E&M

2013/1

Vincenzo Perrone

La crisi della foresta non è tutta la vita dell’albero: le micro-fondamenta della crescita

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All’inizio di novembre 2011 lo spread tra titoli del debito pubblico italiani e tedeschi raggiunse la quota record di 500 punti. Un livello al quale si correva il rischio concreto di non potere più restituire quanto dovuto e di subire un catastrofico contraccolpo sociale ed economico, a cominciare dall’impossibilità di pagare gli stipendi dei dipendenti pubblici o le pensioni. Il nostro paese entrava in rianimazione insieme agli altri malati gravi dell’economia europea. chiamati sprezzantemente PIIGS in alcuni paesi del nord del mondo. un nord forse più avveduto e previdente, che si era rapidamente autoassolto da responsabilità invece condivise circa l’origine del problema, per trasformarsi in accigliato giudice delle colpe altrui. Un’Italia sempre più triste e cupa accettava, a capo chino, di rinunciare alle rassicuranti illusioni multimediali dell’esuberante precedente sciamano, per accettare invece le dure e amare medicine di un compito e freddo medico chirurgo dell’economia come il nuovo primo ministro, il professor Mario Monti. Nel linguaggio di tutti noi entravano, a braccetto con le parole crisi, debito e PIL, altri termini poco rassicuranti e, come al solito, di origine anglosassone: spread innanzitutto, e poi default. Per non parlare di tutti gli acronimi inventati nei dintorni della Banca Europea per indicare i diversi meccanismi di copertura che avrebbero dovuto assicurarci l’ossigeno necessario per sopravvivere.

Era quindi una notte buia e tempestosa quella durante la quale le nostre imprese chiudevano i loro conti. I bilanci del quarto esercizio dall’inizio di una crisi economica che sarà ricordata quasi sicuramente come una delle peggiori nella storia dell’economia moderna. Ora abbiamo i dati che ci possono aiutare a trovare una risposta a qualche interrogativo importante: il disastro generale era già allora entrato anche nelle righe di conto dei bilanci in chiusura? L’economia reale si trovava già in una condizione di grave difficoltà? Queste domande sono, a nostro avviso, interessanti perché pongono la questione essenziale della relazione tra macro e micro e del livello di analisi corretto al quale occorre porsi quando si vuole comprendere un sistema economico prima ancora di agirvi. Magari elaborando una politica economica capace di trasformare la crescita che tutti vogliono da miraggio a inizio di possibile realtà. Ci sorprende, infatti, la sproporzione di attenzione dedicata a una grandezza di difficile calcolo come quella del PIL del nostro paese[1] rispetto alle quantità relative all’andamento dell’economia reale e in particolare ai conti delle nostre imprese. Noi, invece, è proprio da lì che vogliamo partire per suggerire, alla fine, che è proprio lì che bisogna tornare se si vuole ragionare efficacemente di crescita, non solo dei redditi delle imprese ma anche e soprattutto dei redditi degli italiani. Lo facciamo sfruttando la potenza di analisi che ci è stata messa a disposizione da Leanus, una piattaforma web-based di raccolta, elaborazione e rappresentazione dei dati di bilancio delle imprese.[2] Ci siamo concentrati sulle imprese italiane con un fatturato 2011 superiore ai 100 milioni di euro. Si tratta quindi di realtà medio-grandi, data la struttura produttiva del nostro paese. Complessivamente il campione esaminato è di 1.867 imprese con un fatturato complessivo di 1.047 miliardi di euro. Si tratta di imprese industriali e dei servizi con esclusione di banche e assicurazioni che hanno una struttura di bilancio dettata da Banca d’Italia, non immediatamente assimilabile a quella delle altre aziende. Abbiamo creato un unico aggregato sommando le singole voci di tutti i bilanci e successivamente lo abbiamo analizzato come se si trattasse di un’unica grande impresa. Abbiamo calcolato il PIL generato dalle aziende del nostro campione (ricavi meno consumi e altri costi, personale escluso, più IVA) che è risultato pari a circa il 25% del fatturato, in media, per un totale di 267 miliardi di euro. Un ammontare che, sul PIL stimato dello stesso anno, arriva a pesare per oltre il 17%. Stiamo quindi analizzando una realtà economica di tutto rilievo che presentava il profilo di risultato riassunto nella figura 1 (si veda il pdf allegato).

