E&M

2008/3

Vincenzo Perrone

Winter in Venice. Riflessioni sul cambiamento (e la politica)

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Che abbiate assistito al tracollo del Festival di Sanremo o temuto quello, sempre possibile, dell’economia italiana. Che siate fan (pare sia molto cool esserlo qui da noi proprio perché è totalmente irrilevante) di Barack Obama o sostenitori di Matarrese e del nuovo che avanza con la sua Lega Calcio della riscossa postcalciopoli. Che vi occupiate di fitness, di alimentazione macrobiotica o dei nuovi assetti di governo societario. Che siate rivoluzionari o conservatori, dove per gli uni le novità vengono solo dal futuro e per gli altri dalla restaurazione del passato. Che siate interessati alle sfilate di moda o ai nuovi brevetti nelle biotecnologie. C’è una parola che vi avrà perseguitato e allettato a un tempo: cambiamento!

Tutti ne parlano. Tutti lo auspicano a tutti i livelli. Pochi hanno il coraggio di ammettere di temerlo o di volerlo evitare. Non abbiamo dati certi in proposito, ma siamo abbastanza sicuri che se si realizzasse un conteggio delle parole più usate nei testi di management, così come nei discorsi dei politici, la parola di cui ci occupiamo sarebbe certamente tra le più citate. Questo è quello che ci aspettiamo da noi stessi quando vorremmo perdere delle cattive abitudini, tagliare una relazione che non ci soddisfa più o aprire un ciclo nuovo nella nostra vita. Questo è quello che vogliamo da chi ci governa sotto forma della capacità di trovare una soluzione nuova a vecchi e nuovi problemi: il sottosviluppo del nostro Sud, che ha ormai persino un odore suo proprio: quello dell’immondizia abbandonata nelle strade; l’emergenza ambientale così come quella energetica; la sfida mortale del crimine organizzato e quella altrettanto pericolosa di paesi lontani che competono (e spesso vincono) contro la nostra economia. Si vorrebbe cambiare ma spesso non si sa come fare. Conviene allora provare ad approfondire le ragioni di questa difficoltà e vedere in che modo si potrebbe superarla.

Qualche mese fa, in occasione del convegno annuale degli studiosi italiani di organizzazione aziendale quest’anno tenutosi a Venezia, abbiamo avuto modo di ascoltare alcune cose interessanti sul tema da parte di Sidney G. Winter.[1] Economista nordamericano, attualmente professore di management presso la Wharton School della University of Pennsylvania, Sidney – detto Sid – Winter è tra gli autori più influenti e citati per il suo lavoro sui processi evolutivi in economia. Lavoro che ha nel libro scritto nel 1982 con Richard Nelson, An Evolutionary Theory of Economic Change, il suo punto più alto e compiuto. Il contributo principale di questo autore alla teoria economica consiste nell’avere mostrato come la funzione di produzione intesa tradizionalmente nei termini della relazione tra diversi tipi di input e gli output desiderati sia poco utile per comprendere le scelte e i comportamenti reali delle imprese e i loro percorsi evolutivi, tanto quanto conoscere la semplice lista degli ingredienti e il loro prezzo relativo non aiuta a sapere in che modo può essere cucinato un determinato piatto. Quello che serve è invece conoscere la ricetta che può guidare nel processo di realizzazione. Muovendo dall’esempio culinario, caro a questi autori, di nuovo al piano dell’economia e della produzione, per Nelson e Winter occorre introdurre la conoscenza relativa ai processi produttivi per apprezzare scelte e comportamenti delle imprese. Per poter essere utilizzabile, per poter produrre risultati standard, costanti nel tempo e su larghi volumi e per poter assicurare efficacia ed efficienza in imprese di grandi dimensioni che impiegano migliaia di persone, questa conoscenza deve essere incorporata in routine che possono essere apprese, condivise e applicate come guida alla realizzazione della produzione. Le routine stanno alle aziende come le abilità stanno ai singoli individui. Le rendono capaci di agire e di produrre risultati. Esse influenzano i processi evolutivi perché le imprese, quando ricevono uno stimolo a cambiare, non sono libere di inventarsi rapidamente un nuovo insieme di routine capaci di generare una risposta diversa rispetto a quella data fino a quel momento. Cercheranno in primo luogo di utilizzare il maggior numero di capacità già residenti all’interno dell’organizzazione e di effettuare aggiustamenti al margine cercando di guadagnare tempo mentre le necessarie nuove routine vengono sviluppate.

