Emergenza Coronavirus

13/01/2021 Fabrizio Perretti

Questione di management

In Italia, la gestione in parte fallimentare di questa fase della pandemia non dipende tanto dalla mancanza di risorse materiali o finanziarie, bensì dall’incapacità di gestirle. Si tratta, dunque, di un problema manageriale che presto interesserà anche la gestione del Recovery Plan e gli eventuali fondi del MES e sul quale la politica non potrà tirarsi indietro.

Stiamo affrontando il periodo peggiore della pandemia. Lo dicono gli esperti nei diversi campi della medicina, lo sottolineano molti esponenti politici autorevoli. Sapevamo che questo periodo sarebbe arrivato ma, come in precedenza, ci siamo trovati impreparati. Non su tutti i fronti, certamente. Per esempio, le mascherine e altri dispositivi di protezione sono adesso largamente disponibili. Ma molte cose non hanno certamente funzionato: il sistema di tracciamento basato sull’app Immuni, le lunghissime file per i tamponi, il sistema dei trasporti locali in molte regioni, eccetera. Come mai?

Le ragioni sono diverse, ma spesso non dipendono dalla mancanza di risorse materiali o finanziarie, bensì dalla non capacità di gestire tali risorse a disposizione. Già il premio Nobel Amartya Sen aveva evidenziato come le carestie spesso non dipendono dalla scarsa disponibilità di derrate alimentari, ma dal fatto che queste non riescono a raggiungere le persone che ne hanno bisogno. Nel nostro caso, non si tratta di incentivi economici, bensì di gestione e organizzazione. Si tratta cioè – e purtroppo – di una questione di management. Scrivo «purtroppo» perché questa ragione ha delle conseguenze molto più profonde dell’assenza di risorse. Il management infatti è, in fin dei conti, uno dei compiti più creativi o, come definito da Peter Drucker, «il mestiere dei mestieri, poiché è il mestiere di organizzare le capacità umane». La cattiva organizzazione significa infatti lasciare a forze diverse dalla ragione – quali l’emozione, l’aggressione, l’ignoranza o l’inerzia – la formazione della realtà. Poiché una buona gestione delle risorse permette più ampi spazi di azione, una carenza di management nella società non comporta solo spreco di risorse, ma non è nemmeno rispettosa della libertà dei cittadini.

A differenza delle imprese, in cui un nuovo amministratore delegato o una nuova squadra di manager può apportare nuove risorse, tale approccio non può essere perseguito a livello di governo, specie in una società democratica. Perché è opportuno sempre ricordare che, per quanto partecipativa, un’impresa è sostanzialmente gerarchica e autoritaria[1]. In Italia confondiamo purtroppo i due livelli e invochiamo spesso la necessità di un singolo individuo che possa da solo risolvere i problemi. Confidiamo cioè, come ai tempi del Manzoni, nell’azione della provvidenza, capace cioè di risolvere i problemi di due persone come Renzo e Lucia e di condurli infine al matrimonio, nonostante la loro ingenuità e ignoranza.

In questi giorni nel nostro Paese si continua a discutere della futura gestione del Recovery Plan (se affidarlo o meno a una task force di esperti/commissari) o se accedere ai fondi del MES. In entrambi i casi si tratta, alla luce delle considerazioni di cui sopra, di un dibattito mal posto. Non è questione di soldi. La formazione, lo sviluppo e l’impiego dell’intelligenza: questa è l’unica risorsa che conta. Non ce ne sono altre. È inutile avere risorse finanziarie se queste non vengono opportunamente organizzate e tale gestione non può essere lasciata ai tecnocrati. L’ingegnosità degli esperti serve infatti a poco se la sfida non viene affrontata dalla politica. La soluzione deve infatti venire da un risveglio politico. Una politica in grado cioè di raccogliere un capitale di fiducia e non di sfruttare il capitale d’insoddisfazione. Questo è il problema di fondo. Non è più nelle cifre, ma negli spiriti in grado di mobilitare le risorse necessarie.

Si parla del Recovery Plan come del nuovo piano Marshall per l’Europa. Sarebbe meglio paragonarlo al New Deal, quando nel 1936 il presidente Franklin D. Roosevelt, di fronte alla più grande crisi di fiducia del suo popolo, affermò che «questa generazione di americani ha un appuntamento con il destino». Oggi, la pandemia sta facendo venire tutti i nodi al pettine, per l’Europa ma soprattutto per il nostro Paese. Se non per risolverli, è arrivato comunque il momento per affrontarli. Anche noi abbiamo un appuntamento con il nostro destino. Dobbiamo capire se, nel momento stesso in cui rischiamo di perdere ogni fiducia e coraggio, siamo in grado di assumerci le nostre responsabilità per farci trovare pronti.



[1] C. Turco, The Conversational Firm, New York, Columbia University Press, 2016.

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