Le “faccine” della valutazione di sintesi dicono già quasi tutto. Si tratta di aziende patrimonialmente solide, che esprimono nel loro insieme anche una capacità di crescita significativa (maggiori ricavi rispetto all’anno precedente per il 12,45%) e un’ottima marginalità. Hanno anche un livello di indebitamento, rispetto al capitale proprio, ben sostenibile anche se leggermente squilibrato sul breve periodo, e questo si traduce in una valutazione complessiva di bassa rischiosità registrata sia applicando lo z-score di Altman che il cosiddetto Leanus ® Score.[3] L’unica nota negativa riguarda la bassa copertura delle immobilizzazioni attraverso mezzi propri: queste aziende nel loro insieme hanno probabilmente ecceduto negli investimenti (materiali, immateriali e finanziari) realizzati con mezzi di terzi. Lo stato di buona salute delle aziende italiane di grandi dimensioni a fine 2011 si deduce anche dallo schema riportato in figura 2 (si veda il pdf allegato).

Quello che colpisce in questa nuova rappresentazione è la notevole quantità di leasing e garanzie (per oltre 281 miliardi di euro) che porta il totale dell’esposizione finanziaria nell’intorno dei 400 miliardi di euro. Una cifra considerevole ma comunque ben bilanciata sia dall’entità dei mezzi propri sia dal fatto che siamo nell’intorno del 40% del fatturato e quindi piuttosto lontani da livelli sicuramente più pericolosi. Questi numeri suggeriscono, tra le tante possibili, alcune considerazioni interessanti. La prima è la conferma che la crisi è arrivata dall’esterno, dalla sregolata finanza globale, con le sue bolle e i suoi prodotti tossici. Se nel 2011 le imprese principali del nostro paese godevano, ancora, di questo stato di salute vuol dire che la trasmissione del contagio dalla crisi delle istituzioni finanziarie a quella degli Stati chiamati a salvarle o già troppo indebitati di loro, come il nostro, e quindi costretti a politiche di bilancio fortemente restrittive, in grado alla fine di mettere in ginocchio anche famiglie e imprese, non si era ancora del tutto dispiegata. La seconda ci pare una buona notizia: ovvero che molte delle imprese tra le quasi duemila che stiamo commentando sono aziende sane e resilienti, con una riserva di energia capace probabilmente di superare anche le restrizioni del credito e le contrazioni nei consumi interni che si sono registrate nel 2012 appena concluso. Sarà per questo molto interessante andare a vedere appena possibile come questo stesso gruppo d’imprese abbia reagito a un anno come il 2012 appena trascorso, durante il quale molti hanno gridato alla rovina. Speriamo di potere ancora registrare qualche sorpresa positiva, nonostante tutto.

Finora abbiamo lavorato su una finzione: abbiamo visto la somma dei bilanci di 1.867 imprese come se fosse il bilancio vero di una sola azienda. È ovvio che la situazione reale sia molto più variegata ed è quindi arrivato il momento di approfondire l’analisi, per quanto possibile in un editoriale. Lo strumento utile per l’approfondimento in questa direzione è una matrice nella quale le imprese del campione che stiamo analizzando sono posizionate in quattro diversi quadranti a seconda del tasso di crescita del fatturato che hanno espresso tra 2010 e 2011 (asse delle X) e del loro Leanus Score (asse delle Y). Incrociando queste due dimensioni e stabilendo soglie opportune si ottengono le seguenti categorie,[4] sulla base delle quali si possono distribuire le aziende del campione come riportato nella figura 3 (si veda il pdf allegato):

· Star: crescita sostenuta (superiore al 7%) e ottima solidità economico-patrimoniale (Leanus Score>3);

· Runners: crescita sostenuta (superiore al 7%) e ridotta o pessima solidità economico-patrimoniale (Leanus Score<=3);

· Stable: crescita modesta o negativa (inferiore o uguale al 7%) e ottima solidità economico-patrimoniale (Leanus Score>3);

· Stuck: crescita modesta o negativa (inferiore o uguale al 7%) e ridotta o pessima solidità economico-patrimoniale (Leanus Score<=3).

