E&M

2009/2

Persino la regina Margherita, nel parco della villa reale di Monza, andava volentieri in bicicletta su uno speciale modello Bianchi con copricatena di cristallo. La fantasia popolare era affascinata da questo sport emergente. Aveva sentito parlare della Parigi-Brest-Parigi, mille e duecento chilometri in una sola tappa. I corridori potevano anche fermarsi a dormire, vinceva chi arrivava per primo. Siamo nel 1909 e fa il suo esordio il primo Giro d’Italia, anche se le strade erano delle idee e l’asfalto un lusso. Otto tappe soltanto, ma bastavano. La prima, da Milano a Bologna, passando per il Veneto, era lunga 397 chilometri. Si parte nel cuor della notte per arrivare a destinazione a metà pomeriggio in modo che anche i ritardatari possano giungere al traguardo prima che cali il sole. Delle otto auto al seguito, due erano riservate alla giuria che doveva presidiare il treno, il grande alleato del corridore. Saliva su quelle rudimentali carrozze con il favore delle tenebre, si nascondeva per un attimo e poi proseguiva in bici. I campioni avevano il diritto di dormire in una locanda, i diseredati dovevano accontentarsi di un fienile. Tra una tappa e l’altra c’era sempre una giornata di riposo che tutti passavano a letto per recuperare le fatiche disumane del giorno precedente. A Giro concluso, un giornalista si complimenta con il vincitore e gli chiede la sua prima impressione in quel momento. E lui, un muratore varesino, stralunato e perplesso, replica: “La prima impressione? Mi fa tanto male il sedere!”.

Un pubblico straripante, alle tre del mattino, a Milano, faceva ala alla partenza dei 127 partecipanti al primo Giro, tra i quali emergeva il grande idolo, Giovanni Gerbi, chiamato il Diavolo Rosso. Un bambino gli corre incontro per abbracciarlo e lo fa cadere. Si spezza la ruota anteriore e la forcella è piegata. Il cambio della bici era severamente vietato perché non tutti i partecipanti potevano permettersi un secondo mezzo. Deve ritirarsi.

Non poteva mancare sin dall’inizio l’altro ingrediente tipico del ciclismo: il doping. Bevevano sangue di bue appena macellato, convinti che fosse la maniera migliore per contrastare le anemie. Ma c’era dell’altro: certe erbe che si diceva arrivassero dall’Oriente. Si mescolava la caffeina pura con un estratto di coca. Si beveva uno strano sciroppo con solfato di stricnina. E si praticavano iniezioni di canfora. Tutti trucchi inventati una trentina d’anni prima dai pistard che correvano le Sei Giorni: dovevano restare in sella giorno e notte, per 142 ore di fila, percorrendo circa tremila chilometri, disturbati dagli spettatori impazziti che scommettevano su di loro.

Il primo Giro d’Italia del 1909 rimarrà mitico. Una foto di cent’anni fa, che ritrae il vincitore Luigi Ganna insieme ad altri cinque corridori indefinibili che percorrono un sentiero imprecisato, ha fatto compagnia a Candido Cannavò per tutta la sua vita di giornalista alla Gazzetta dello Sport. Ci ha lasciato alla vigilia di un evento che aveva sognato: il Giro del centenario. Il suo giornalismo faceva rivivere l’evento che raccontava. Il suo editoriale valeva il prezzo del giornale perché emozionava i lettori. Adesso quel mondo si è capovolto: è il giornale che vende i suoi lettori agli inserzionisti. Il Giro partirà senza di lui, l’unico capace di trasformare anche le semplici comparse in grandi protagonisti. Per animare i derelitti che arrancano in fondo al gruppo mi piace immaginare che una vettura invisibile, quella di Candido, chiuderà la carovana del Giro.