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2009/2
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Nel suo ultimo, bellissimo film (Gran Torino, 2009) Clint Eastwood interpreta un ex operaio di Detroit, razzista e rancoroso, che impara a poco a poco a convivere con gli immigrati di ultima generazione, scoprendo i vantaggi di una società multiculturale. Nella sua parabola esemplare ci sono utili indicazioni anche per il funzionamento delle organizzazioni complesse nel mondo globalizzato.
Gran Torino
Regia: Clint Eastwood
Interpreti: Clint Eastwood, Bee Vang
USA, 2008
“Barbarians”, ringhia Walt Kowalski, operaio in pensione di Detroit, mentre spia con disprezzo gli immigrati asiatici che vivono nella casa accanto alla sua. Strana gente, strani gusti, strane usanze. Da barbari, appunto. Che non parlano bene l’inglese, mangiano cibi disgustosi e non hanno alcuna intenzione di integrarsi nell’american way of life. Lui, che tiene la bandiera a stelle e strisce issata ben in vista sulla veranda di casa, da giovane ha combattuto in Corea, e ora i coreani se li ritrova in patria. In realtà sono Hmong (un’etnia che vive divisa in clan e tribù fra il Laos, la Thailandia e la Cambogia), ma per lui non fa differenza. Sono comunque “musi gialli”, e stanno lì. Fianco a fianco. I nemici di un tempo divenuti vicini di casa. Li guarda attonito, Kowalski, sputa per terra, scuote la testa e si siede sulla veranda della sua casa da vedovo per affogare nella birra il suo disgusto esistenziale.
Da quando sua moglie se n’è andata (abbiamo visto il funerale, proprio all’inizio del film), Kowalski è solo al mondo. Solo, a parte una cagnetta di nome Daisy e la sua Gran Torino del 1972, assemblata quando faceva l’operaio in catena alla Ford. Non è un bel mondo, quello che Kowalski vede girargli attorno. Il quartiere in cui vive, ormai, gli fa schifo. Squallido, misero, degradato. C’è un’aria triste, crepuscolare quasi, che aleggia per le strade, e cola sui muri delle case, e striscia negli interni domestici mediocremente arredati. Kowalski è l’unico yankee a non aver lasciato il quartiere. Anche se ormai ci vivono i barbari, lui resiste e resta lì, come un soldato asserragliato nel suo avamposto, mentre i “selvaggi” gli ronzano attorno, e lo irridono, e lo provocano. Sta lì, lucida la sua Gran Torino e cerca di sfuggire al prete che tenta invano di indurlo al rito della confessione. Poi, all’improvviso, succede qualcosa. Succede che Kowalski si rende conto che non tutti i barbari sono uguali e che anche fra i musi gialli c’è qualcuno che è un po’ meno disgustoso degli altri. Thao, per esempio: il ragazzino che, istigato da una gang, ha tentato di rubare la Gran Torino – la sua auto feticcio – dal garage, e che tuttavia ha negli occhi e nei gesti qualcosa di gentile. Qualcosa che gli piace. O che gli dispiace di meno del comportamento di quei membri della sua famiglia che gli propongono con il sorriso sulle labbra di lasciarsi rinchiudere in un ospizio e di aspettare la fine in una prigione dorata. Sono “sons of the bitch” anch’essi, pensa il ruvido operaio razzista dell’ex capitale americana dell’automobile. Che comincia a frequentare il ragazzino “muso giallo”, e sua sorella, e la sua famiglia, trovando un argine alla solitudine proprio in casa di quelli che erano i “nemici”. Nella sua elegante classicità, l’ultimo film diretto e interpretato da Clint Eastwood affronta di petto alcuni temi “caldi” non solo della società multietnica, ma anche delle organizzazioni nel mondo globalizzato. Ne discutono, come di consueto, Severino Salvemini e Gianni Canova.
S.S. Mi sembra che Gran Torino sia un film importante prima di tutto per la chiarezza e la lucidità con cui affronta il tema della società crossculturale. Il protagonista del film, il personaggio interpretato da Clint Eastwood, è rimasto nel suo quartiere l’unico emblema dell’american way of life. Attorno a lui vivono solo immigrati. E lui li guarda con sospetto, con diffidenza, addirittura con disprezzo. Sputa per terra quando li vede…
G.C. Anche se pure lui, probabilmente, è un immigrato. Il suo cognome, Kowalski, lascia supporre lontane origini esteuropee, forse polacche…
S.S. Certo. Ma lui è un immigrato ormai del tutto integrato. Uno di quelli che hanno dimenticato le proprie radici e si sentono profondamente americani. Il suo modo di rapportarsi agli immigrati più recenti è imprigionato dal frame prospettico della guerra in Corea. Per lui gli asiatici sono tutti uguali. Tutti potenziali nemici. Tutti da disprezzare.
G.C. … finché non succede qualcosa che lo porta a uscire dallo stereotipo.
S.S. Certo. E il processo cognitivo che gli consente la fuoruscita dallo stereotipo è generato prima di tutto dal contatto diretto. Dalla conoscenza non mediata. Kowalski deve entrare in casa dei suoi vicini Hmong per imparare a conoscerli. Deve imparare a gustare i cibi, a capire i riti e i cerimoniali. Deve imparare che accarezzare la testa di un bambino, per gli Hmong, ha un significato molto diverso da quello che ha nella nostra cultura. E in questo processo è aiutato dalla ragazza che gli fa da traduttrice: conoscendo i due mondi, è lei che riesce a metterli in contatto, a farli comunicare.
G.C. Anche il tema della comunicazione è impostato in modo molto efficace nel film. Penso, per esempio, alla scena dal barbiere, quando Kowalski fa capire al ragazzino, in modo esilarante, che per comunicare bisogna sempre adattarsi all’interlocutore che si ha di fronte.
S.S. E il ragazzino capisce talmente bene la lezione che subito dopo, nella scena ambientata nel cantiere edile, cerca immediatamente di mettersi in sintonia con il capocantiere. Cerca di capire che cosa potrebbe voler sentirsi dire quell’irlandese, e glielo dice. Va sul suo terreno. Gli fa credere di essere simile a lui, di condividere il suo sentire. È una sequenza magistrale, quasi un paradigma su come innescare una comunicazione efficace.
G.C. E poi c’è il grande tema del saper fare. Io ho trovato stupenda la scena in cui Kowalski porta il ragazzino nel garage e gli mostra i suoi attrezzi, gli spiega che ci sono tanti diversi cacciavite, tante seghe, tante pialle, e che per ogni funzione c’è un attrezzo diverso…
S.S. Non solo. Kowalski ha accumulato esperienza e competenza. Questo è il suo vero capitale, la sua ricchezza. Ed è questo che gli consente di diventare, nei confronti del ragazzino, un “modello di ruolo”. È uno dei temi cruciali, in questo momento, anche nella vita delle aziende: la difficoltà di trovare un tutor, o un coach, capace di essere un role model per i più giovani. Kowalski lo è. Non è un tutor morbido, beninteso. La sua è una cultura dura, sprezzante, poco disposta al compromesso. Ed è questa che trasmette al giovane. Lo fa alternando gratificazioni e sanzioni, ma sempre facendo di se stesso il modello, mai invocando principi astratti. In questo, credo, sta la forza del personaggio, e – direi – anche la sua rappresentatività epocale.