E&M

2010/6

Andrea Sironi

Chi ha paura di Basilea 3?

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Non c’è due senza tre. Sono passati solo due anni dall’entrata in vigore del sistema di adeguatezza patrimoniale denominato Basilea 2 (il cui accordo, è bene ricordarlo, ha richiesto quasi dieci anni di consultazioni), e già il Comitato di Basilea, complice una crisi finanziaria globale che ha messo in ginocchio il sistema bancario internazionale, ha dovuto mettere nuovamente mano alle regole relative ai requisiti di capitale minimo cui le banche sono soggette. Lo scorso 12 settembre, il Comitato ha infatti reso note le caratteristiche del nuovo sistema, già battezzato Basilea 3, che entreranno in vigore gradualmente fino a essere pienamente a regime nel 2018.

Le proposte del Comitato rispecchiano quanto già a grandi linee anticipato in un documento del dicembre 2009. Esse prevedono un rafforzamento del requisito patrimoniale relativo al patrimonio di maggiore qualità e con maggiore capacità di assorbimento delle perdite, il cosiddetto core tier 1 o – nel linguaggio del Comitato – common equity, il quale sale dall’attuale 2% al 4,5%, l’introduzione graduale, a partire dal 2016, di un requisito patrimoniale addizionale di natura anticiclica nella misura del 2,5%, l’affiancamento, sotto forma di sistema di monitoraggio prima e di vero e proprio requisito a partire dal 2018, di un tetto massimo alla leva finanziaria delle banche e, infine, due nuovi vincoli relativi alla liquidità – liquidity coverage ratio e net stable funding ratio – i quali saranno dapprima utilizzati durante un periodo di monitoraggio e successivamente, a partire dal 2015, come veri e propri requisiti minimi. Queste nuove proposte del Comitato hanno suscitato, nei giorni immediatamente successivi alla relativa pubblicazione, numerose critiche che lasciano intravedere preoccupazioni rilevanti espresse sia da esponenti dell’industria bancaria, sia dal mondo delle imprese, sia infine da accademici e studiosi di banking. Queste preoccupazioni riguardano tanto l’impatto che l’aumento dei requisiti di capitale potranno avere sul costo del credito bancario e, più in generale, sulla crescita economica, quanto la relativa capacità di garantire la solidità del sistema bancario e dunque di impedire il ripetersi di fenomeni di crisi sistemica come quella verificatasi fra il 2007 e il 2009.

In queste brevi note cercherò di esaminare le motivazioni sottostanti a queste preoccupazioni. Premetto che trovo le stesse prive di un reale fondamento. La mia personale impressione è infatti che queste critiche nascano da una limitata conoscenza, da un lato, della portata complessiva del processo di riforma impostato dal Comitato di Basilea a partire dallo scoppio della recente crisi finanziaria e, dall’altro, dei passi compiuti dal sistema bancario internazionale negli ultimi anni. In generale, la valutazione del nuovo sistema di adeguatezza patrimoniale proposto dal Comitato di Basilea è positiva. Questo sistema rappresenta peraltro, dopo tanto dibattere nei tre anni trascorsi dall’inizio della crisi finanziaria, il primo vero passo avanti nel tentativo di rafforzare e mettere a punto la regolamentazione bancaria in modo coordinato a livello internazionale. Nel corso di questi ultimi anni sono state infatti formulate numerose proposte di riforma del sistema di regole che governa il complessivo sistema finanziario internazionale: l’introduzione di una Tobin Tax sui movimenti di capitale, un inasprimento del sistema di tassazione delle banche, restrizioni alle vendite allo scoperto e in generale alle operazioni di natura speculativa nei mercati finanziari, l’obbligo di una riduzione significativa delle dimensioni delle grandi banche mediante la cessione forzata di parte dei propri attivi, l’introduzione di un sistema di compensazione multilaterale per gli strumenti derivati negoziati in mercati over the counter e, ancora, l’introduzione di schemi di mutua assicurazione obbligatoria fra le banche mediante forme di tassazione. Alcune di queste proposte hanno trovato applicazione, a volte temporalmente limitata, in singoli paesi. Nessuna proposta, tuttavia, si è concretamente tradotta in un provvedimento regolamentare con validità sovranazionale, ossia applicabile alla maggioranza dei paesi che partecipano attivamente al sistema bancario-finanziario globale. Eppure la crisi finanziaria che ha colpito il sistema è stata globale, e tutti gli osservatori – accademici, esponenti di organi di vigilanza, banchieri – hanno condiviso l’opportunità di una risposta coordinata a livello internazionale.

