E&M

2009/2

Vincenzo Perrone

Careful with That Axe, Eugene! Il dramma silenzioso dei manager senza lavoro

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Si rischia di sviluppare una pericolosa forma di assuefazione di fronte alle cifre sulla disoccupazione che si rincorrono sempre più alte nei notiziari della sera. Simile a quella di cui già da tempo soffriamo quando, impassibili e solo momentaneamente attenti, ascoltiamo e guardiamo le immagini (la forchetta per un attimo sospesa a mezz’aria) delle vittime di disastri naturali, di malvagi atti di terrorismo o di guerre dimenticate, senza fine e senza limiti alla crudeltà, come quella che ha quasi decimato la popolazione del Congo.

Per effetto della crisi migliaia di persone, nel mondo e nel nostro paese, stanno perdendo o rischiano di perdere nel prossimo futuro il posto di lavoro. Il numero complessivo, variabile e ripetuto con ostinazione, finisce con il nascondere la portata vera, tutta individuale, del dramma costituito dalla perdita del lavoro.

E anche le soluzioni, se davvero ve ne sono, suonano astratte e collettive: si parla, per esempio, di generici e generali ammortizzatori sociali, che dovrebbero rendere meno devastante l’impatto dei vagoni che la crisi ha lanciato a tutta velocità contro gli immobili respingenti di fine corsa della depressione economica. Ogni vagone è però pieno di persone. E ciascuno allo stesso tempo è, e si sente, solo. Pur riconoscendo il fatto ovvio che a soffrire di più e ad essere meno garantiti sono i più deboli, come le donne, i giovani al primo precario impiego e i lavoratori a bassa qualificazione e a basso reddito, qui vogliamo soffermarci sulla condizione di senza lavoro dei manager cinquantenni, di buona passata carriera, di ancor migliore reddito e con famiglia a carico. Una stima offerta da Federmanager ci dice infatti che ben otto-novemila dirigenti finiranno disoccupati nel nostro paese nei prossimi mesi di quest’anno. La fonte è probabilmente di parte, ma la cifra è così alta da non lasciare dubbi sull’allarme che dovrebbe suscitare.

Loro e il loro destino pare invece interessino poco. Più lungimirante sensibilità ha dimostrato come al solito l’arte, e il cinema in particolare, che per primo se ne è occupato. Prima ancora che scoppiasse la crisi nella quale siamo immersi, il Festival di Venezia, nell’edizione del 2001, attribuì un meritato Leone d’Oro al film A tempo pieno di Laurent Cantet. La storia è quella di Vincent, abituato al suo bel lavoro di consulente, alla sua vita agiata e alla sua famiglia borghese con tre figli, licenziato in tronco da un giorno all’altro. Non trovando il coraggio di ammettere il fallimento ad amici e parenti (oltre che a sé stesso), pretende di essersi spontaneamente dimesso per potere accettare un immaginario quanto straordinariamente invitante nuovo incarico all’ONU, che purtroppo lo costringe a lunghi viaggi e a rientri a casa solo nei fine settimana. In realtà passa il tempo vagando in macchina per le autostrade di Francia, racimola i soldi necessari per mantenere in piedi la finzione solo grazie a truffe e contrabbando, e vive come un clochard fino alla rasatura rituale e dolorosa del venerdì sera, prima del rientro presso gli ignari familiari. Il film (sullo stesso tema avremmo potuto ricordare il bel lungometraggio italiano Giorni e nuvole diretto da Silvio Soldini nel 2007) ha una fine, che non raccontiamo, che pare lieta, ma quasi sicuramente non lo è. E dice molto, nelle sue intense due ore di durata, su alcuni motivi particolari del dramma di cui ci occupiamo.

