E&M

2014/4

Giuseppe Soda

Occupiamoci degli alberi per salvare la foresta

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Nel dicembre del 2012, in un contributo apparso sull’edizione on line di Harvard Business Review, il premio Nobel all’economia Ronald Coase lanciò una provocazione verso l’influente comunità degli economisti con un articolo dal titolo emblematico: “Salviamo l’economia dagli economisti”. Coase denunciava la distanza “sfortunata e straordinaria” tra le politiche proposte dagli economisti e la vita reale delle imprese, degli imprenditori, dei manager. In verità, la provocazione si spingeva molto più in là con una denuncia particolarmente severa: “The tools used by economists to analyze business firms are too abstract and speculative to offer any guidance to entrepreneurs and managers in their constant struggle to bring novel products to consumers at low cost”. Da una prospettiva meno pragmatica, anche i mezzi di comunicazione di massa hanno ospitato in Italia parte di un ampio dibattito sull’efficacia, sulle fondamenta scientifiche ed etico-morali delle ricette economiche. Gli economisti hanno tuonato contro i critici della “scienza triste”, richiamando con orgoglio il rigore delle analisi e del metodo, prima che quello delle ricette proposte. D’altro canto, non è apparso convincente il rimbrotto etico-morale verso gli economisti di taluni commentatori, né l’immagine di un gruppo potente di scienziati disumani guidati da modelli che funzionano sulle scrivanie ma che tracollano alla prova dei fatti.

Il tema è un altro e, per molti versi, ben più serio della presunta questione etica o della discussione scienza sì, scienza no. Il punto è quanto l’economia, i suoi modelli e le sue implicazioni di politica economica siano in grado di catturare e incidere nei meccanismi più profondi della vita economica di un paese e, in particolare, in quella delle imprese. Gli ultimi anni di crisi, con l’asfissia del credito e la sfiducia che deprime i consumi, hanno reso più acuti gli handicap del modello produttivo italiano: burocrazia insensata, lentezza dei pagamenti, capitalismo relazionale, costi e carico fiscale su molti fattori produttivi, giustizia per risolvere controversie commerciali talmente lenta da essere nei fatti bloccata, incompetenza diffusa, familismo imprenditoriale, corruzione, insufficiente produttività. Si potrebbe purtroppo continuare, ma mentre molte imprese cadono, un numero non secondario di realtà produttive nazionali ha ripensato i propri modelli di business, ha assorbito oltre ogni previsione le diseconomie del sistema paese e continuato a competere con successo nei mercati globalizzati.

