzato, il consulente che gestisce – poniamo – il patrimonio di una famiglia non dovrebbe seguire più di una decina di clienti, ma se così facesse il costo delle sue prestazioni diventerebbe talmente alto da risultare impossibile.
G.C. Non a caso, nel film, il servizio si configura secondo la classica dinamica dell’one to one. Un cliente, un fornitore. Faccia a faccia. Con tutto il tempo a disposizione. Con un’assoluta disponibilità ad ascoltare, a capire, a cogliere anche i minimi bisogni del ragazzino. E con la scelta strategica di fingere che sia sempre lui, il ragazzino, a scegliere cosa fare, e come farlo, anche quando la decisione è stata presa invece dal “fornitore” del servizio. Ciò genera evidentemente un’ottima customer satisfaction, ma in una logica di fatto antieconomica e – mi pare – difficilmente riproponibile in un ambito aziendale.
S.S. In parte è così. Ma con la precisazione che il film coglie e mette in scena con rara lucidità metaforica una tendenza che mi pare indiscutibile: quella del tramonto dei servizi massificati e standardizzati a favore di una personalizzazione che si configura ormai come orizzonte di non ritorno anche per i servizi complessi di società dal profilo estremamente sofisticato.