La maggior parte dei manager e dei quadri di buon livello, che hanno avuto successo e mettono passione in quello che fanno, affidano al proprio lavoro la definizione della propria identità. Se il lavoro finisce, anche l’identità personale scompare, con tutte le conseguenze psicologiche e sociali alle quali è bene pensare con una certa attenzione. La forza di questa identificazione dipende in primo luogo dal fatto che un lavoro di responsabilità, che produce risultati visibili e apprezzati, che stimola con problemi difficili da risolvere in un ambiente di relazioni intense con altre persone valide e che, last but not least, conferisce potere economico e prestigio sociale, soddisfa un gran numero di bisogni psicologici, oltre che semplicemente materiali. L’attaccamento al lavoro è sicuramente più facile che si sviluppi in queste condizioni che alla catena di montaggio in una fabbrica o dietro lo sportello di un ente pubblico. Per questo offre una base apparentemente molto solida alla quale ancorare il proprio senso del sé.

Il processo di identificazione e di sostituzione dell’identità personale con quella lavorativa tende ad autoalimentarsi per effetto di scelte e comportamenti che appaiono appropriati e vantaggiosi. Per esempio, si finisce con il lavorare molte più ore del normale. Il fenomeno è già oggetto di numerosi studi per le sue notevoli conseguenze.[1] In Giappone hanno coniato un termine ad hoc per le morti dovute al superlavoro: karoshi, arrivando a specificare esattamente il numero di ore di lavoro consecutive e totali che devono essere raggiunte perché si possa classificare il decesso come dovuto proprio a questa causa. Se pure non si arriva a morirci, aumentano enormemente le probabilità di subire o causare incidenti sul lavoro e di avere seri problemi di salute causati dal fatto che, normalmente, le troppe ore di lavoro si associano a una diminuzione delle ore dedicate al sonno e che la combinazione di questi due fattori mette a rischio il sistema immunitario, oltre a ridurre severamente le capacità cerebrali con conseguenze, anche in questo caso, spesso letali. Quasi la metà dei manager lavora anche durante le pause pranzo, al punto che è entrata nel linguaggio comune un’apposita, sinistra locuzione: colazione di lavoro. A persone normali dovrebbe bastare pronunciarla per far sì che passi immediatamente la fame o si blocchi la digestione. Per troppi manager, invece, collezionarne una serie infinita sia a pranzo sia a cena diventa un motivo di vanto personale. Molti non riescono nemmeno a concedersi vacanze vere e a staccare anche solo per brevi periodi di tempo. Diversi denunciano addirittura di sentirsi male durante il fine settimana, quando la pausa forzata dal forsennato ritmo lavorativo quotidiano riduce l’adrenalina e scatena la depressione. A furia di multi-tasking poi, ovvero dell’abitudine a mescolare attività diverse nella stessa unità di tempo, sviluppano ansia, difficoltà di concentrazione e di analisi, fino a ridurre la propria performance lavorativa. Per tutti si pone il problema di conciliare questi ritmi di lavoro con la vita familiare e spesso a pagare il prezzo più alto delle lunghe ore di lavoro dei manager sono i loro figli e la qualità, se non proprio la tenuta, delle loro relazioni affettive. Certo, si può sostenere che tutto questo stress è ampiamente remunerato oltre che liberamente scelto. E si può anche correttamente osservare che non tutti i manager sono così assidui e dipendenti dal proprio lavoro, o non si spiegherebbero le lunghe code di SUV in fuga da Milano dalle diciassette in poi di ogni venerdì. I fannulloni si trovano a ogni livello della scala gerarchica e in qualsiasi settore. Resta però il fatto che, se questa intensità viene meno, il vuoto che si apre è enorme e aggravato dalla recriminazione fondamentale: perché e per chi si è spesa la parte migliore della propria vita in un modo così insensato?

