E&M

2006/6

Vincenzo Perrone

Ne nos inducas in tentationem. Ideali e idoli di vita e consumo

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Vorremmo provare a collegare con il filo sottile di un’ipotesi alcuni fatti e notizie estratti in modo non casuale dalla cronaca recente. Nel cosiddetto “quadrilatero del mattone” (Bergamo, Brescia, Milano e Verona) gli operatori dell’Istituto di Medicina del Lavoro scoprono che un muratore su cinque tra quelli più giovani (sono duecentomila quelli presenti in zona in centoventimila imprese censite) si fa di cocaina. Il quotidiano La Repubblica, che riporta la notizia, spiega che l’assunzione di droga è legata all’obiettivo di aumentare la produttività riducendo il senso di affaticamento. In questo modo i giovani manovali cocainomani riuscirebbero a lavorare di più, a guadagnare di più e quindi a spendere di più sia nei divertimenti del fine settimana (ristoranti, discoteche, drinks e di nuovo cocaina, questa volta probabilmente per tirare mattino ballando) sia in alcuni simboli di status come auto costose di grossa cilindrata. L’articolo si sbilancia in un pericoloso paragone nostalgico con le vecchie maestranze bresciane o bergamasche che se proprio dovevano doparsi aumentavano la quantità di rosso con il quale bagnare la polenta.

Un quotidiano della Gran Bretagna, il Sunday Times, per una volta molto meno autorevole del nostro, dà risalto, qualche settimana dopo, a una dubbia ricerca di un tale Don Roberts, psicologo, il quale, intervistati centotrenta ragazzi britannici ai quali chiede informazioni circa le abitudini di loro conoscenti, scopre che il 6% di questi dichiara di conoscere una studentessa che si prostituisce saltuariamente (o che ha comunque a che fare con l’industria del sesso) per pagarsi gli studi. Il “ricercatore” ne ricava che il numero delle ragazze che ha compiuto questa scelta radicale è aumentato del 50% negli ultimi sei anni. Tra le motivazioni che spingono a questo comportamento, oltre alla causa principale che si vuole sia l’aumento delle tasse universitarie in quel paese, pare vi sia il rapporto sforzo/risultato estremamente favorevole (almeno in apparenza e senza valutazioni di tipo morale) che il concedere le proprie grazie in cambio di danaro – o agitarle ad arte intorno a un palo di lap-dance – vanterebbe rispetto a scelte occupazionali alternative come operatore di call-center, commessa, magari in un fast-food, o addetta alle pulizie. Certo sarebbe meglio e ancora più lucroso in rapporto al tempo investito riuscire a diventare una fotomodella: ma quella è una possibilità concessa a poche. La ricerca inglese non è sicuramente molto scientifica, ma la tendenza sembra esistere davvero anche in versioni più moderate: nel nostro stesso paese, per esempio, non sono poche le ragazzine che hanno scoperto – grazie a siti web compiacenti – la possibilità di farsi ricaricare gratis il cellulare da una massa di guardoni telematici interessati a dare una sbirciatina alle loro acerbe e anonime grazie riprodotte in foto allusive, se non proprio porno-soft. Anche in questo caso si cerca di raggiungere il guadagno necessario per soddisfare ciò che viene percepito come un bisogno nel modo più rapido e meno faticoso possibile.

E se si hanno residui scrupoli morali, si può sempre ricorrere all’indebitamento per cambiare macchina, pagarsi una vacanza, mantenere un certo tenore di vita, o semplicemente regalarsi quella irresistibile borsetta firmata o quel paio di scarpe stu-pen-de. Fino a correre il rischio di esagerare. Negli Stati Uniti sono frequenti gli show televisivi dedicati a giovanissimi/e record-man (-woman) dell’indebitamento verso carta di credito: raccontano, non senza un pizzico di folle baldanza, la propria condizione di neoschiavi a vita della rateizzazione loro concessa per rientrare, dopo anni di totale disinteresse per le conseguenze reali derivanti da un uso forsennato della moneta di plastica. Noi siamo forse ancora il paese dove si risparmia di più e dove si investe nel mattone, ma l’incremento notevolissimo del credito al consumo, che in questo numero della nostra rivista ben discute Roberto Ruozi, segnala una tendenza sulla quale vale la pena di riflettere. I livelli di consumo per molte famiglie tendono a essere piuttosto inelastici verso il basso. Chi infatti oggi potrebbe, per esempio, decidere – e magari non per sé ma per i propri figli – di non trovare spazio nel proprio budget per le spese di telecomunicazione (cellulari – plurale – satellite televisivo, Internet), una voce che era inesistente anche solo una decina di anni fa? Se i redditi da lavoro non bastano, complici magari ancora gli effetti del passaggio all’euro, piuttosto che ridurre le spese ci si indebita: rischiando con questo di assomigliare sempre di più al nostro Stato, con tutte le conseguenze che questo tragico parallelismo può fare presagire.

