E&M

2011/5

Andrea Sironi

L’industria bancaria europea fra crisi economica e ri-regolamentazione: quali strategie per il futuro?

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Crisi dei mutui subprime, fallimento Lehman, crisi delle banche islandesi, bancarotta Madoff, crisi degli emittenti sovrani dell’area euro: negli ultimi quattro anni per il settore bancario europeo sembra non esserci tregua. Ogni volta che un evento traumatico di portata sovranazionale sembra allontanarsi all’orizzonte e il management delle banche tira il fiato e si appresta a mettere in atto piani industriali che prevedono un faticoso e graduale recupero della redditività, ecco che un nuovo shock investe i mercati finanziari e frustra le speranze di un ritorno alla normalità.

L’evoluzione dei mercati azionari riflette inevitabilmente questa situazione, con una capitalizzazione di mercato delle banche dei principali paesi del vecchio continente che, nel corso degli ultimi anni, è precipitata a livelli tali da determinare rapporti fra valore contabile e di mercato del patrimonio (book to market ratios) largamente inferiori all’unità, i quali indicano chiaramente come il mercato non creda a un recupero di redditività. Quali sono, in questo contesto, le sfide principali con le quali il sistema bancario è chiamato a confrontarsi e quali le leve gestionali che occorre azionare per smentire le aspettative pessimistiche degli investitori? Limitandosi alle sfide e senza voler peccare di eccessiva semplificazione, credo se ne possano identificare principalmente due: la crisi economica e il processo di ri-regolamentazione.

Lungi dall’essere superata come originariamente previsto da molti osservatori, la crisi economica originata da quella che ha colpito il sistema finanziario internazionale è in realtà ancora in corso. Essa si è peraltro tradotta, in seguito agli ampi interventi governativi a sostegno del settore bancario prima e dell’occupazione poi, in una crisi di finanza pubblica. Questa doppia crisi – dell’economia reale e del debito degli emittenti sovrani – ha un riflesso immediato e diretto sui conti economici delle banche. Da un lato, la crisi dell’economia reale, la quale trova riflesso nei bassi tassi di crescita e di occupazione ai quali sembra sottrarsi la sola Germania, si traduce in una crescita significativa dei crediti deteriorati (sofferenze, incagli ecc.) e dunque, in ultima analisi, del costo del credito. Dall’altro, la crisi del debito dei governi nazionali si riflette, specie per le banche dei paesi maggiormente colpiti – fra i quali anche il nostro – in un inevitabile innalzamento del costo del funding sul fronte del passivo e in perdite in conto capitale sul lato dell’attivo. Un aumento dello spread pagato dall’emittente sovrano finisce infatti inevitabilmente per tradursi in un aumento del costo della raccolta all’ingrosso, così come la diminuzione dei prezzi dei titoli di Stato genera perdite in conto economico per i portafogli di trading.

Un secondo fattore critico che investe l’industria bancaria è rappresentato dalle innovazioni di natura regolamentare. Dopo anni caratterizzati da un lento e graduale allentamento dei vincoli di vigilanza strutturale e da un parallelo sviluppo delle misure di adeguatezza patrimoniale fondate sul riconoscimento dei modelli sviluppati internamente dalle stesse banche, la crisi finanziaria ha scatenato un intenso processo di ri-regolamentazione. Non mi riferisco unicamente alle innovazioni previste dal nuovo quadro regolamentare di Basilea 3, ma è piuttosto evidente che queste ultime giocano un ruolo cruciale, specie per il contesto europeo dove per il momento non sembrano profilarsi all’orizzonte variazioni normative quali quelle previste dal Dodd-Frank Act statunitense.

Come noto, le nuove regole di Basilea 3 entreranno a regime in modo graduale a partire dal prossimo anno fino al 2019. Esse comprendono: 1. un significativo rafforzamento dei requisiti patrimoniali, sia di quelli relativi al rischio di mercato – per i quali sono stati introdotti nuovi vincoli particolarmente stringenti specie per le banche che adottano modelli interni – sia di quelli relativi ai rischi di credito e operativo; 2. l’introduzione di nuovi requisiti relativi alla liquidità; 3. il rafforzamento della componente di capitale di maggiore qualità (common equity o core tier 1); 4. l’introduzione di un nuovo requisito di leva finanziaria massima.