Ogni cambiamento viene quindi affrontato dalle imprese con una combinazione variabile di mantenimento di capacità correnti e acquisizione/sviluppo di nuove capacità. Il cambiamento nelle imprese, e nei sistemi economici, non è quindi un fatto discreto, l’opposizione di una rivoluzione a uno stato precedente di stasi, quanto appunto un fenomeno evolutivo nel quale il passato continua a gettare la propria ombra sul futuro. Il cambiamento è piuttosto una questione di grado: quanto meno numerose sono le capacità che si possono continuare a utilizzare nel nuovo contesto competitivo tanto maggiore sarà lo sforzo di innovazione richiesto.

L’intervento veneziano di Winter comincia proprio con il ribadire l’opportunità per studiosi, manager e, aggiungiamo noi, anche per chi è impegnato nella politica, di rifuggire dalla tentazione di una dicotomizzazione netta tra cambiamento/innovazione, da un lato, e assenza di cambiamento o stasi, dall’altro. La realtà non è questa, non è discreta come la scelta imposta da un interruttore tra due stati distinti: on/off. I due fenomeni si compenetrano e vanno colti nella loro reciproca dipendenza secondo la quale non c’è stasi possibile senza cambiamento e non c’è cambiamento senza la permanenza di elementi già presenti nella situazione precedente. La sintesi tra opposti apparenti è cosa pacifica nel pensiero orientale: il punto bianco che illumina la parte oscura del simbolo dello Yin e dello Yang, al quale corrisponde un punto nero che macchia la parte bianca ricordano appunto questa impossibilità di separazione radicale. Ma non è estranea nemmeno al pensiero filosofico occidentale, a cominciare da Eraclito secondo il quale, per il solo effetto dello scorrere del tempo è impossibile evitare il cambiamento, così come è impossibile bagnarsi due volte nello stesso fiume. Anche in quella che può apparire come la stasi più perfetta vi è dunque molto cambiamento. Allo stesso modo, quando fissiamo la nostra attenzione su cambiamenti che ci paiono simili a rivoluzioni dovremmo essere capaci di vedere quanta parte del vecchio mondo viene in realtà mantenuta. Riuscire a cogliere questo mix variabile di cambiamento e stasi è fondamentale per imparare a cambiare davvero.