Si consuma e si sogna di consumare anche per non sentirsi da meno in una società dove l’allungarsi delle distanze nel reddito tra chi è veramente ricco e chi non lo è davvero è direttamente proporzionale all’accorciarsi dello spazio di separazione tra gli stili di vita dei due gruppi e all’aumento della legittimazione degli stili delle classi abbienti. Considerate anche queste informazioni riportate di recente da Business Week. Negli USA, secondo dati raccolti dal professor Kevin J. Murphy della University of Southern California basati sulle retribuzioni offerte dalle prime cinquecento imprese secondo Standard & Poors, forniti dal Bureau of Labour Statistics, la paga annuale media di un CEO è $ 10,5 milioni (sic!): 369 volte la paga di un lavoratore medio che è di $ 28 310. Nel 1970, prima che partisse la grande corsa delle remunerazioni top, il multiplo era di 28:1. Se fosse stato mantenuto questo rapporto, oggi il lavoratore medio guadagnerebbe $ 374 800! In altri termini: se la remunerazione dei CEO venisse congelata al livello al quale è oggi occorrerebbero sessantasei anni di aumenti retributivi del 4% annuo per ristabilire il vecchio rapporto di 28:1. Quei CEO non si nascondono di certo: il loro stile di vita e le loro case sono oggetto di servizi ammirati sui principali media, anche di tipo popolare. Spesso intrecciano la loro vita con quella di attrici e artisti vari, guadagnando ulteriore copertura. I loro sport preferiti, i loro jet personali, il modo di vestire o di mangiare fanno tendenza, riempiono i nuovi inserti dei nostri quotidiani nazionali, e generano faticosi tentativi di emulazione. Fanno anche loro parte di quella schiera di edonisti modello, composta appunto da manager, imprenditori, imprenditori/ primi ministri, artisti veri e finti, divi della tv e del cinema, sportivi, da tutto il cosiddetto “vippume”, spregiato magari a parole ma da molti inseguito nei consumi, che hanno sdoganato il lusso e la ricchezza in una società che vuole contrabbandarsi come il regno del piacere e della bellezza.

Oggi, grazie ai mezzi di comunicazione di massa che rendono tutto visibile, simultaneo e raggiungibile, abbiamo tutti accesso a Versailles e ai fastosi costumi di corte, e possiamo finire per ritrovarci nella stessa condizione dei cittadini dell’Est Europa poco prima e subito dopo la caduta della cortina di ferro, quando il benessere da desiderare era a portata di parabola, e il Paese dei Balocchi a portata di Trabant. È forse proprio in quella caduta l’inizio dell’accelerazione del processo che qui stiamo inseguendo: il trionfo della società capitalistica dei consumi diviene totale solo nel momento in cui si indeboliscono le ideologie contrarie. Quella comunista in primo luogo, per la quale la ricchezza può essere il frutto solo di sfruttamento o di furto, o della subdola combinazione dei due. E anche quella cristiana e cattolica, che condanna severamente – pur facendo fatica a volte a raccordare la predica alla pratica – lo stretto legame tra diavolo e danaro, ritiene sia difficile servire contemporaneamente Dio e mammona, e sostiene che solo a Dio possa riuscire il miracolo di fare entrare un ricco nel regno dei cieli, dal momento che sarebbe come far passare un cammello attraverso la cruna di un ago. Il dominio di questi modelli di pensiero nel nostro paese ha per anni prodotto un eccesso di ipocrita e perfino dannosa pubblica condanna della ricchezza e delle sue pompe. Al punto che una diminuzione del loro peso e la fine di una superficiale e grigia era quaresimale hanno avuto un positivo effetto liberatorio per molti e possono persino avere stimolato la crescita economica del sistema. Tuttavia la crisi di queste ideologie fondamentali e dei modelli di società alternativi a quello dominante in Occidente ci lascia sguarniti di fronte alla dispiegata potenza del consumismo sostenuto dall’apparato massmediatico.