Gli studi prodotti dallo stesso Comitato di Basilea (BCBS, 2010) sulla base dei dati di fine 2009 relativi a un campione di 263 grandi banche di 23 paesi diversi hanno evidenziato una carenza di capitale di alta qualità (common equity) rispetto ai nuovi requisiti del 7% (includendo anche il capital conservation buffer) di circa 600 miliardi di euro, una carenza di attivi liquidi rispetto a quanto previsto dal nuovo requisito di liquidità (Liquidity Coverage Ratio, LCR) per circa 1700 miliardi di euro, e una carenza di funding “stabile”, ossia a lungo termine, di circa 2900 miliardi di euro rispetto a quanto previsto dal nuovo requisito (Net Stable Funding Ratio, NSFR). Stime più recenti, basate sui dati del 2010, prodotte da Standard & Poors sulle sole 75 maggiori banche del mondo, riportano una carenza di capitale complessivamente pari a 750 miliardi di euro. Se si estende lo sguardo anche alle banche più piccole, come ha fatto sempre sui dati 2010 la società di consulenza McKinsey, si ottiene una carenza di capitale di qualità addirittura pari a quasi duemila miliardi di euro (poco più di mille miliardi per le banche europee e circa 900 miliardi per le banche statunitensi). Si tratta di carenze piuttosto rilevanti che hanno imposto e ancora impongono a numerose banche di diversi paesi, primo fra tutti il nostro, uno sforzo non indifferente in termini di rafforzamento patrimoniale, di incremento degli attivi liquidi e di maggior bilanciamento fra impieghi a lungo termine e fonti di finanziamento stabili.

Il rafforzamento patrimoniale e la maggiore liquidità dell’industria bancaria renderanno certamente meno probabili crisi future della portata di quella innescata dai mutui sub­prime statunitensi nell’autunno del 2007. Se questi sforzi saranno anche sufficienti a evitare che futuri shock – i quali comunque inevitabilmente si manifesteranno – si traducano anche in perdite per i contribuenti resta invece un quesito aperto. Limitandoci a considerare le implicazioni per l’industria bancaria, non vi è dubbio che l’adeguamento al nuovo quadro regolamentare comporti, come nel caso della crisi dell’economia reale e della finanza pubblica, una significativa diminuzione della redditività dell’industria bancaria. È sufficiente uno sguardo ai piani industriali delle grandi banche internazionali per osservare che gli obiettivi di ROE pari o superiori al 20% che caratterizzavano gli anni precedenti la crisi finanziaria sono oggi sostituiti da valori che raramente raggiungono il 15% e più frequentemente si attestano attorno a valori poco superiori a 10%. Questa riduzione è in parte un semplice risultato algebrico: il rafforzamento dei requisiti patrimoniali imposti da Basilea 3 si traduce in un innalzamento del denominatore e in una conseguente riduzione del rapporto. Un ruolo rilevante è tuttavia giocato anche dai nuovi requisiti di liquidità e di funding a medio-lungo termine. Un’analisi pubblicata da McKinsey lo scorso anno ha stimato in circa 4,3 punti percentuali la riduzione media della redditività del capitale bancario (ROE) conseguente alle nuove misure regolamentari previste da Basilea 3, di cui quasi un punto percentuale è imputabile ai nuovi requisiti di liquidità e di funding. Investire importi più rilevanti del proprio attivo in attività liquide “di alta qualità”, come imposto da Basilea 3, conduce inevitabilmente a una riduzione della redditività dell’attivo. Analogamente, un riequilibrio del funding verso forme di finanziamento più stabili, ossia a medio-lungo termine, implica, specie in un contesto di accresciuto rischio paese, un aumento dei costi del passivo.

In sintesi, le banche dei paesi sviluppati si trovano ad affrontare due importanti sfide – la crisi economica e il processo di ri-regolamentazione – le quali presentano entrambe implicazioni rilevanti in termini di riduzione della redditività. Il management si trova dunque di fronte a un classico problema di dilemma degli obiettivi: capitale, rischio, liquidità e redditività. Questi obiettivi sono fra loro strettamente legati e apparentemente in conflitto: un aumento della redditività passa per un aumento del rischio, così come quest’ultimo comporta un inevitabile aumento del patrimonio, se non altro per i requisiti regolamentari. Tuttavia, un aumento della patrimonializzazione rende più difficile conseguire una soddisfacente redditività dei mezzi propri, così come un aumento della liquidità della banca deprime la redditività dell’attivo. Quali dunque le leve gestionali per affrontare queste sfide? Senza pretesa di fornire facili soluzioni a una situazione complessa nella quale ogni banca si trova anche ad affrontare problemi specifici, credo si possano delineare alcune importanti linee di azione. Esse riguardano il business mix, la gestione attivo-passivo, la gestione del capitale e la gestione dei rischi.