Recriminazioni si mescolano a rimpianti nell’improvvisa solitudine del manager senza lavoro. Se è vero, infatti, che molti sono gli aspetti negativi connessi al superlavoro, è innegabile che il legame sia molto più ambiguo e complesso a causa di numerosi aspetti positivi che pure lo connotano. Alcuni sono evidenti e hanno a che fare con il valore intrinsecamente motivante di un’esperienza professionale pienamente soddisfacente e sfidante. Altri richiedono, per essere colti, uno sguardo curioso e capace di andare al di là dei luoghi comuni. Qualche tempo fa una ricercatrice americana[2] ha mostrato, studiando i quadri e i dirigenti di una grande impresa multinazionale, come si sia verificata nel tempo un’inversione nella prevalenza dell’attaccamento affettivo tra vita familiare e vita di lavoro. Quest’ultima finisce con il dominare la prima, da molti ormai vissuta come fonte di stress, di mancati riconoscimenti, di tensioni con partner e figli, di problemi che non si sa come affrontare. Per questo, pur lamentandosi a voce dell’impossibilità di trovare il mitico bilanciamento tra sfera privata e ambito di lavoro e dichiarando di volere dedicare molte più ore ai propri affetti di quante se ne dedichino a compiti e colleghi, in realtà nessuno si sforza realmente di ridurre le ore di lavoro, tutti godendo dell’eccitazione che il sentirsi impegnati allo spasimo, sfidati, valutati, ammirati e remunerati, regalano ogni giorno. Occorre aggiungere poi un carico di emozioni profonde e molto personali che si possono provare mentre si lavora in azienda: secondo alcune fonti l’80% degli americani impiegati in impresa ha avuto una qualche esperienza di relazione affettiva sul lavoro.[3] Se provate a essere più espliciti e a interrogare la banca dati bibliografica Business Source Complete cercando gli articoli accademici che fanno riferimento nel proprio abstract a “sex at work” verrete sommersi da oltre mille titoli sull’argomento. E senza arrivare a relazioni così intime e variamente coinvolgenti, è in generale la rete di rapporti tra le persone che viene stracciata da eventi come la forte caduta dei livelli occupazionali che stiamo sperimentando.

Sono note le conseguenze negative sulla produttività e sul morale di chi salva il proprio posto e rimane in azienda come un sopravvissuto alla catastrofe. Anche se è dimostrata una certa ambivalenza in chi non viene colpito dai licenziamenti di massa: da un lato, infatti, soffre per la perdita delle persone che fanno parte della propria cerchia di relazioni e con le quali era in connessione diretta, ma dall’altro risente positivamente dell’uscita di persone con posizioni simili alla propria nella rete organizzativa interna, perché questo potrebbe aumentare le probabilità di avanzamenti di carriera e di miglioramenti nei contenuti del proprio lavoro.[4] Molto più dolorosa, quanto meno indagata, deve essere invece la solitudine di chi si trova improvvisamente confinato in casa, privato della propria identità ed escluso dalla rete di relazioni nella quale ha investito buona parte della propria affettività oltre che del proprio impegno lavorativo. C’è di che disperarsi davvero, anche se per fortuna la crisi globale e violenta di questi tempi funziona quasi da antidoto rispetto alla possibilità di andare in depressione, come spesso capita invece ai manager che si trovano nella infelice condizione che stiamo esplorando. Il motivo ce lo spiega la psicologia, che ha indagato i meccanismi di attribuzione, ovvero il modo con il quale cerchiamo di spiegarci quello che ci accade, rintracciandone le cause. Se è evidente a tutti che le cause delle riduzioni del personale sono esterne e identificabili in un fenomeno esogeno come la crisi globale dell’economia, è proprio questa attribuzione esterna che salva l’immagine di sé e quindi l’equilibrio psicologico di chi ne rimane vittima. Ben più devastanti, infatti, sono le conseguenze psicologiche della perdita del proprio posto di lavoro quando incolpiamo noi stessi dell’evento, trovando nei nostri comportamenti, in quello che abbiamo detto e fatto, la causa di ciò che ci ha colpito. Difficile, in questo caso, scampare alla depressione che segue alla perdita di autostima e di autoefficacia.

