E&M

2004/3

Gianni Canova

Come salvare l’azienda di famiglia

Un film danese prodotto da Lars Von Trier (L’eredità, diretto da Per Fly) mette a fuoco con sguardo efficace il problema della successione nelle aziende familiari e offre un suggestivo esempio di leader costretto a scegliere fra libertà e necessità.

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L’eredità

Regia Per Fly

Interpreti Ulrich Thomsen, Lisa Werlinder, Ghita Norby

Danimarca, 2004

Quasi una tragedia moderna. O una parabola tragica sul fascino e la solitudine del potere in una dinastia di grandi industriali. Prodotto dalla Zentropa di Lars Von Trier e accolto da un successo clamoroso in Danimarca (quasi 400 000 biglietti al box office su una popolazione di poco più di 5 milioni di abitanti), L’eredità è il secondo episodio di una trilogia – iniziata con The Bench/La panchina, 2000 – che il regista Per Fly sta dedicando all’analisi delle classi e delle divisioni sociali nell’Europa dei giorni nostri. Qui è di scena, come si diceva, la grande borghesia: non il ceto rampante dei nuovi ricchi, ma una solida dinastia di industriali, proprietari delle Acciaierie Borch Moller di Copenaghen, abituati da generazioni alla gestione della ricchezza e all’esercizio del potere. Il più giovane rampollo della casata, Christoffer, ha scelto di non occuparsi degli affari di famiglia. È felicemente sposato con Maria, un’attrice svedese, e gestisce un ristorante a Stoccolma. La notizia del suicidio del padre lo coglie all’improvviso e lo lascia impietrito. Tornato con la moglie a Copenaghen per partecipare ai funerali, Christoffer viene caldamente invitato dalla madre a prendere in pugno le redini dell’azienda: le acciaierie stanno attraversando una gravissima crisi finanziaria, sono oberate di debiti e rischiano il fallimento. Bisogna predisporre un piano di rilancio, ottenere nuova fiducia dalle banche creditrici. E deve farlo lui – gli dice la madre – perché solo lui ne è in grado. Christoffer ne parla alla moglie (“Si tratta della vita di novecento persone…”), ma lei non vuole sentire ragioni (“Si tratta della vita di noi due…!”) e lo induce a rifiutare. Il giovane cambia però idea di lì a poco, quando incontra gli operai e i dipendenti dell’azienda per annunciare loro la morte del padre: accolto e riconosciuto come un re dai suoi sudditi devoti, Christoffer sente all’improvviso il peso del dovere su di sé e accetta di succedere al padre e di provare a salvare le sorti dell’impresa.

Per placare le banche creditrici dovrà licenziare decine e decine di operai, guidare una difficile fusione con un’azienda partner in Francia e allontanare dalla direzione perfino il cognato, marito di sua sorella, che da tempo lavorava in azienda nutrendo la segreta ambizione di poterne prendere il comando. Intenso e drammatico, L’eredità mette a fuoco in modo lucidamente problematico alcune questioni centrali nella vita delle aziende contemporanee, a cominciare dal nodo della successione nelle imprese a conduzione familiare. Ne discutono, come di consueto, Severino Salvemini e Gianni Canova.

G.C. All’inizio e alla fine del film, nella “cornice” che racchiude in un flashback tutta la vicenda, vediamo il protagonista seduto su una panchina, intento a osservare con struggente nostalgia le finestre della casa di Stoccolma in cui vivono la moglie e il figlio, e da cui lui se n’è andato. Sa che gli basterebbe poco per rientrare in quel suo piccolo nido di felicità privata e familiare, ma sa anche che a quella felicità deve rinunciare per sempre: la responsabilità del comando gli impone di scegliere fra dovere e libertà, e lui opta per il primo. L’esercizio della leadership, sembra dirci il film, implica solitudine e rinuncia. Comporta il sacrificio della felicità individuale, anche quando si tratta di assumere la guida dell’azienda di famiglia. Sei d’accordo con questa rappresentazione della figura del leader e del suo destino?