A parte nove aziende del campione per le quali non erano disponibili tutti i dati necessari per l’analisi, le altre si distribuiscono nelle diverse categorie con queste percentuali: il 25% sono nella categoria Star; il 18% appartengono al quadrante delle Runners; abbiamo poi un 32% di Stable e infine il 25% di Stuck. Già solo la distribuzione piuttosto equilibrata tra le diverse categorie ci pare contenere una notizia positiva di non poco conto anche alla luce dei dodici difficilissimi mesi successivi che queste aziende hanno appena attraversato. Ma la riflessione che vogliamo proporvi, stimolata da questa figura, è un’altra. In più occasioni da queste pagine abbiamo invocato per noi e per i nostri lettori il dono del discernimento, così necessario soprattutto in tempo di crisi, quando occorre più che mai sapere riflettere, affinare lo sguardo e imparare a discriminare e distinguere meglio. Esattamente il contrario di quello che la fretta, l’incapacità o la malafede suggeriscono a troppi: ricette miracolose e per questo inutilmente buone per ogni occasione, analisi superficiali e approssimative e azioni mirate su una media che non esiste. Anche solo i quattro gruppi di imprese che abbiamo distinto partendo dai dati ufficiali di bilancio interrogano in modo diverso i principali attori della nostra società e della nostra economia. A cominciare dalle banche. Hanno ancora la capacità diffusa, anche in periferia, di valutare il merito di credito? Sanno interpretare le traiettorie di sviluppo differenti di ogni singola impresa? Per ogni cella del quadrante le istituzioni finanziarie dovrebbero assumere un ruolo diverso e proporre servizi differenti integrandoli efficacemente con quelli di altri professionisti. La crescita comincia così: ragionando sui dettagli e trovando soluzioni particolari a problemi concreti. E il governo? Posto che si creda davvero, come per fortuna hanno creduto i nostri genitori e i politici per i quali loro votavano durante buona parte della cosiddetta Prima Repubblica, alla possibilità di disegnare e realizzare una politica economica in grado di favorire lo sviluppo, occorre riuscire a fare proposte diverse a un’azienda star che sta cercando ulteriori possibilità di crescita all’estero; a una runner che deve trovare il capitale necessario per consolidare i risultati positivi di vendita che è riuscita a conseguire solo con le proprie forze o ad una stable che sta cercando di fare leva sull’innovazione per dare nuova energia alla propria crescita. Conoscere per decidere e per agire: ci piacerebbe che con il nuovo anno questo tornasse a essere il motto di chi gestisce imprese, banche e governi. E magari anche organizzazioni sindacali, dal momento che queste differenze tra imprese dovrebbero ispirare strategie e obiettivi negoziali altrettanto differenziati, in grado di assicurare la massima protezione degli interessi rappresentati proprio a partire dalla massima comprensione della realtà e del potenziale dell’azienda con la quale si sta trattando. Per fortuna ve ne sono di eccellenti, che pensiamo non avrebbero problemi a sperimentare forme di motivazione e coinvolgimento dei propri dipendenti più avanzate rispetto a quelle che si osservano nella media delle nostre imprese. Abbiamo applicato al nostro campione di quasi duemila imprese i seguenti criteri di selezione: reddito netto positivo, un Leanus Score > di 3; EBITDA > 10%; leva finanziaria < di 0,5; copertura delle immobilizzazioni > 0,7 e rapporto EBITDA/posizione finanziaria netta superiore a 0,2. Ci sono ventuno imprese che rispettano tutti questi parametri. Hanno tutte un fatturato inferiore al miliardo di euro e per la maggior parte sono sotto i 300 milioni. Nessuna di loro ha sede a sud di Bologna. Nel loro insieme mostrano valori aggregati eccellenti come quelli di figura 4 (si veda il pdf allegato).