 

Business mix. Sembra banale e scontato, ma è importante tenere presente che le riforme relative ai nuovi requisiti di capitale e di liquidità presentano implicazioni diverse per le diverse aree di attività di un gruppo bancario. Così, per esempio, l’inasprimento dei requisiti patrimoniali risulta particolarmente accentuato per l’attività di trading, riducendo significativamente la redditività del patrimonio allocato a questa area di business. Analogamente, l’attività di lending, specie di quella a medio-lungo termine – già penalizzata dai più elevati requisiti patrimoniali – risulta particolarmente gravata dai nuovi requisiti di liquidità. Mentre in passato i tassi di trasferimento utilizzati per il funding dell’attività di impiego riflettevano unicamente i tassi interbancari e il costo delle eventuali opzioni implicite associate alle singole operazioni, l’introduzione dei nuovi vincoli rende inevitabile incorporare un “premio per la liquidità” che rifletta il costo implicito dell’attivo liquido che ogni singola operazione di impiego rende necessario detenere. Ancora, l’attività interbancaria risulta penalizzata sia dall’inasprimento dei requisiti relativi al rischio di controparte, sia a causa del trattamento sfavorevole cui sono soggetti sul fronte dei due nuovi requisiti di liquidità – LCR e NSFR – sia la raccolta interbancaria, sia gli impieghi nei confronti di altre banche. Volendo generalizzare, il processo di riforma di Basilea 3 richiede che ogni banca riesamini attentamente le prospettive reddituali di ogni singola area di business, considerando gli oneri associati ai nuovi vincoli regolamentari. Da quest’analisi potranno e dovranno scaturire decisioni importanti relative al riassetto del portafoglio delle proprie attività.

 

Asset-liability management. I nuovi vincoli di Basilea 3, e in modo particolare quelli relativi alla liquidità, impongono un maggior grado di integrazione e coordinamento delle decisioni relative a impieghi, raccolta di fondi, capitale e liquidità. Ogni decisione relativa alle singole poste di attivo e passivo, sia essa la semplice concessione di una linea di credito o la raccolta di fondi sull’interbancario, comporta – per effetto dei requisiti patrimoniali e di liquidità – conseguenze precise in termini di fabbisogno patrimoniale, di liquidità e di funding a medio-lungo termine. In un contesto in cui capitale e liquidità rappresentano risorse scarse rispetto alle quali tutte le grandi banche sono impegnate in uno sforzo di massimizzazione, è evidente che ogni decisione relativa all’attivo e al passivo della banca deve essere attentamente valutata anche sulla base delle relative implicazioni su queste due grandezze chiave. In questo senso, gli organi di vertice delle banche devono valutare la convenienza relativa di ogni operazione anche sulla base dei costi che essa comporta in termini di capitale e di liquidità.

 

Capital management. Negli ultimi anni la maggioranza delle banche ha sviluppato sistemi di misurazione della quantità di capitale assorbita dalle singole divisioni, business unit, fino alle singole operazioni. Questi sistemi risultano cruciali – in un contesto nel quale non solo le autorità di vigilanza ma anche le agenzie di rating e i mercati dei capitali chiedono alle istituzioni finanziarie di rafforzare la propria dotazione patrimoniale – per migliorare il grado di efficienza nell’utilizzo del capitale. Occorre, in altri termini, intensificare gli sforzi volti a riallocare il capitale dalle unità che non lo remunerano in modo adeguato a quelle che presentano migliori prospettive reddituali, massimizzando in questo modo la redditività del capitale e la capacità di autofinanziamento della banca.