Requisiti eccessivi per l’industria bancaria?

Una prima critica alle proposte del Comitato di Basilea è venuta da alcuni banchieri, secondo i quali i nuovi livelli di capitale minimo imposti alle banche renderebbero di fatto l’attività di intermediazione bancaria non sufficientemente redditizia e finirebbero con il compromettere il modello di business della banca commerciale. Una prima risposta a questa critica viene dalla semplice constatazione che la maggioranza delle grandi banche internazionali, specie in paesi come Gran Bretagna, Svizzera e USA, dove la crisi è stata più accentuata, ha significativamente rafforzato, nel corso degli ultimi tre anni, il proprio assetto patrimoniale, il quale risulta oggi già adempiente rispetto alle nuove proposte. Ciò è dovuto al fatto che, dopo la crisi finanziaria recente, il mercato dei capitali ha imposto alle banche un rafforzamento della propria dotazione patrimoniale. Le stesse agenzie di rating hanno esplicitamente richiesto alle banche un rafforzamento dei propri coefficienti di capitale per poter mantenere la stessa valutazione di merito creditizio. Una seconda considerazione che giustifica le nuove regole proposte dal Comitato di Basilea è connessa al fatto che il rafforzamento patrimoniale risulta tale principalmente per via dell’inasprimento connesso ai requisiti relativi al capitale di maggiore qualità, o core tier 1. È infatti con riferimento a quest’ultimo che si registra, considerando anche il buffer anticiclico, l’aumento più significativo, dal 2% al 7%. Tale incremento si giustifica peraltro con l’esperienza della recente crisi finanziaria. La componente “secondaria” del patrimonio di base, principalmente rappresentata dagli strumenti ibridi e innovativi, non si è infatti dimostrata capace di svolgere il ruolo di assorbimento delle perdite che le era stato attribuito dagli organi di vigilanza. Il comportamento delle banche è risultato infatti coerente con la convinzione che nel mercato si era ampiamente diffusa circa la reale natura di questi strumenti di capitale, ossia che le banche emittenti non avrebbero rinunciato, neppure in caso di difficoltà, a pagare gli interessi e/o il capitale associati a questi strumenti. Come mostrato da alcune recenti evidenze empiriche, le banche, pur di evitare conseguenze negative di natura reputazionale o relative a future capacità di raccolta, hanno assecondato questa convinzione. In pochissimi casi, infatti, le clausole di cancellazione dei pagamenti implicite in questi strumenti sono state concretamente utilizzate dalle banche emittenti. Ne è seguita scarsa valenza, in termini di capacità di assorbire perdite, di questi strumenti. Ancora una volta, dunque, il rafforzamento del ruolo del patrimonio di migliore qualità, il vero capitale di rischio, risulta opportuno e coerente con l’evidenza empirica recente.

Un freno alla crescita economica?

Una seconda importante critica ai nuovi requisiti del sistema di Basilea 3, già formulata in occasione della pubblicazione del documento del dicembre 2009, è quella relativa all’impatto che l’inasprimento dei requisiti patrimoniali produrrà sulla crescita economica attraverso l’indebolimento della capacità di fare credito delle banche. Così, per esempio, l’International Institute of Finance (IIF), un organismo associativo cui partecipano le principali banche internazionali del mondo, ha stimato che un incremento di due punti percentuali dei requisiti patrimoniali produrrebbe una diminuzione della crescita economica di USA, Giappone e Area Euro di circa tre punti percentuali nell’arco di un periodo di cinque anni, ossia una diminuzione della crescita annua di circa 0,3% annuo per ogni punto percentuale di aumento dei requisiti.