In Appendice sono riportati i nomi di queste aziende in due tavole separate per le aziende star e stable. L’esistenza di imprese con performance così buone deve servire, a nostro avviso, da stimolo positivo per tutte le altre. Anche se è ovvio, giova per esempio ricordare che difficilmente imprese con questo profilo economico e patrimoniale si vedranno rifiutare finanziamenti dal sistema bancario per loro progetti di ulteriore sviluppo. La crisi

 
nella quale ci troviamo a volte finisce per essere un comodo alibi dietro al quale nascondere difetti strutturali che sono lì da tempo e che la difficoltà del momento rende solo evidenti e non più sostenibili. Da una dimensione aziendale troppo piccola per essere efficiente a una scarsa patrimonializzazione; dai fatturati che smettono di crescere per l’incapacità di dotarsi di adeguate reti commerciali, meglio se estese anche al di fuori dei nostri confini, alla scarsa propensione a investire in innovazione. Nel business come nello sport, e a maggior ragione quando il gioco si fa duro, sono i fondamentali a fare la differenza. La resilienza si costruisce nel tempo con le scelte giuste. Inutile lamentarsi del mercato cattivo o delle banche senza cuore se il proprio progetto di azienda non sta più in piedi in modo stabile da tempo. E a proposito di lamenti, più o meno giustificati, vogliamo condividere con i nostri lettori un dato che ci ha colpito e che offriamo senza troppi commenti. In media, le aziende del campione che abbiamo analizzato pagano imposte per un ammontare pari al 2,4% del loro fatturato (con differenze significative tra imprese con fatturato superiore al miliardo di euro che sono al 3,9% e imprese con fatturato compreso tra 100 milioni e un miliardo di euro per le quali le imposte incidono sul fatturato per l’1,5%). Sia chiaro che stiamo parlando di incidenza sul fatturato e non sull’utile, appunto, ante imposte. Ci pare però che riflettere su questo dato potrebbe stimolare una discussione più aperta e interessante su dove sta e come si manifesta il peso dello Stato, che giustamente deve gravare più sugli individui che sui produttori di ricchezza. Un peso che, forse più che dal solo quantum, è dato soprattutto dalla miriade di scadenze con connessi oneri amministrativi e tempo di lavoro dedicato, dalla instabilità delle norme e delle loro interpretazioni, dalla fantasiosa varietà di tasse più o meno occulte e di permessi da ottenere in modo oneroso. Un’ideale trattativa per la revisione delle modalità di finanziamento della macchina statale (possibilmente ridotta nelle dimensioni e potenziata nell’efficacia e nell’efficienza) potrebbe forse trovare, partendo da questi presupposti, nuove e più vantaggiose ragioni di scambio.

Siamo perfettamente consapevoli dei limiti di questa analisi: sarebbe sciocco infatti credere che le imprese del campione che abbiamo analizzato siano rappresentative di una realtà molto complessa, frammentata e dominata da micro imprese come quella del sistema economico italiano.[5] Né trascuriamo il fatto che le luci a fine 2011 siano magari diventate buio profondo a fine 2012. Il nostro scopo non era però tanto sostituirci all’Istat o alla Banca d’Italia, quanto guardare per una volta ai fenomeni macroeconomici mantenendo la specificità dello sguardo degli aziendalisti. Di coloro, cioè, capaci di guardare contemporaneamente al micro, di cui conoscono le logiche di funzionamento, e al macro. Pensiamo, infatti, che se il dibattito pubblico viene monopolizzato da economisti tutto “liberalizzazioni, tassi, tasse e incentivi”, tanto per parafrasare l’Al Capone di un noto film, si rischi di perdere di vista una parte importante della realtà. Quella nella quale vivono e lottano per la sopravvivenza e per il benessere di tutti, i lavoratori e le loro aziende. Ed è proprio a loro che una rivista come Economia & Management deve continuare ad essere attenta. Ed è a loro e a voi, cari lettori, che auguriamo buon anno!

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Il PIL è, nella sua formulazione più semplice, il risultato della somma di consumi finali, investimenti, spesa pubblica e saldo delle partite correnti. In un paese come il nostro, dove non si conosce con esattezza nemmeno il numero complessivo dei dipendenti pubblici, pensare che si tratti di un valore certo, non soggetto a possibili e consistenti errori di stima, significa pensare molto positivo. Sorprende allora che si scatenino dibattiti infiniti relativi a variazioni dello zero virgola di questa grandezza totemica, lasciando invece nell’ombra altre quantità di meno problematica stima e più rilevanti per guidare l’azione come quelle delle quali ci occupiamo qui. Secondo la Banca Mondiale il PIL dell’Italia è stato, relativamente agli anni 2008, 2009, 2010 e 2011, rispettivamente di 2,3073; 2,1111; 2,0436 e 2,1948 miliardi di dollari.

