E&M

2014/4

Gianni Canova Severino Salvemini

Il pianista, il camorrista e il poliziotto

Lavorando con intelligenza sugli stereotipi e sui luoghi comuni, Song’e Napule dei Manetti Bros mette in scena un ambiente sociale in cui mimetismo, simulazione e falsificazione sembrano essere le doti professionali più preziose. Ma dove la coerenza con i propri valori alla fine vince sulla logica del compromesso e sull’acquiescenza nei confronti dei potenti.

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Song’e Napule

Regia: Manetti Bros

Interpreti: Alessandro Roja, Giampaolo Morelli

Italia, 2014

 

Il meccanismo è quello classico del déplacement, o dello spiazzamento: si prende un personaggio fortemente connotato, lo si strappa al suo habitat abituale e lo si piazza in un contesto che stride e fa attrito con i suoi tratti caratteriali ma anche con il suo sistema di credenze e di valori. È il meccanismo su cui si è basata tanta commedia italiana, mandando di volta in volta due ingenui contadini meridionali a Milano (Totò, Peppino e la malafemmena…) o spedendo in vacanza in Egitto, in Sudafrica o a New York (secondo la filosofia del cinepanettone…) alcuni esemplari simil-trash dell’italiano tipo. L’effetto prodotto dall’attrito, in genere, è esilarante, e serve a far emergere non solo i limiti del personaggio, ma anche i paradossi e le contraddizioni dell’ambiente e della cultura in cui si svolge l’azione. Song’e Napule dei fratelli Manetti applica il meccanismo in modo originale: il protagonista è infatti un giovane napoletano che opera e agisce nella sua stessa città, ma che di questa città non ama nulla e che si sente, in qualche modo, straniero in patria.

Spiazzato, appunto. O esiliato. Paco, diplomato al Conservatorio, vorrebbe vivere in un mondo ordinato e basato sul rispetto delle regole: viaggia in bicicletta e pretende di parcheggiarla al posto giusto in una rastrelliera; gira col caschetto e sogna una città ordinata come una capitale svizzera; ha la passione per la raccolta differenziata; crede nel merito e nelle competenze. Pianista raffinato, ama la musica classica e ascolta Rachmaninov. E tuttavia nel quotidiano è obbligato a confrontarsi con una realtà ben più prosaica, che si fa beffe di lui e del suo sistema di valori. Come dice egli stesso: “Qui si insegna a fare i furbi e a raggirare le regole. Il risultato è che viviamo in una città che sembra una fogna a cielo aperto”. Inchiodato dalla disoccupazione, il ragazzo deve scegliere tra continuare a farsi mantenere dai genitori oppure accettare la raccomandazione di un assessore molto influente per acchiappare un “posto” pubblico che gli consenta di sbarcare il lunario. E lui imbocca questa seconda strada, ben sapendo che ciò lo obbligherà a mettere in discussione i suoi principi. Così, il musicista gentile si ritrova a fare il poliziotto in una città che apparentemente ha smarrito il concetto stesso di gentilezza. Trasformatosi in Pino Dinamite, e infiltrato in una band neomelodica partenopea che deve suonare alle nozze della figlia di un imprendibile boss della camorra, sperimenta sulla sua pelle alcune delle condizioni psicologiche e attitudinali richieste oggi ai giovani che si affacciano al mercato del lavoro: flessibilità, duttilità, mimetismo e soprattutto abilità nella costruzione di false identità. Ne discutono Severino Salvemini e Gianni Canova.

 

S.S. Mi sembra che tutto il film si basi sul contrasto tra un’idea di società “moderna”, dove le persone contano per quello che sanno e per quello che valgono (l’Italia che conserva ancora qualche ideale e qualche valore) e una società arcaica dove le relazioni sociali sono subalterne ai blocchi di potere (l’Italia opportunista che si appoggia alle conoscenze, alle relazioni e alle raccomandazioni, e che si fa beffe delle regole). La sequenza iniziale – strepitosa – esprime bene questo contrasto: il questore Vitali (Carlo Buccirosso) riceve il giovane musicista che ha una raccomandazione del potentissimo assessore Puglisi per essere assunto nella Polizia. Sulle prime, la reazione del questore è indignata, e rifiuta con sdegno la logica della raccomandazione, ma poi – quando il giovane dice di essere d’accordo con lui, e si alza per andarsene, rifiutando la raccomandazione dell’assessore – il questore cambia atteggiamento e scivola rapidamente in una rassegnata reverenzialità nei confronti del raccomandante. Questo slittamento esprime bene la cifra dominante del film: l’onore va in una certa direzione, ma tutti teniamo famiglia e, alla lunga, abbassiamo la testa e ci inchiniamo alle logiche dominanti e alle consuetudini sociali.

