E&M
2006/6
Indice
Focus intervista
Il mercato delle regole
Doing business in China
I turisti cinesi amano l’Italia, ma sposano altre mete europee
Area Pubblica Amministrazione
L’arte del management nella sanità territoriale: sviluppi in corso, scenari futuri
Area Amministrazione e Controllo
Fuoricampo
Storie di straordinaria imprenditorialità
Caprai SpA: un caso di successione generazionale ben riuscita
Fotogrammi
Il fascino della diversità
Scarica articolo in PDFCon buona pace di francesi e tedeschi, anche il quarto titolo mondiale è in cassaforte. La caccia al quinto avrà luogo in Sudafrica.
Non pensiamo a un safari in terre vergini. La prima partita di calcio giocata laggiù risale al 1864 e tale sport, insieme alla box, fu subito appannaggio dei neri. I bianchi si riservarono il cricket e il rugby. Entrata nella FIFA fin dall’inizio, nel 1962 la Federazione del Sudafrica decise che tutti i giocatori della nazionale dovevano essere bianchi. E la FIFA la sospese. Altro pasticcio nel 1974, quando si stabilì che la nazionale doveva essere composta o da soli bianchi o da soli neri. Nuova sospensione della FIFA che la espulse nel 1976, quando si creò Soweto, una città nera nella città bianca di Johannesburg. Fu riammessa nel 1991, finalmente regolare. Come ci accoglieranno laggiù, nel 2010?
“Con immensa simpatia” garantisce Jacqueline, una mia alunna al Master FIFA, proveniente dalla Namibia. La incontro a pranzo, unico momento libero per gli studenti.
Aiuto anche lei a far emergere i sogni della sua vita e chiedo al suo curriculum vitae di renderli trasparenti. Quello di Jacqueline finiva così: “No smoker; no alcoholic drinker”. Il vino, già in tavola, era pertanto tutto per me. Doveva esserlo anche il limoncello ma, curiosa, si innamorò delle poche gocce che volle assaggiare nel suo gelato. Un bicchierino tutto per lei sparì in pochi secondi. Ridendo, correggemmo il CV. “No smoker; usually no alcoholic drinker.” È appena tornata in Namibia. Il ministro dello Sport l’ha nominata sottosegretario. Ha ventisei anni: e non ha limiti. Mai dimenticherò quel pranzo, iniziato con una lezione di stile quando Jacqueline congiunse le mani, recitò una breve preghiera e si fece il segno della croce. Mi disse: “In casa mia, si usa così. Da sempre”. E aggiunse: “Chi pensa che le piccole cose non siano importanti, non darà mai importanza neppure alle grandi”.
In viaggio verso il 2010 qualche sorpresa ce la riserverà la raffinatezza giuridica locale. Sentite questa. Bafana Bafana è il nome della squadra nazionale di calcio del Sudafrica. Nella loro lingua significa “I ragazzi”. Cominciarono a chiamarli così, nel luglio 1992, tre giornalisti e tutta la gente adottò subito questo simpatico soprannome. Nel 1993 un vispo imprenditore locale, Stanton Woodrush, depositò Bafana Bafana come marchio per i suoi abiti sportivi. Kappa, forte di essere uno sponsor della nazionale, nel 1994 mise le mani sullo stesso marchio. Seguì un processo fiume ma vinse l’imprenditore locale perché l’aveva depositato per primo. Il Sudafrica non è nato ieri, in nessun senso.
Un ultimo snodo va messo in chiaro, quello del razzismo. Senza falsi pudori. Bianchi e neri: smettiamola di dire che siamo tutti uguali. Neanche per sogno. I neri non si tormentano come noi per programmare un futuro: è solo l’oggi che conta. Credono nella presenza fisica dell’invisibile e accettano sempre la vita, comunque sorga. Rivestono i loro crocifissi con una toga sacra e una corona da re sostituisce le spine. Hanno la danza nel sangue. La loro cultura orale rende sacra ogni promessa fatta a voce. È la comunità che conta: a questa appartiene la terra, e se uno straniero ne vuole un appezzamento in uso deve prima far parte del gruppo, magari tramite adozione.
Perché nascondere che siamo completamente diversi? Certo: il bianco che si sente superiore al nero è un becero razzista. È un cieco che calpesta il valore degli altri. Ma anche chi finge che siamo tutti uguali è un razzista, anche se più subdolo. È un miope che smarrisce il fascino della diversità.