Nel momento in cui non è più minacciato dall’esterno (ma forse stiamo peccando di eccesso di ottimismo dal momento che la sfida del fondamentalismo islamico all’Occidente è anche e soprattutto sfida a valori e modelli di vita) il nostro sistema non ha infatti ancora sviluppato dall’interno anticorpi adeguati a tenerlo in vita favorendo allo stesso tempo il benessere di chi ne fa parte e la non distruzione di chi ne è ai margini o escluso. Alcuni possibili correttivi come l’ambientalismo e il femminismo, che parevano candidati molto promettenti per quel ruolo, non sembrano avere mai raggiunto forza sufficiente a incidere e riorientare. Non è necessario allora essere Pier Paolo Pasolini per accorgersi che, senza nemmeno il filtro protettivo di una censura efficace come quella che bendava l’Est, corriamo il rischio di finire con il naso schiacciato sulla vetrina di scintillante desiderabilità di un televisore e di perderci nella rincorsa al ben-avere. Ognuno di noi tragicamente trasformato (sia detto con tutto il rispetto per questi nostri cugini d’oltre Adriatico) nell’albanese di qualcun altro. Invidia e desiderio: vacanze tropicali, orologi super-rattrappanti, privilegi da vip allo stadio, in aeroporto o in albergo, gli ossequi e le confidenze dello chef del momento, happy-hour e terme, stazioni sciistiche esclusive raggiungibili solo in slitta con tiro a quattro e cocchiere personale, l’ultimo gadget tecnologico o un raro libro antico. E anche beni e servizi desiderati con la scusa di quello che potremmo chiamare, parafrasando  Edward Banfield, il nuovo “familismo morale”: la ragazza alla pari inglese perché i figli imparino la lingua quando sono ancora in fasce e non come noi che abbiamo sputato sangue a quarant’anni, i corsi di judo, nuoto e sci, le settimane bianche e quelle blu, la vetturetta che si guida senza patente per toglierci la preoccupazione della moto, la scuola di teatro e quella di cinema, e così via esagerando. E pagando, si intende.

La pressione a guadagnare prima e a spendere poi, se si entra in questi meccanismi di comparazione/competizione sociale e di automotivazione cresce a dismisura. E può generare conseguenze eclatanti come i fatti che abbiamo richiamato all’inizio. Non è necessario essere Immanuel Wallerstein per accorgersi della progressiva mercificazione di ogni cosa, sentimenti e relazioni comprese. Un processo nel quale “vendersi” in modo più o meno esplicito diventa un modo accettabile attraverso il quale si può ottenere quello che serve per comprare qualcos’altro oppure – il paradosso è inevitabile – qualcun altro. Si inseguono obiettivi tanto inarrivabili quanto il più delle volte privi di senso, come si può magari arrivare a capire alla prima malattia seria o quando si approssima la fine dell’unico gioco che ci è concesso giocare. Ideale e idolo, del resto, condividono la stessa radice greca nel verbo eidon, vedere: sono immagini di qualcos’altro che ci attirano a sé. Al primo siamo abituati a dare un significato positivo che neghiamo invece al secondo: ma in questa nostra società, non a caso detta dell’immagine, ideali e idoli tendono a irretirci confondendosi tra loro come nel canto di due sirene.

A volte pensiamo di potercela fare con il solo ausilio del duro lavoro: ci si può riuscire, ma il prezzo – è proprio il caso di dirlo – è alto. Come un criceto saliamo, inizialmente con lo spirito di chi vuole solo sgranchirsi le gambe o per sfida, su una ruota dalla quale ci sarà sempre più difficile scendere. Più si corre, infatti, più le necessità sembrano aumentare. Più ci sembra di dare e più ci pare che ci venga richiesto. Correndo sulla ruota si consuma la nostra vita in un gioco di rilanci senza fine, dove spesso non basta non riuscire più a scorgere un briciolo di significato per essere capaci di fermarsi in tempo. Le conseguenze sono pesanti. L’età media alla quale cominciano i primi episodi depressivi è scesa negli Stati Uniti a quattordici anni e mezzo (era 29,5 nel 1960) e pare che tali episodi siano legati proprio all’incapacità o all’impossibilità di misurarsi con modelli di comportamento e di relazione “ideali” come quelli con i quali veniamo bombardati ogni giorno dai media. L’80% degli studenti di Harvard, occidentali privilegiati impegnati ad arrivare a raggiungere le vette più alte della nostra società, dichiarano di soffrire di un qualche disturbo psichico di tipo depressivo.