Partiamo dalla prima considerazione, ovvero dal fatto che occorre cambiare molto anche solo per rimanere fermi dove si sta quando tutto intorno a noi invecchia e si modifica, una cosa intuita anche dalla Regina di Cuori di Alice nel Paese delle Meraviglie ed evidente a chiunque sia stato sorpreso all’aperto da un tornado. Questa costanza di comportamenti e risultati a fronte di contesti fortemente mutevoli è uno dei miracoli dell’impresa industriale moderna e dell’organizzazione burocratica, basate sulla standardizzazione e sulla proceduralizzazione. Pensate a quanti microaggiustamenti devono essere compiuti in funzione di variabili come il traffico, le condizioni atmosferiche, il comfort che si vuole assicurare ai passeggeri per riuscire comunque a condurre un aereo intercontinentale partito da Milano fino a un atterraggio in perfetto orario a Buenos Aires. Noi diamo per scontata quella regolarità di comportamento tutti i giorni e per tutti i voli e ci aspettiamo che venga mantenuta. Rischiamo di non vedere quanto sforzo deve essere fatto e quanta innovazione e capacità di problem solving mescolata con lo scrupoloso rispetto di norme e procedure deve essere messa in campo per ottenere quel risultato. E questo induce la prima riflessione. Come nelle nostre aziende molto cambiamento, nella forma, per esempio, dei programmi per la qualità totale e per l’ottimizzazione dei processi, è stato introdotto per ridurre la varianza nei risultati, allo stesso modo nel nostro paese, e con riferimento in particolare al comportamento e agli output della pubblica amministrazione, un programma innovativo che dovrebbe stare al primo posto nella lista delle cose che le forze politiche si impegnano a fare dovrebbe mirare a dare certezza di tempi, costi, comportamenti e risultati della funzione pubblica. Non saremmo il paese del pressapoco che siamo se i processi avessero una durata definita, se le opere pubbliche venissero realizzate con investimenti di tempo e denaro ragionevoli e allineati a quelli di paesi simili a noi o migliori, se tutte le scuole del paese, indipendentemente dalla loro localizzazione, producessero un livello di preparazione nei nostri studenti buono, e soprattutto omogeneo, se il tasso di mortalità nei nostri ospedali fosse abbastanza simile e, se possiamo esprimere sommessamente una preferenza, basso. La cosa che mina alla base la fiducia nelle istituzioni è proprio l’imprevedibilità e la discrezionalità al limite del capriccio del loro comportamento, ancora più allarmante perché avviene in un contesto ipernormato e regolamentato nella forma ma selvaggiamente preburocratico e premoderno nella sostanza. Occorrerebbe sapere andare dalle norme ai processi reali, magari lanciare un programma di riduzione degli errori e degli scostamenti simile al Six-Sigma adottato in General Electric, responsabilizzare e incentivare più per la capacità di ottenere un risultato “normale” e stabile che per la capacità di produrre improbabili prestazioni eccezionali o di raggiungere chissà quale ambizioso quanto estemporaneo obiettivo.

Passiamo a un secondo punto interessante suggerito dalle riflessioni sviluppate da Winter a Venezia. È quasi impossibile cambiare radicalmente. Non fosse altro perché le capacità che ci servono per farlo sono anche il frutto di processi di esperienza e apprendimento passati. Cerchiamo sempre di utilizzare gli strumenti che abbiamo, oltre a costruircene di nuovi, quando dobbiamo affrontare un problema. Ancora una volta, quindi, il grado di innovazione (grado, appunto, e non stato discreto) può essere indicato come la misura nella quale il nostro, o dell’organizzazione nella quale lavoriamo, repertorio di capacità può essere utilizzato per trovare una soluzione nuova a un problema vecchio o nuovo che sia. Minore è questa possibilità, maggiore è il tasso di innovazione richiesto. Ma il grado di innovazione dipende anche da un altro aspetto del problema che dobbiamo affrontare. Non siamo neanche liberi di cambiare come meglio ci aggrada. Una soluzione creativa e innovativa a un problema deve comunque soddisfare un numero variabile di vincoli e quasi mai ci è concessa l’invidiabile possibilità di ripartire da zero, facendo tabula rasa di tutti i condizionamenti presenti in una certa situazione. Quanto maggiori e stretti sono allora i vincoli da rispettare, tanto maggiori devono essere la creatività e la capacità di innovare nel trovare una soluzione soddisfacente. È più difficile pensare in modo creativo rimanendo dentro la scatola che essendo liberi di uscirne. È più difficile trovare un nuovo equilibrio per una coppia che si separa se si vogliono soddisfare anche le esigenze dei figli. È più difficile per un’impresa trovare soluzioni gestionali che soddisfino le esigenze di tutti gli stakeholder piuttosto che puntare alla sola massimizzazione del valore per gli azionisti. È una sfida più complessa innovare, gestire un processo di turnaround in un’azienda se si vuole mantenere l’equilibrio di potere esistente, senza rimuovere i dirigenti che hanno condotto l’azienda fino a quel momento.