Molto, comunque, dipende anche dalla reazione che hanno le persone più vicine al manager licenziato. In particolare le mogli, visto che ai livelli più alti delle organizzazioni sono prevalenti gli uomini. In primo luogo, ci sono dati che dicono che lo stress causato dal licenziamento e, più in generale, dall’incertezza relativa alla perdita del posto di lavoro si trasferisce anche al partner. Addirittura pare che se il marito, una volta ritrovato il lavoro, supera rapidamente lo stress e l’esaurimento, questo invece permane più a lungo nella moglie, la quale si troverebbe a svolgere un importante quanto personalmente assai costoso ruolo di ammortizzatore del trauma subito dal marito e trasferito a tutta la famiglia. Non si tratta di un sacrificio che il partner è sempre disposto ad accettare. La perdita di lavoro è sempre un fallimento che non solo minaccia il benessere economico raggiunto dalla famiglia e di cui gode il partner, ma modifica anche, come andiamo sostenendo qui, l’identità del manager senza lavoro rendendolo meno affidabile e desiderabile agli occhi del partner. Che il problema, infatti, non sia tanto economico quanto di immagine del partner lo dimostra bene un’interessante indagine condotta da due studiosi americani.[5] I problemi economici in una coppia possono essere causa di tensioni fino a portare a un divorzio. La ricerca di cui parliamo, però, dimostra che un divorzio è più probabile solo nel caso in cui le peggiori prospettive economiche siano dovute al licenziamento e non se esse sono l’effetto di una disabilità fisica o psicologica sviluppata da uno dei due partner e altrettanto capace di determinare una forte riduzione del benessere economico della famiglia. Gli studiosi concludono affermando che il divorzio è effetto delle informazioni sul partner che l’evento del licenziamento sembra offrire e dello stigma di fallimento ad esso connesso.

La portata catastrofica dell’evento negativo della perdita di lavoro rischia così di amplificarsi con un effetto domino che va dalla perdita di fiducia in sé stessi, che rende meno facile trovare un’alternativa di impiego, alla distruzione del tessuto di relazione, inclusa la famiglia, proprio nel momento in cui la necessità di sostegno è massima, fino allo stigma di fallimento che impedisce di trovare aiuto da parte di terzi. Quando si sente parlare di migliaia di licenziamenti e di nuovi processi di downsizing, occorrerebbe allora riuscire ad associare un volto e una storia a ciascun numero, uscendo da uno stato di insensibilità che, se ci aiuta a prendere e mettere in pratica decisioni difficili e dolorose, potrebbe portarci a commettere errori. Le aziende già sanno che riduzioni del personale compiute in modo cieco e indiscriminato, senza salvaguardare le competenze necessarie per ripartire dopo la crisi, distruggendo con il capitale sociale anche quello intellettuale dell’impresa, producono raramente i risultati attesi, e solo nel breve periodo. Guardare all’individuo e alla sfera a lui più prossima dovrebbe indurre ancora maggiore cautela nel maneggiare l’ascia con la quale si stanno tagliando costi e persone nelle nostre imprese. Di un’ascia da manovrare con attenzione parlano appunto i Pink Floyd in uno dei pezzi più significativi della loro produzione datato 1968, al quale abbiamo rubato il titolo per il nostro editoriale. Si tratta di un brano famoso soprattutto per il grido straziante di Roger Waters, che ne segna il culmine emotivo oltre che musicale. Speriamo di essere riusciti a farvi ascoltare l’urlo che le bocche forse troppo beneducate o già rassegnate di manager di mezza età senza più un lavoro non riescono a emettere. Potrebbe aiutarvi a scegliere per il meglio o a sentirvi meno soli.

1

Ronald J. Burke, “Working to Live or Living to Work: Should Individuals and Organizations Care?”, Journal of Business Ethics, 84, 2009, pp. 167-172.

2

Arlie R. Hochschild, The Time Bind: When Work Becomes Home and Home Becomes Work, Owl Books, USA, 2001.

3

Schaefer C.M., Tudor T.R., “Managing Workplace Romances”, S.A.M. Advanced Management Journal, vol. 66, Iss. 3, 2001, pp. 4-10. Si veda anche: Steven H. Appelbaum, Ana Marinescu, Julia Klenin, Justin Bytautas, “Fatal Attraction: The (Mis)Management of Workplace Romance”, International Journal of Business Research, vol. VII, n. 4, 2007, pp. 31-43.

4

Priti Pradhan Shah, “Network Destruction: The Structural Implications of Downsizing”, Academy of Management Journal, vol. 43, n. 1, 2000, pp. 101-112.

5

Kofi Charles Kerwin, Stephen Melvin Jr, “Job Displacement, Disability and Divorce”, Journal of Labor Economics, vol. 22, n. 2, 2004, pp. 489-522.