S.S. Direi che il comportamento del personaggio di Christoffer può essere analizzato da vari punti di vista. Seguendo un approccio di tipo psicologico risulta evidente che con la sua scelta iniziale ambisce a costruirsi un destino opposto a quello tracciatogli dal padre e dalla famiglia: si trasferisce da Copenaghen a Stoccolma, abbandona l’industria pesante per lavorare nel terziario hi-tech, si lascia alle spalle la figura ferrea e determinata della madre e sceglie una donna solare e luminosa come Maria. Quando poi decide di rientrare (a Copenaghen, in azienda, nell’industria pesante) non lo fa solo per senso del dovere, ma anche perché attratto dal potere. Vede nella scelta che intraprende la sua massima realizzazione. Per questo rinuncia a tutto il resto: perché si realizza lì, nella scelta che ha fatto. Non gli serve altro. Non parlerei, quindi, solo di un’etica della rinuncia o del sacrificio.

G.C. E tuttavia è innegabile l’insistenza del regista sul conflitto fra “essere” e “dover essere”, fra libertà e dovere. Mi pare – per riprendere Max Weber – che siamo in piena etica protestante applicata alla logica e allo spirito del capitalismo. Credi che in un contesto come quello italiano sarebbe pensabile un personaggio simile? Credi che la storia avrebbe avuto lo stesso esito se si fosse svolta in una qualsiasi città della provincia italiana?

S.S. Penso di no. Credo che la storia narrata in L’eredità sia molto legata al contesto nordico. La cultura latino-mediterranea è molto più opportunista. Da noi è assolutamente improbabile che un “capo” in difficoltà scelga soluzioni estreme quali il suicidio (come fa il padre di Christoffer nel film). È più facile che fugga in Ecuador a vedere come seppellire il suo tesoretto, o dove nasconderlo. E tuttavia credo che il film rappresenti molto bene l’atmosfera di molte aziende familiari, la solitudine delle decisioni strategiche, la presenza del “consigliori”, l’inevitabile tensione fra parenti e consanguinei (in questo caso il conflitto con il cognato e poi anche con la sorella), via via fino all’intrusione delle banche, con il loro tentativo di gestire direttamente le dinamiche di risanamento e ristrutturazione. Si vede che il regista si è documentato molto, che ha parlato con persone davvero coinvolte in situazioni di questo tipo.

G.C. Senz’altro. Va anche detto, però, che il personaggio di Christoffer è tutt’altro che un “campione” sociologico. Al contrario, diventa una sorta di eroe tragico che va incontro al suo destino, quali che siano i costi che deve pagare: un po’ Amleto, un po’ Michael Corleone nel Padrino, Christoffer conosce la solitudine e l’isolamento del potere. Rompe con il cognato, con la sorella, poi anche con la moglie. Lacera affetti e sentimenti. Ma va avanti per la sua strada, quasi facendosi carico della missione predisposta per lui dal fato.

S.S. … dal fato e dalla madre. È molto forte, questa figura di donna energica e determinata, che agisce nell’ombra ma in realtà governa di fatto l’azienda, scegliendo lei stessa il successore del marito defunto. La storia delle aziende è piena di figure femminili di questo tipo, inflessibili e lucidissime nella consapevolezza che l’impresa di famiglia è il bene da salvaguardare sopra ogni altra cosa.

G.C. Mi hanno colpito molto le immagini ripetute dei grandi blocchi di metallo incandescente che escono dai forni delle acciaierie e si alternano alle luci fredde e monocrome degli esterni danesi, in un contrasto che non trova mai la sua sintesi. Ma tutto il film, in fondo, funziona così: accosta gli opposti e non li sintetizza, quasi a dire che non c’è sintesi possibile.

S.S. Certo. È molto efficace, per esempio, anche il contrasto cromatico fra il nero che domina i membri del clan familiare e i colori sgargianti che connotano invece gli operai, con i loro caschi dai colori diversi. Così come è molto riuscita quell’atmosfera fatta di silenzi e sussurri, di frasi pronunciate a bassa voce anche se in tono solenne. Aiuta a dare spessore alle cose che dicono i personaggi, e a sottolineare l’ineluttabilità delle loro scelte.

G.C. Mi resta un domanda, o un interrogativo: perché il cinema italiano non è quasi mai riuscito a trattare temi e personaggi come questi con la forza e l’incisività che posseggono nel film di Per Fly?