Del profondo disagio o delle straordinarie trasformazioni catturate da chi studia da vicino le imprese si vede solo una tenue traccia nelle discussioni che interpretano quello che accade e che ispirano le scelte della politica economica. Anche per il ruolo ancillare che i media hanno assunto, non vi è segno di questi fenomeni e di spiegazioni alternative nei dibattiti tra i policy-maker e, men che meno, nei talk-show politico-economici. A parlare d’imprese e di come ridurre lo spread di competitività del nostro sistema produttivo sono spesso studiosi e commentatori che le imprese non le conoscono, non ne comprendono i meccanismi e i processi di creazione di valore, non ne conoscono l’organizzazione e le logiche di funzionamento. Il risultato è che, molte volte, agli occhi di manager o imprenditori, la sensazione è di grande distanza e incomunicabilità tra le azioni di politica economica e la vita reale delle imprese. Per esempio, la politica di incentivazione sull’ingresso dei giovani nel mercato del lavoro dell’ultimo anno si è basata su un ragionamento che prescinde dalle decine di altri fattori e variabili che incidono sulla fiducia degli imprenditori e dei manager rispetto al futuro. Il bonus varato dal governo per le assunzioni dei giovani tra i 18 e i 29 anni con l’obiettivo di creare tra il 2013 e il 2015 circa 100.000 nuovi posti grazie a un fondo di 794 milioni di euro, al 23 giugno scorso aveva generato poco più di 22.000 assunzioni (per la precisione 28.606 domande, ma tra queste 5499 scadute). Al di là delle buone intenzioni, l’incentivo era stato varato con l’idea che “le imprese non avrebbero avuto più alibi” nell’assunzione dei giovani disoccupati. Chi conosce le imprese, i meccanismi e i processi che le animano, sa bene che questa è una visione lontana e imperfetta delle ragioni che le spingono a investire in capitale umano. Per esempio, un’impresa italiana guidata da un management attento e competente è in grado di recuperare il beneficio economico risultante dagli incentivi all’assunzione di giovani attraverso la rimodulazione dell’organizzazione del lavoro e ridefinendo il patto implicito con i dipendenti esistenti, senza alcuna assunzione. Un caso emblematico a proposito sono gli esperimenti avviati in Luxottica (e in moltissime altre aziende), a partire dall’inizio dello scorso decennio, e che hanno riguardato l’organizzazione interna del lavoro, la modulazione degli orari e dei turni, fino a forme estremamente innovative di welfare aziendale che prevedono la possibilità di convertire le retribuzioni collegate alla contrattazione integrativa in benefit di altra natura: acquisto di libri scolastici, carrello della spesa, contributi per l’assistenza familiare o per servizi di mobilità e trasporto, sostegno per le famiglie con portatori di handicap, prestazioni sanitarie specialistiche ecc. L’obiettivo era creare un modello innovativo e complementare ai sistemi di remunerazione tradizionali, integrando gli schemi convenzionali con strumenti alternativi, che prevedono una remunerazione dei lavoratori in termini di utilità e non solo strettamente monetaria. A parte i positivi impatti sulla motivazione dei dipendenti, sulla coesione sociale e sul clima organizzativo, si tratta di una strategia che ha diretti e misurabili impatti sulla qualità dei prodotti, sulla flessibilità e sulla produttività. Infatti, l’assenteismo è sceso e la presenza media nei sabati produttivi è cresciuta in modo da incidere sulla produttività complessiva del sistema. Il modello di welfare aziendale di Luxottica è un’innovazione manageriale importante, non contingente e sostenibile giacché si autofinanzia impiegando risorse a supporto dei dipendenti generate dall’incremento di produttività e qualità. Luxottica ha pianificato e misurato questo effetto monitorando l’impatto del welfare sull’indicatore IQC (Internal Quality Cost) derivato dagli extra consumi di materie prime, componenti e relativa manodopera, dalle attività a non valore aggiunto riconducibili a problemi qualitativi e dal personale addetto alla qualità. Uscendo dall’esempio per tornare alla questione discussa in questo editoriale, una semplice domanda da porsi è: quante misure di politica economica a supporto delle imprese hanno stimolato le azioni di welfare aziendale orientate al recupero della produttività e a consolidare il clima delle relazioni tra impresa e dipendenti? Confrontandosi quotidianamente con i problemi delle imprese, la sensazione è che i fenomeni “micro” come quelli appena discussi sembrano assenti dalla discussione e dall’area di attenzione dei decisori di politica economica e dei suoi influenti commentatori. Il tutto porta ad un dibattito concentrato sulle grandi metriche economiche che sfuggono o si diluiscono in un oceano dove tutto si riduce a tendenze e previsioni il cui realismo è spesso difficile da comprendere. Le ragioni di questa distanza sono molteplici. Per esempio, la globalizzazione ha generato una crescita incontrollata della complessità dei sistemi nei quali è organizzata la vita economica. I modelli economici non sembrano capaci di cogliere le relazioni sempre più complesse tra le dinamiche indotte dalle politiche monetarie e fiscali e i processi di utilizzo delle risorse al livello delle unità più elementari, come le famiglie, le imprese, i territori circoscritti. È come pensare di capire e ordinare il funzionamento di un formicaio osservando una foto presa da un aereo e senza teleobiettivo.

Dal 2007 la produzione industriale italiana è diminuita di un quarto, con picchi superiori al 40% in molti settori. Mentre, per fortuna, lo spread finanziario comincia a far sentire meno la sua morsa, quello della competitività nelle imprese è ancora tutto da recuperare. Ovviamente, anche le imprese, gli imprenditori e i manager devono fare ciascuno la propria parte, che non è affatto secondaria. Infatti, se è indiscutibile che anni di errori di politica economica hanno pesantemente contribuito al declino della competitività del nostro sistema produttivo, anche una parte delle imprese ha dato una mano con tutti i limiti del nanismo imprenditoriale, della scarsa capacità e investimenti in innovazione, con il nepotismo, il localismo e una propensione all’economia nera che ha pochi eguali in Europa, solo per citare alcune delle note debolezze.

Come accade sempre per fenomeni così complessi, le debolezze del sistema paese e delle imprese sono due aspetti fortemente interconnessi, ed è difficile, oltre che inutile, capire cosa sia nato prima. Per quanto interessante sul piano storico, rispondere a questa domanda non aiuta la ricerca di una soluzione. Piuttosto che interessarsi al test di paternità della lunga crisi italiana è forse più opportuno definire un’agenda delle priorità e delle cose da fare, partendo dal presupposto che “tutto e subito” è una pia illusione, magari conveniente da raccontare in qualche talk-show, ma senza reali possibilità di attivare un processo di cambiamento in grado di modificare la curva discendente della competitività nazionale. Sarebbe utile provare a ribaltare il paradigma per cui le politiche economiche si fanno dall’alto proiettando dinamiche generali sempre più volatili, invece che l’esperienza quotidiana di imprese e famiglie. È da queste unità elementari che si generano i meccanismi in grado di combattere lo spread di produttività, che resta un grave e perdurante male italiano.