Naturale che ci sia chi preferisce tentare scorciatoie. L’avidità del tutto e subito sta dietro molti degli scandali che hanno punteggiato le cronache economiche degli ultimi anni, da Worldcom a Enron. E se si va a leggere la lista dei benefit che i manager di queste imprese erano riusciti a concedersi non si notano differenze rilevanti rispetto ai capricci delle rockstar. Il crimine può apparire come una scorciatoia per il successo, soprattutto quando, come da noi, la probabilità di essere scoperti e condannati non è così elevata. E anche chi non si addentra nell’universo dell’illegalità è tentato da ciò che ne sta al margine: la grande operazione finanziaria dall’impalcatura così complessa da essere oscura, la speculazione edilizia sicura, il gioco delle tre carte con aziende decotte e/o indebitate. Tutto pur di “svortare”, “scollinare”, “disaccoppiare” le ore di lavoro dal guadagno. E si può anche comprendere meglio con che fastidio venga visto l’onere di pagare le tasse da chi sta tentando di tutto per arricchirsi individualmente e possibilmente smettere di affannarsi per tutto il resto della vita. Emblematico di questo desiderio di cambiare status senza impegno e, spesso, senza talento è tutto il mondo che ruota intorno a quella catodica corte de noantri che è la nostra televisione. Se non siete appassionati di reality show e di trash tv in generale vi basterà leggere lo splendido libro Troppi paradisi di Walter Siti per comprendere quanto sia numeroso lo squadrone di uomini e donne, prevalentemente giovani, disposti a tutto pur di salire, pagati, su quella giostra e uscire dall’anonimato di una vita normale in un mondo che non lo è mai stato.

Che fare allora? Arrendersi? Riscoprire il rigore delle regole monastiche (con il rischio di lanciare una moda)? Ribellarsi e cambiare radicalmente esistenza? Quelli che sono molto lontani dai modelli dominanti di vita e consumo sono troppo impegnati a riuscire ad arrivare alla fine del mese per nutrire qualcosa di più di un sordo rancore o di una rassegnata indifferenza. Maggiormente a rischio sono quelli che abitano le terre di mezzo del desiderio anabolizzato e insoddisfatto. A loro (a noi) si può solo consigliare di non trascurare i segnali che il corpo dà. Quando la mente non riesce a decidersi nel giudicare la vita che viviamo, il nostro corpo mostra in genere di avere le idee molto più chiare. La mancanza di senso, l’angoscia e lo stress provocano reazioni sempre più evidenti e diffuse che dovrebbero indurre a una maggiore attenzione. Per questo contiamo di occuparcene anche sulle pagine di questa rivista nel prossimo futuro. Peccato che quando il corpo è costretto a urlare per farsi sentire abbiamo già varcato le soglie della malattia prima ancora di quelle della crisi esistenziale. Meglio allora la prevenzione.

Il corso più seguito in questo momento in tutto il programma Master di Harvard (con ben novecento studenti iscritti: un record storico assoluto) è il numero 1504 tenuto da un giovane ed esile professore israeliano, Tal Ben-Shahar. È dedicato alla cosiddetta positive psychology ovvero, come recita l’intestazione del syllabus: “the psychological aspects of a fulfilling and flourishing life. Topics include happiness, self-esteem, empathy, friendship, goalsetting, love, achievement, creativity, mindfulness, spirituality, and humor”. Forse non c’è niente di più innovativo e importante, anche per il funzionamento delle nostre imprese e della nostra economia, che occuparci della nostra felicità e aumentare la nostra sensibilità a tutto ciò che rende l’ambiente in cui viviamo un ambiente tossico, impegnandoci a cambiarlo. Non vi pare che la fine dell’anno sia un buon momento per incominciare? ?

Questo editoriale e questo numero di Economia & Management sono dedicati alla memoria di Renzo e Livio Visintini, figlio e padre, di sette e cinquantaquattro anni, strappati, all’inizio del mese di novembre di quest’anno dalla forza bruta di un lago in tempesta, alla vita e all’amore della nostra collega Paola Bielli, madre e moglie, e della piccola Sara. Tutti coloro che lavorano in SDA e in Bocconi si sono sentiti vicini a loro nello strazio e si sono augurati che Qualcuno riuscisse a rendere umanamente tollerabile un dolore altrimenti invincibile. Se è difficile ma necessario trovare un senso alla vita è quasi impossibile infatti trovarlo per morti assurde come queste.