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Leanus è una start-up che opera nel settore della fornitura, analisi e rappresentazione dei dati di bilancio (www.leanus.it). Distributore di Infocamere in Italia, ha da poco stretto un accordo di esclusiva con Informa per la commercializzazione della piattaforma in Spagna. Chi scrive ha collaborato al suo sviluppo, partecipa con una piccola quota al suo capitale e svolge il ruolo di advisor scientifico. Desideriamo ringraziare il dottor Alessandro Fischetti, amministratore di Leanus, il quale, insieme al dottor Massimiliano Corriero, ci ha validamente assistito nelle elaborazioni dei dati che qui presentiamo.

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Senza volere entrare in tecnicismi inutili in questa sede, ricordiamo che il Leanus Score è calcolato applicando i criteri dello “zeta-score di Altman”, un indicatore fondato sull’analisi discriminante, simile a quella utilizzata da alcune banche come base dei propri sistemi di scoring, che “dovrebbe” essere in grado indicare lo stato di salute di un’impresa. Lo zeta score è calcolato combinando in modo lineare alcuni indicatori di bilancio, ciascuno dei quali è ponderato per un apposito coefficiente: sulla base di questa combinazione è possibile stimare la probabilità di fallimento dell’impresa analizzata e quindi il suo livello di rischio. Il Leanus Score, oltre agli indicatori dello Zeta Score, utilizza alcuni indicatori specifici per valutare le disponibilità liquide e il ciclo del circolante. Entrambi gli indicatori sono valutati sulla medesima scala. Quando il Leanus Score è superiore al valore 3 l’azienda “dovrebbe essere in buona salute”; al di sotto potrebbe non esserlo o comunque presentare alcuni sintomi che dovrebbero essere ulteriormente indagati.

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Le soglie che determinano le categorie sono state definite in modo da premiare le imprese che hanno prodotto risultati contabili eccellenti. Come indicato nel testo, se l’appartenenza al gruppo Star identifica aziende ottime dal punto di vista dell’analisi economica, patrimoniale e finanziaria, lo stesso non può dirsi negli altri casi. L’appartenenza alle categorie Stuck, Stable o Runners indica soltanto la necessità di realizzare ulteriori approfondimenti che spesso, o quasi sempre, presuppongono la necessità di accedere a informazioni proprietarie. In altri termini, un’azienda che cresce di oltre il 7% con un ottimo Leanus Score è molto probabile che sia davvero eccellente; allo stesso tempo una crescita del 6,5% e un Leanus Score di 2,5 non presuppongono né una situazione aziendale disastrosa né tantomeno un’ipotesi di fallimento imminente; l’appartenenza al gruppo Stuck può indicare però l’esistenza di sintomi che impongono all’analista la necessità di ulteriori esami. Discorso ancora diverso riguarda le aziende con Leanus Score inferiori a 1,8 o ancor peggio negativi. In tali casi difficilmente l’analisi di dettaglio ricolloca l’impresa tra quelle in salute.

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In realtà, una piattaforma come Leanus sarebbe perfettamente in grado di analizzare contemporaneamente tutti i bilanci di tutte le spa e srl italiane che sono obbligate al deposito presso la Camera di Commercio. Occorre solo essere in grado di sostenere i costi di un’operazione di questo genere, che potrebbe arricchire le nostre conoscenze e quindi la nostra capacità di agire in modo sensibile. Nei limiti ristretti dei nostri mezzi, abbiamo replicato questo tipo di analisi sui bilanci di diversi altri campioni, come quello delle aziende del vending, piuttosto che un altro composto da 20 grandi aziende del settore alimentare, o da 550 imprese tutte localizzate in Lombardia, e ancora le 15 maggiori imprese siderurgiche o i grandi network televisivi. La vasta concordanza dei risultati ci offre qualche sia pur tenue motivo di rassicurazione in merito al valore dell’analisi che abbiamo svolto e alle considerazioni che ne abbiamo tratto.