Una prima risposta a questa preoccupazione è venuta di recente dallo stesso Comitato di Basilea, il quale ha condotto, assieme al Financial Stability Board (FSB), una ricerca approfondita relativa all’impatto macroeconomico di un incremento dei requisiti patrimoniali. I risultati di questo lavoro sono molto diversi da quelli dell’IIF e possono essere sinteticamente riassunti in una stima di un decremento della crescita economica di 0,19% per ogni punto percentuale di aumento dei requisiti patrimoniali. Tale impatto negativo verrebbe a manifestarsi nel corso di un periodo di quattro anni e mezzo, e genererebbe dunque una diminuzione della crescita annua di 0,04%. Questo impatto sarebbe principalmente il risultato di un aumento degli spread creditizi e di una riduzione dell’offerta di credito. Un secondo studio prodotto di recente dal Comitato di Basilea mostra peraltro come nel lungo termine, ossia dopo i primi cinque anni, i benefici connessi al minore profilo di rischio delle banche, alla maggiore fiducia del mercato nella solidità del sistema bancario e alla minore probabilità di crisi, finiscono per compensare l’impatto negativo sulla crescita economica prodotto nei primi anni.

Vi è tuttavia, in presenza di due stime discordanti relative al potenziale impatto economico dell’aumento dei requisiti patrimoniali, un importante argomento che spinge a considerare più verosimili e realistiche le stime del Comitato di Basilea e del FSB rispetto a quelle dell’IIF. Esso non si riferisce all’accuratezza delle metodologie di stima utilizzate, quanto piuttosto a un’ipotesi comune a entrambi gli studi. Le stime relative alla caduta del PIL conseguente a un incremento di un punto percentuale dei requisiti di capitale si basano infatti sull’assunto che tutte le banche siano costrette ad aumentare la propria dotazione patrimoniale di un punto percentuale. Questa ipotesi risulta evidentemente molto prudenziale. Come già osservato, infatti, la maggioranza delle grandi banche internazionali ha già provveduto nel corso degli ultimi due anni ad accrescere in modo significativo la propria dotazione patrimoniale e risulta dunque già adempiente rispetto alle nuove regole previste dal Comitato di Basilea. Ne segue che l’impatto macroeconomico di queste ultime sarà più limitato di quanto previsto dalle stime sopra menzionate. In conclusione, la critica proveniente da alcuni esponenti dell’industria bancaria e del mondo delle imprese secondo cui i nuovi requisiti previsti dal Comitato di Basilea sarebbero eccessivamente stringenti risulta a mio avviso priva di un reale fondamento economico.

Un sistema troppo generoso per le banche?

Una terza critica, di segno opposto alle precedenti, è quella secondo cui il livello dei nuovi requisiti di capitale risulta insufficiente rispetto ai problemi verificatisi con le crisi bancarie degli ultimi anni. Questa critica viene sovente supportata da due semplici considerazioni: 1. molte delle banche di investimento entrate in crisi negli anni recenti, come per esempio Lehman Brothers, avevano coefficienti patrimoniali largamente superiori ai minimi richiesti e anche superiori a quanto previsto dalle nuove regole di Basilea 3; 2. molte delle grandi banche internazionali posseggono già oggi una dotazione patrimoniale superiore a quanto previsto dai nuovi requisiti. Secondo questi critici i nuovi requisiti avrebbero dunque dovuto posizionarsi su livelli decisamente superiori a quanto previsto dalle proposte del Comitato di Basilea, con livelli minimi di tier 1 attorno al 20%. Anzitutto, è opportuno chiarire come le nuove regole presentate in settembre di quest’anno siano state precedute, nel luglio del 2009, da un’importante riforma del sistema dei requisiti patrimoniali relativi ai rischi di mercato, ossia dei requisiti relativi alle posizioni che rientrano nel portafoglio di negoziazione. Tali requisiti, i quali assumono una particolare rilevanza proprio per le banche di investimento, sono stati significativamente rafforzati con l’introduzione, già a partire dal 2011, di due vincoli addizionali, uno (Incremental Risk Charge - IRC) relativo al rischio specifico delle posizioni del trading book volto a considerare adeguatamente la liquidità delle singole posizioni, e l’altro (Stressed VaR) volto a coprire il rischio di perdite connesse a periodi di forte stress. Gli obiettivi connessi a questi due requisiti addizionali sono principalmente due: 1. rimuovere l’incentivo alle operazioni di arbitraggio regolamentare fra banking e trading book e 2. imporre alle banche un requisito patrimoniale per i rischi di mercato che tenga in considerazione il rischio di liquidità delle posizioni, la cui rilevanza si è manifestata in modo evidente durante la recente crisi. Questi nuovi requisiti condurranno, già a partire dal 2011, a un aggravio rilevante dei requisiti patrimoniali connessi ai rischi di mercato e si rifletteranno in un incremento rilevante dei requisiti patrimoniali cui sono soggette le banche di investimento, per le quali l’attività di trading assume una particolare rilevanza.