 

Risk management. I modelli di misurazione dei rischi e, più in generale, i sistemi di risk management sviluppati dalle banche sono finiti, in seguito alla crisi finanziaria, sul banco degli imputati. Numerosi osservatori hanno identificato nelle carenze di questi sistemi di misurazione del rischio, e nell’eccessiva fiducia che in essi è stata riposta sia dal management delle banche sia dagli organi di vigilanza, una delle cause sottostanti alla crisi del settore bancario. Anche l’introduzione del vincolo di leva finanziaria previsto nel pacchetto di Basilea 3, basato sul semplice rapporto fra capitale e totale dell’attivo, lascia intravedere il desiderio di tornare a misure dichiaratamente “facili e semplici” per sostituire i modelli di risk management, talvolta anche molto complessi, messi a punto dalle banche negli ultimi vent’anni. Personalmente non condivido questa diagnosi e ritengo pericolose le implicazioni di policy che da essa derivano. Ritengo invece che le banche debbano impegnarsi ancora più intensamente nello sviluppo dei propri sistemi di misurazione dei rischi, e debbano in particolare integrare maggiormente tali misure nei processi decisionali. La crisi finanziaria, infatti, non è maturata a causa dei modelli di risk management ma, semmai, per effetto di politiche gestionali e commerciali rivolte alla ricerca del profitto di breve periodo, ottenuto sviluppando strumenti finanziari sempre più complessi, opachi e difficili da valutare. I modelli di risk management e le misure di redditività corretta per il rischio, pur rappresentando in molti casi strumenti ancora recenti e scarsamente collaudati, avevano messo a nudo la fragilità di questo modello di business e denunciato i suoi pericoli, non sempre trovando nei vertici aziendali un interlocutore sufficientemente interessato e attento. In taluni casi, anzi, le strutture preposte al controllo e alla misura del rischio erano state viste più come un fastidioso intralcio da aggirare per poter strutturare operazioni sempre più audaci, ingegnose e redditizie, che come un’ancora verso la realtà.

La situazione è stata ben fotografata, nel 2008, dal risk manager di una grande banca internazionale che così dichiarava all’Economist: “Le pressioni sul Servizio Rischi perché continuassimo ad approvare le nuove transazioni erano immense… Agli occhi dei trader che avremmo dovuto controllare, noi non facevamo soldi per la banca, avevamo solo il potere di dire no e impedire la conclusione di buoni affari. I trader ci vedevano come un ostacolo alla loro possibilità di ottenere bonus più alti … Ricevevo spesso telefonate dai miei risk manager che mi avvisavano che qualche senior trader stava per telefonarmi per lamentarsi di un loro rifiuto. Il più delle volte il reparto commerciale non accettava i ‘no’, soprattutto se i profitti erano consistenti. Noi ovviamente eravamo sospettosi, perché margini più alti non potevano che significare rischi più alti. Ma di continuo ci criticavano perché eravamo ‘non-commerciali’, ‘non costruttivi’ e ‘ostinati’ … Alla base di tutto ciò c’era e c’è un guasto fondamentale nel processo decisionale. Il reparto commerciale era più attento a farsi approvare la transazione che non a identificarne i rischi. Se un risk manager diceva di no, era subito in rotta di collisione con chi faceva gli affari. Era naturale a quel punto concedere almeno il beneficio del dubbio a chi voleva assumere rischi maggiori”. Se c’è qualcosa di vero in questa ricostruzione dei fatti, allora la prossima crisi non si eviterà sostituendo i modelli di risk management con semplici (e alquanto spuntate) regole di buon senso, ma continuando a lavorare per migliorare gli strumenti di misura del rischio e, soprattutto, per integrarli nei processi decisionali delle banche. Evitando gli eccessi di formalismo matematico, ma anche scorciatoie avventate e pericolosi ritorni al passato. In questo senso, per evitare gli errori del passato e affrontare le sfide del presente occorre che il management delle banche da un lato intensifichi gli sforzi volti a far sì che le proprie decisioni siano fondate su una rigorosa valutazione del rischio e sull’utilizzo di misure di redditività corretta per il rischio, dall’altro intervengano sulla governance aziendale, rafforzando il ruolo e la responsabilità della funzione di risk management.

In conclusione, le banche europee si trovano oggi ad affrontare un importante cambiamento regolamentare – quello previsto dalla graduale introduzione di Basilea 3 – in un contesto economico caratterizzato da bassi tassi di crescita e conseguenti elevati tassi di insolvenza delle imprese affidate. Ne risulta seriamente minacciata la capacità reddituale delle singole banche e, più in generale, quella del settore nel suo complesso. Il management delle banche è dunque chiamato a confrontarsi con una sfida complessa che richiede, al di là di impegno e dedizione, una particolare attenzione a costi, rischi e, più in particolare, alle implicazioni che le decisioni relative ai propri attivi presentano in termini di liquidità, capitale e funding a medio-lungo termine. Solo in questo modo sarà possibile ripristinare la propria capacità di generare reddito e, più in generale, di tornare a creare valore per i propri azionisti.