 

G.C. Non solo: tutti nel film sono alle prese con la costruzione e la rappresentazione di false identità. Tutti fingono di essere quello che non sono. La società messa in scena dal film è segnata dal dominio del fake: dal cantante neomelodico Lollo Love ai camorristi, dai poliziotti al questore, tutti indossano maschere e si adeguano al copione. Anche Paco deve mostrare di saper stare al gioco: se sulle prime il commissario Cammarota lo chiama Harry Potter per la sua aria un poco trasognata, subito dopo il giovane deve trasformarsi in Pino Dinamite: deve tagliarsi i capelli, assumere un look da rapper neomelodico molto trash e anche alterare il lessico e il linguaggio con cui si esprime…

 

S.S. È vero. Poi però, per infiltrarsi nella band di Lollo Love, deve superare una prova vera. Deve mostrare di saper giocare al calcetto accettando la sfida di Lollo e dei suoi compagni. Paco/Pino perde (sceglie di perdere…), ma con onore. Intuisce il sistema di valori dei suoi interlocutori e vi si adatta. Lo fa suo. E loro ne sono molto colpiti. Lo accettano subito nel gruppo. “Chi sa giocare come te, tiene ‘o core!”, gli dicono. E lui comincia ad applicare ciò che Cammarota gli aveva raccomandato: li asseconda, sempre. Come una sorta di “zelig” partenopeo, assume l’identità di coloro con cui è entrato in contatto. Si fa simile a loro…

 

G.C. Sì, diventa un interprete perfetto del luogo comune. Anche se si vergogna di questo, anche se non condivide, applica la regola “darwiniana” dell’adattarsi all’ambiente per sopravvivere. Finge di adattarsi. Recita l’adattamento allo stereotipo della napoletanità fatta di pizze, canzoni e mandolino. Salvo poi, nel finale, tenere la schiena dritta e schierarsi per i veri valori in cui crede, complice anche l’inaspettato comportamento del cantante Lollo Love.

 

S.S. Lollo è probabilmente il personaggio più interessante del film. Magliette attillate e pantaloni aderentissimi, voce suadente e movenze ammiccanti, è l’idolo delle teenager locali, che ricambia con l’appellativo di “cuoricino” e a cui dedica un’attenzione one-to-one grazie al cellulare sempre acceso e a disposizione delle fan. Ma la sua musica non è così facile e mediocre, come spesso capita ai musicisti napoletani stereotipatamente collusi con i delinquenti o con la malavita. Al di là del fatto che nel film Lollo Love canta davvero e che le canzoni sono scritte o arrangiate dagli Avion Travel, qui il cantante è diverso da come ce lo aspetteremmo (per esempio, è molto diverso dai cantanti rappresentati nel film Reality di Matteo Garrone, anch’esso attento ai rituali e al sound dei matrimoni del Golfo).

 

G.C. Io credo che il pregio di un film come questo sia nella forza con cui mette in scena e ripropone gli stereotipi per poi svuotarli dall’interno e farli a pezzi. I Manetti Bros mimano il poliziottesco all’italiana anni settanta (si veda anche solo l’inseguimento finale del camorrista alla guida di una Porsche con i due eroi buoni alla guida di un’Alfa Romeo) per mettere a punto un’analisi attuale della società napoletana. Il luogo comune viene rivisitato e poi dissolto dall’ironia: nonostante le pistole sparino e i bossoli esplodano, le bande e le loro dinamiche vengono raccontate con un sorriso inconsueto e molto coraggioso. Come già il film di Pif La mafia uccide solo d’estate, anche Song’e Napule ha il coraggio di parlare di criminalità senza mai sminuirla né lontanamente assolverla o mitizzarla.