E&M
1998/5
Indice
Editoriale
Interventi
Il malessere della sanità come sfida manageriale
Gli accordi internazionali nell’ambito delle strategie competitive degli intermediari finanziari
Interventi
La strategia della Commissione Europea per l’armonizzazione contabile
Gestire la tesoreria in una azienda moderna: managerialità più che tecnicismo
Le relazioni tra imprese all’origine dei vantaggi competitivi knowledge-based
Da Marylin a Merilijn: i mancati "sosia" del mercato globale
Scarica articolo in PDFElvjs e Merilijn
Regia: Armando Manni
Int.: Edyta Olszowka, Goran Navojec e Giorgio Faletti
Italia, 1998
Sta tornando di moda la figura del sosia. Al cinema e in televisione soprattutto, ma con qualche contraccolpo non trascurabile anche sul piano della società.
Gli esempi si sprecano: non appena i media diffondono la voce che sono in preparazione un film su Lady D. e un altro su Madre Teresa di Calcutta, ecco che spuntano come funghi in ogni parte del mondo anonime aspiranti al ruolo della protagonista in virtù della loro impressionante somiglianza fisica con le signore in questione.
Un attore-divo come Bruce Willis rompe uno dei matrimoni più solidi di Hollywood (quello con l’attrice Demi Moore) per accompagnarsi con una nuova partner che sembra la controfigura perfetta della sua ex-consorte. Uno dei film italiani più interessanti della stagione (Elvjs & Merilijn di Armando Manni) racconta di due ambiziosi e sfortunati chansonniers rumeni che tentano la fortuna in Occidente presentandosi come i sosia di due delle “icone” più radicate della società dello spettacolo contemporanea (Elvis Presley e Marilyn Monroe. Il film Blues Brothers 2000 di John Landis cerca di essere il sosia dell’omonimo cult-movie realizzato vent’anni fa dal medesimo regista, anche se un altro attore (lo scomparso e compianto John Belushi rivestiva allora i panni del protagonista. Sosia più o meno perfetti di James Dean e – ancora – di Marilyn compaiono tanto in Pulp Fiction di Quentin Tarantino quanto in Crash di David Cronenberg. Per non parlare di un film imprescindibile come Strade perdute di David Lynch, che declina il tema in modo originale e trasgressivo facendo scomparire il protagonista a metà della storia e sostituendolo con un alter ego che non gli assomiglia per nulla sul piano fisico, ma che ha tutte le caratteristiche del sosia psicologico e funzionale. Si tratta di esempi molto diversi, certo. E tuttavia ripropongono tutti – pur nella diversità di accenti e di declinazioni – il ritorno corposo di un tema (di una figura) che non può non assumere significati di particolare interesse per la comprensione dei flussi profondi e dei fantasmi subliminali che agitano la società e la cultura di fine millennio. In fondo, ancora una dozzina di anni fa un clown giocoso e malandrino come Federico Fellini poteva permettersi di ironizzare con ferocia sulla “poetica del sosia” perseguita da certe reti televisive a corto di progetti e di idee (si veda in proposito una folgorante sequenza di Ginger e Fred, 1986). Oggi le cose sono cambiate. Tanto che il sosia non fa più ridere nessuno, ma evoca piuttosto una delle risposte sociali più diffuse alla crisi individuale e collettiva della nozione di identità. Come dire: in un’epoca dall’identità incerta e cangiante in cui nessun modello appare sta bile e radicato a certezze durature, proprio la figura del sosia pare a prima vista esonerata dal compito difficile e faticoso di costruirsi un’identità specifica e differente da quella altrui. Essere come è più facile che essere, tout court: il sosia finisce per diventare così l’emblema dell’identità individuale nell’era della clonazione, o il prototipo dell’individuo che accetta di apparire identico a qualcun altro nella consapevolezza che in questa apparenza (in questa assunzione di una modalità d’essere) c’è la via forse più facile e immediata per illudersi di contare qualcosa.
Come giudicare questa “moda”? E come leggere le sue inevitabili relazioni con le dinamiche evolutive in atto nell’organizzazione economica del mercato globale? Come un esorcismo di fronte alla paura che l’unico modo per affermare se stessi anche sul piano professionale consista nell’assumere modelli già collaudati da altri? O – all’opposto – come trionfo del morphing, e della ormai compiuta consapevolezza che chiunque può fare qualsiasi cosa in quasi ogni campo della vita?
La questione è complessa e controversa. Da un lato il fascino della figura del sosia esprime il piacere di ritrovare comunque la diversità (e l’individualità) dietro l’apparente omologazione (è il caso di Bruce Willis con la sua scelta di una fidanzata identica eppure di versa rispetto a Demi Moore). Dall’altro lato però la medesima figura si carica di valenze inquietanti nella misura in cui suggerisce l’omologazione come destino e come necessità. Si prendano ad esempio i due sosia del film di Armando Manni: ottenuto un contratto per una serie di spettacoli in una discoteca di Riccione, partono dalla Romania e cercano in un viaggio fortunoso di raggiungere l’Italia. Ma una volta giunti a Riccione, incontrano una delusione cocente e il loro spettacolo si rivela un fallimento. Tanto che Merilijn, che in Romania lavorava in una discarica di spazzatura, si ritrova ad aggirarsi nel cortile del la discoteca in mezzo a un’analoga montagna di rifiuti. Il cerchio si chiude, implacabilmente: i due sosia di Armando Manni non sono “icone cerebrali”, sono persone vere, di carne e di sangue, che fanno miseri sogni di sopravvivenza alla ricerca di una “dolce vita” che non arriverà mai. Così umili che non somigliano nemmeno ai loro idoli. E tutto ciò in un mondo in cui c’è solo una cosa più triste del sosia di una star: il sosia che non assomiglia al modello. Perché qui sta il punto: più che un dato di fatto, la moda dei sosia nel cinema recente indica un’aspirazione, un voler essere. Cioè una tensione che non necessariamente corrisponde alla realtà. Più che veri sosia, molti dei personaggi cui si è fatto cenno sono degli aspiranti tali. Cioè individui senza qualità che cercano nella mimesi spudorata di coloro che ritengono possedere ogni qualità possibile la via più rapida per uscire dall’anonimato e per acquisire un’identità.
Ancora una volta il cinema non esprime giudizi, non emette sentenze: con lungimiranza e lucidità coglie un dato di fatto. Intuisce il collasso di modelli sociali fondati sulla ricerca individuale di originalità e il tentativo di surrogarli con modelli centrati sul mimetismo e sull’imitazione. Degli individui come degli oggetti e delle merci. Ma proprio nella misura il cui rivela (e lo fa quasi sempre l’inevitabile scarto fra il modello la sua fallimentare imitazione, il cinema suona anche un campanello d’allarme.
E suggerisce al suo pubblico che non è per questa via che è pensabile di trovare una soluzione alla complessità dei problemi che la globalizzazione della società e la mondializzazione dell’economia chiamano ad affrontare.