Emergenza Coronavirus

21/09/2020 Cecilia Attanasio Ghezzi

La grande corsa al vaccino che la Cina vuole vincere

Per limitare i danni d’immagine di questi ultimi mesi e per proporsi come guida scientifica nel nuovo ordine globale post pandemia, Pechino punta a immettere per prima sul mercato un vaccino efficace contro il coronavirus. Per farlo, ha intensificato la ricerca soprattutto in ambito militare e ha iniziato la sperimentazione umana all’interno e all’esterno dei suoi confini. L’azienda di Stato Sinovac avrebbe addirittura testato il proprio prodotto sul 90 per cento dei suoi impiegati e relativi familiari

È più di un mese che la Repubblica popolare non registra nuovi casi di Covid-19 trasmessi localmente[1]; scuole e università sono riprese e, se dimentichiamo le misure restrittive di ingresso nel Paese e il controllo digitale delle catene dei contatti[2], tutto sembra essere tornato all’epoca pre pandemia. L’economia cinese è stata la prima a tirare un sospiro di sollievo e il «Partito comunista per il popolo cinese, colpito dalla tempesta, si è dimostrato la spina dorsale più affidabile» ha dichiarato lo stesso presidente Xi Jinping quando, lo scorso 8 settembre, ha premiato gli eroi della guerra al Sars-Cov2: oltre duemila tra medici, operatori sanitari, volontari e forze dell’ordine. Come a dire: questa battaglia è vinta. 

Nella narrazione dello Stato più popoloso del mondo, l’organizzazione di massa e la prontezza di riflessi con cui ha reagito all’epidemia hanno salvato milioni di vite e dato tempo al resto del mondo per organizzarsi. Anche se non tutti sono d’accordo con questa ricostruzione[3], Pechino non ammette contraddizioni e tira dritto: dei nove vaccini già in fase di sperimentazione sugli esseri umani, quattro sono made in China[4]. L’idea è quella di riconquistare così legittimazione e soft power. Se la seconda economia mondiale dovesse arrivare a mettere sul mercato un vaccino prima degli Stati Uniti, oltre allo smacco all’amministrazione Trump, Xi Jinping potrebbe riparare completamente i danni d’immagine al suo Paese e proporlo come guida scientifica nel nuovo ordine globale post pandemia. Di fatto, l’offensiva diplomatica è già in atto. La Cina ha già promesso di far credito ai Paesi dell’America centro-meridionale affinché possano comprarsi le necessarie dosi di vaccino e ha promesso oltre 100mila dosi gratuite al Bangladesh. Alle Filippine è stata concessa la priorità di accesso all’eventuale medicinale prodotto dalla Repubblica popolare solo dopo che il loro presidente Rodrigo Duterte ha promesso in parlamento che non si sarebbe confrontato con Pechino sul Mar cinese meridionale. E i Paesi africani non smetteranno certo di ricevere gli aiuti cinesi.

L’importanza di sviluppare un vaccino che funzioni e di arrivare a farlo per primi è testimoniata dalla profusione di ricerche connesse agli ambienti militari. Uno dei primi gruppi che sono riusciti a dimostrare che alcuni prodotti potevano sviluppare una giusta risposta immunitaria, è stato quello guidato da Chen Wei, contemporaneamente uno dei maggiori generali dell’Esercito di liberazione e virologa capo dell’Istituto di bioingegneria dell’Accademia militare di scienze mediche. Il vaccino che ha sviluppato (Ad5-nCoV) è stato testato sul personale militare con il beneplacito del governo cinese. Ad ambienti militari possono essere ricondotti anche altri due tipi di vaccini che lavorano in maniera diversa allo stesso scopo ma non hanno ancora raggiunto la fase di sperimentazione sugli esseri umani[5].

E qui si pone un altro problema. Proprio perché la Cina è stato uno dei primi Paesi a domare l’epidemia, deve sperimentare l’efficacia dei vaccini all’estero. L’azienda di Stato Sinovac ha coinvolto migliaia di volontari in Brasile[6] e in Indonesia[7]; Sinopharm ha coinvolto peruviani, marocchini[8] e argentini[9]. Ma se questa è la prassi internazionale per sperimentare il farmaco su larga scala, più preoccupante è il fatto che da fine luglio hanno cominciato a vaccinare alcune categorie di persone all’interno della Repubblica popolare: operatori sanitari, funzionari, lavoratori della logistica e dei mercati generali. Sinovac avrebbe addirittura testato il proprio prodotto sul 90 per cento dei suoi impiegati e relativi familiari prima che questo avesse passato tutti i test[10]. Significherebbe aggirare standard di ricerca internazionali e mettere a rischio la vita dei propri concittadini. Senza contare che la fretta alla scienza non ha mai portato fortuna.



[2] «La difficile fase 2 della Cina», Economia & Management, 4 maggio 2020.

[3] «Coronavirus: quello che Pechino non racconta», Economia & Management, 29 gennaio 2020.

[4] «Coronavirus Vaccine Tracker», The New York Times, 18 settembre 2020.

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