Valutare dunque l’adeguatezza del nuovo sistema di requisiti patrimoniali adducendo ad esempio il caso di banche come Lehman Brothers e trascurando la riforma dei requisiti patrimoniali relativi ai rischi di mercato rappresenta un errore. A ciò si aggiunga che il buon livello di coefficienti patrimoniali registrato da banche di investimento come Lehman Brothers prima della crisi finanziaria era in parte riconducibile al fatto che numerosi asset erano stati formalmente “nascosti” in speciali veicoli (SIV) non consolidati nel bilancio delle banche. È piuttosto evidente che un simile problema – di fatto riconducibile al sistema contabile – non si risolve aumentando il coefficiente minimo di patrimonializzazione, ma semplicemente imponendo che gli attivi che stanno a denominatore del coefficiente di capitale riflettano correttamente tutte le esposizioni di una banca. Veniamo ora alla seconda considerazione, quella secondo cui i nuovi requisiti non sono sufficientemente restrittivi in quanto molte grandi banche internazionali si caratterizzano già per livelli di patrimonializzazione superiori. La realtà è che l’esperienza della crisi finanziaria ha costretto numerose grandi banche ad accrescere, nel corso degli ultimi due anni, il proprio grado di capitalizzazione. Questa pressione è venuta dal mercato dei capitali, dalle agenzie di rating, dagli organi di vigilanza e ancora da semplici logiche di sana gestione. In questo senso, le nuove regole proposte dal Comitato di Basilea rispondono a due importanti obiettivi: 1. da un lato, costringono tutte le banche che ancora non hanno effettuato gli sforzi necessari ad accrescere il proprio grado di patrimonializzazione, allineandosi ai nuovi e più stringenti requisiti; 2. dall’altro, impediscono che in futuro – in corrispondenza di un nuovo periodo di crescita economica e di elevata redditività del settore bancario – il management delle banche paghi bonus elevati e distribuisca ingenti dividendi, ricadendo negli errori del passato. Non si può peraltro trascurare il fatto che numerosi gruppi bancari, anche nel nostro paese, dovranno compiere sforzi intensi per conformarsi ai nuovi requisiti previsti da Basilea 3, pur in presenza di una tempistica che consente di adeguarsi gradualmente agli stessi. Il motivo è semplicemente legato al fatto che un aumento di capitale nell’attuale contesto di bassa redditività e di elevata rischiosità degli attivi risulta un’operazione onerosa e poco favorevole.

Tempi troppo lunghi?