Più numerosi sono i vincoli, più creatività serve nel trovare una soluzione al problema capace di soddisfarli tutti contemporaneamente. Cosa può suggerire anche alla politica questa tutto sommato semplice osservazione in tema di processi di cambiamento? Forse fornisce un argomento contrario alle proposte di “larghe coalizioni” spesso invocate come unica soluzione possibile ai gravi problemi del nostro paese. Probabilmente lo sono se le si considera come un modo per sottrarsi ai rischi politici derivanti dallo scontentare l’elettorato con scelte impopolari. Se i partiti più grandi chiedono gli stessi sacrifici nessuno può avvantaggiarsi elettoralmente del malcontento che essi generano nell’elettorato e quindi si riduce il rischio di fare la cosa giusta per poi essere puniti nell’urna da chi considera solo il proprio interesse particolare e solo il presente. E valida rimane forse anche l’idea di sottrarre i partiti moderati dal condizionamento eccessivo che deriva dal doversi forzatamente alleare con partiti più estremi. Ma se si immaginasse l’unione dei partiti maggiori come anche l’unione di tutte le istanze delle quali ciascuno individualmente deve farsi carico per soddisfare la propria base, allora ne deriverebbe un aumento, e non una riduzione, nel numero di vincoli da soddisfare simultaneamente. A meno di non pensare, magari con qualche ragione, che i partiti maggiori e più vicini a un indistinto centro siano anche quelli più simili tra loro e che la contrapposizione di interessi rappresentati non esista in realtà. Fuori da questo caso la sommatoria di vincoli produrrebbe un aumento della difficoltà nel trovare soluzioni innovative ai nostri problemi. Al punto che si potrebbe pensare più efficiente una forma di alternanza pura nella quale una parte investita della responsabilità di governare deve soddisfare solo un sottoinsieme di interessi e che interessi diversi da quelli saranno tenuti in considerazione e soddisfatti da un partito alternativo che giungesse al potere in un momento successivo. Questo soprattutto se i problemi da affrontare sono nuovi al punto che poca parte del repertorio di competenze accumulate nel passato è utilizzabile per risolverli. Infatti, la combinazione di una progressiva minore efficacia delle competenze possedute al variare del contesto con un numero crescente di vincoli porta a una impasse decisionale e operativa forse non molto diversa da quella nella quale, soprattutto nel nostro paese e negli ultimi tempi, ci troviamo bloccati. È bello pensare che ogni forma di governo dovrebbe realizzare in terra e simultaneamente gli obiettivi di uguaglianza, libertà e fraternità. Molto più difficile, soprattutto in un mondo complesso e globalizzato come quello in cui viviamo, riuscire a trovare risposte nuove o migliori di quelle attuali e allo stesso tempo capaci di ottimizzare una funzione di utilità con vincoli numerosi e pesanti.

Difficile ma non impossibile per persone (e istituzioni) particolarmente competenti e motivate. E qui veniamo a un’ultima considerazione. La difficoltà di cambiare aumenta proporzionalmente, nel quadro che abbiamo provato ad articolare, quanto minori sono l’ampiezza, la varietà e il grado di profondità delle competenze che si possono utilizzare per affrontarla e quanto maggiori e più numerosi sono i vincoli entro i quali si vuole trovare una soluzione. Un sistema che accoppiasse un’intricata rete di veti incrociati posti da una miriade di interessi particolari a un personale politico di scarsa competenza si troverebbe nelle condizioni peggiori per affrontare le questioni nuove che l’economia e la società domandano. Noi stiamo vivendo l’ennesimo avvicendamento di parlamentari e governo. Sarà rinnovamento vero e vero miglioramento della capacità di comprendere e risolvere i problemi che abbiamo? Chissà se, oltre che alla condizione desolata dell’uomo moderno, il grande T.S. Eliot pensasse anche a noi e alle nostre povere tornate elettorali quando definiva aprile: “il mese più crudele”. 

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Dobbiamo l’opportunità dell’incontro personale con Sid Winter e il suggerimento per il titolo di questo editoriale alla collega Anna Comacchio, professore ordinario di Organizzazione a Ca’ Foscari e membro del comitato editoriale allargato di questa rivista, la quale ha organizzato con grande competenza e passione un ottimo convegno.