Un’ultima critica, piuttosto diffusa, alle proposte del Comitato di Basilea, riguarda i tempi eccessivamente lunghi previsti per l’entrata in vigore dei nuovi e più stringenti requisiti patrimoniali. Questi ultimi entreranno effettivamente in vigore in modo graduale: l’aumento del requisito relativo al capitale di maggiore qualità in termini di capacità di assorbimento delle perdite (common equity o core tier 1) inizierà nel 2013 ed entrerà a regime nel 2015 con il nuovo requisito del 4,5%. Il nuovo requisito relativo al buffer anticiclico entrerà invece in vigore solo a partire dal 2016 e sarà a regime solo nel 2019. Analoga introduzione graduale per le nuove regole relative alle deduzioni dal capitale di quegli strumenti (ibridi, innovativi ecc.) che non saranno più ammessi al computo del patrimonio di maggiore qualità.

L’entrata in vigore graduale di questi nuovi requisiti trova spiegazione in tre importanti e semplici considerazioni. Anzitutto, il fatto che i sistemi bancari dei diversi paesi hanno ricevuto, durante la crisi finanziaria recente, un sostegno molto differenziato da parte dei relativi governi e autorità. In alcuni paesi, numerose banche sono state supportate mediante significativi aumenti di capitale sottoscritti dai relativi governi. In altri paesi, questi meccanismi di aiuto pubblico non sono intervenuti anche a causa del cattivo stato di salute delle relative finanze pubbliche. Da questo punto di vista, l’introduzione repentina di nuovi e più stringenti requisiti di capitale risulterebbe in contrasto con uno dei principi cardine che ha sempre ispirato l’azione del Comitato di Basilea, quello del levelling the playing field, ossia di un sistema di regole che non risulti penalizzante per le banche di un paese rispetto a quelle di un altro.

Una seconda ragione che spiega il gradualismo del nuovo sistema di regole patrimoniali è riconducibile all’attuale congiuntura economica e ai timori di un impatto negativo sulla crescita, già debole, della maggioranza delle economie sviluppate. Da questo punto di vista, non vi è dubbio che la maggioranza delle grandi banche commerciali si trovino ad affrontare un periodo caratterizzato da una bassa redditività del patrimonio. Questa è a sua volta riconducibile, da un lato, a elevate perdite su crediti, generate dalla situazione di bassa crescita, e a un contesto di bassi tassi di interesse che deprimono la fonte di reddito principale di una banca, ossia il margine di interesse legato alla tradizionale attività di intermediazione creditizia. In questa situazione, la raccolta di nuovi capitali di rischio risulta chiaramente più difficile. Ne segue che un inasprimento repentino del sistema di requisiti patrimoniali si scontrerebbe con la difficoltà, per molte banche, di reperire i capitali necessari a far fronte ai nuovi requisiti.

Una terza motivazione sottostante ai tempi decisi dal Comitato di Basilea per l’introduzione graduale dei nuovi requisiti può trovarsi nell’analisi condotta dallo stesso Comitato, assieme al Financial Stability Board, relativa all’impatto macroeconomico di un incremento dei coefficienti di capitale. Quest’analisi ha mostrato chiaramente come l’entrata in vigore graduale consenta di minimizzare tale impatto, riducendo dunque le eventuali conseguenze negative sulla crescita economica. Infine, credo sia importante osservare che la fissazione dei nuovi livelli minimi di capitale fa sì che il mercato richiederà alle banche di adeguarsi a questi nuovi vincoli prima del momento in cui gli stessi entreranno formalmente in vigore. Il gradualismo previsto dal Comitato di Basilea per l’entrata in vigore dei nuovi requisiti risulta dunque, a mio avviso, una scelta adeguata e coerente con l’attuale fase economica.

In conclusione, le preoccupazioni espresse con toni allarmistici nei confronti del sistema di Basilea 3 da numerosi osservatori appaiono a mio modesto avviso non condivisibili. Ciò non significa che questo nuovo sistema di vigilanza prudenziale disegnato in modo coordinato a livello internazionale dal Comitato di Basilea non presenterà, come già accaduto in passato, dei punti deboli. Il problema è capire quali problemi costringeranno a discutere della sua riforma, quando questa avrà luogo e quali contenuti la caratterizzeranno. Per il resto, non vi sono dubbi che Basilea 3 sarà seguito da Basilea 4!