E&M

2006/1

Andrea Sironi

L’annus horribilis delle banche italiane. Alcune idee per non sbagliare ancora

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Il 2005 è stato per le banche italiane, dal punto di vista economico, finanziario e patrimoniale, un anno indubbiamente positivo: la redditività è cresciuta, con un incremento del ROE medio di settore, la qualità dell’attivo è migliorata, con un’ulteriore discesa del tasso di sofferenza degli impieghi, la patrimonializzazione è elevata e ampiamente al di sopra dei requisiti minimi imposti dall’organo di vigilanza. Il mercato borsistico ha recepito questi fondamentali positivi con un aumento delle quotazioni dei titoli bancari superiore sia a quello del mercato azionario italiano nel suo complesso, sia a quello dei settori bancari degli altri principali paesi europei, con buona soddisfazione degli investitori. Tutto ciò non impedisce di qualificare il 2005 come l’annus horribilis delle banche italiane. Nel corso dell’anno che si è da poco chiuso il sistema bancario ha infatti conosciuto diversi scandali che hanno avuto per oggetto la battaglia per il controllo di Banca Antonveneta da parte del gruppo olandese ABN Amro e dell’italiana Banca Popolare Italiana (BPI) e quella relativa al controllo della Banca Nazionale del Lavoro (BNL) che ha visto coinvolti la spagnola Banco Bilbao Vizcaya (BBV) e il gruppo assicurativo Unipol. Come noto, la gestione di questi eventi ha pesantemente coinvolto l’organo di vigilanza italiano, fortemente criticato per il proprio operato che non può definirsi da arbitro indipendente dalle parti in causa. Questi eventi hanno contribuito a determinare un clima di crescente criticismo nei confronti dell’operato del sistema bancario, il quale ha indubbiamente subito un notevole danno di tipo reputazionale.

Dopo lo scandalo che ha investito la Banca d’Italia e in particolare il suo governatore nella seconda parte dell’anno, risulta tuttavia anche troppo facile, e forse anche inutile e poco costruttivo, criticare le modalità con le quali l’organo di vigilanza ha gestito i casi di cui sopra. È invece più importante e utile cercare di comprendere quali siano i problemi di fondo che hanno determinato questa crisi nazionale e soprattutto quali indicazioni si possono trarre per evitare che simili situazioni si ripetano in futuro. Nelle brevi note che seguono mi soffermerò su tre aspetti che, seppure certamente non esaustivi, considero rilevanti a questo scopo.

1. Italianità e interesse nazionale

La difesa a oltranza delle banche italiane dall’acquisizione da parte di gruppi stranieri realizzata dalla Banca d’Italia è stata sovente giustificata sulla base di una presunta difesa dell’interesse nazionale, che passerebbe attraverso l’italianità delle banche. Occorre allora domandarsi cosa significhi difendere l’interesse nazionale in un mercato globale, o quantomeno europeo, come quello che oggi caratterizza l’industria bancaria-finanziaria. È forse interesse del paese far sì che gli azionisti di una banca che ha la propria sede centrale in Italia siano anch’essi italiani? Non credo che la difesa della nazionalità della proprietà di un’impresa privata risponda all’interesse del paese medesimo. Semmai, l’interesse nazionale richiede che gli azionisti, quale che ne sia la nazionalità, siano capaci di spingere il management verso l’adozione di politiche virtuose, di lungo periodo, rivolte alla creazione di valore e, come conseguenza naturale di ciò, alla crescita. Non a caso, la crescita economica di un paese si misura ricorrendo al PIL, cioè alla ricchezza prodotta in un anno dalle imprese che operano nel territorio dello stesso paese, indipendentemente dalla nazionalità dei loro azionisti.

Occorre inoltre che gli azionisti siano in grado di sostenere finanziariamente piani di investimento e di sviluppo che, a loro volta, consentano a un’impresa di crescere e in questo modo di mantenere ed eventualmente aumentare. Occorre che essi pretendano dal management, eventualmente rimpiazzandolo se esso non si dimostrasse all’altezza, la predisposizione e la conseguente realizzazione di piani industriali efficaci, capaci di sostenere lo sviluppo e la creazione di valore, in coerenza e nel rispetto delle logiche di mercato che governano il funzionamento dell’industria bancaria in Europa. Occorre infine che gli azionisti di controllo di un’impresa che ricopre un ruolo delicato nell’ambito del sistema economico – quale è una banca – non siano portatori di interessi differenti da quelli che dovrebbe perseguire la generalità degli azionisti di un’impresa privata in un’economia di mercato, ossia la creazione di valore. In altri termini, non devono essere interessati al controllo di una banca perché convinti che tale controllo potrà consentire di influenzare le politiche di allocazione del credito della stessa banca a favore di attività industriali, commerciali o immobiliari.

È ancora interesse di un paese accrescere gli investimenti diretti dall’estero (IDE), specie quelli di carattere duraturo in capitale di rischio, come lo sono in particolare gli investimenti che gruppi stranieri effettuano con lo scopo di stabilire nuovi insediamenti produttivi o di acquisire il controllo di imprese già operanti nel territorio con l’intento di promuoverne lo sviluppo e la competitività attraverso investimenti in capitale umano e tecnologico. Tale interesse assume, nel caso dell’Italia, una particolare rilevanza alla luce del calo di competitività del nostro paese più volte segnalato da organismi internazionali indipendenti e del conseguente progressivo deterioramento delle partite correnti. Il recupero della competitività non può che passare da una crescita degli investimenti la quale, a sua volta, in un contesto di elevato indebitamento pubblico e di risparmio privato in continua diminuzione, necessita di risorse provenienti dall’estero. Ha dunque senso bloccare, sulla base di una presunta difesa degli interessi nazionali, un potenziale afflusso consistente di capitali dall’estero come quello che inevitabilmente deriva dall’acquisizione di una banca italiana da parte di un gruppo straniero?

È infine interesse di un paese far sì che la propria classe imprenditoriale, intesa come l’insieme di individui che guidano le imprese di maggiore rilevanza dal punto di vista strettamente economico, sia continuamente esposta, direttamente – mediante l’inserimento di nuovi uomini – e indirettamente – attraverso esperienze di collaborazione – ai modelli manageriali sviluppati e consolidati nelle realtà internazionali di maggiore successo.

È piuttosto agevole osservare come le argomentazioni sopra riportate conducano tutte a identificare l’acquisizione di banche italiane da parte di gruppi finanziari internazionali di successo come perfettamente coerente con la tutela dell’interesse nazionale. Tali acquisizioni consentono infatti di affidare il controllo di imprese operanti in misura prevalente nel territorio del paese a gruppi interessati a promuovere una crescita di lungo periodo coerente con la creazione di valore, la quale a sua volta presenta risvolti positivi per l’occupazione e la crescita dell’economia nazionale. Tali acquisizioni consentono inoltre di accrescere gli investimenti diretti dall’estero e al contempo di introdurre in Italia, in un settore che non brilla per efficienza operativa se confrontato con le realtà internazionali più avanzate, modelli manageriali frutto di esperienze di successo. Nulla ha a che fare con la tutela dell’interesse nazionale la difesa di una presunta italianità fondata sulla nazionalità degli azionisti di controllo, peraltro condotta con modalità poco trasparenti, con il coinvolgimento di gruppi di potere che hanno numerosi interessi in gioco, e per i quali il controllo di una banca non è necessariamente finalizzato alla creazione di valore nel lungo periodo, ma persegue interessi differenti che riguardano l’allocazione futura del credito della stessa banca.

2. Governance e assetti proprietari delle banche

Le banche italiane si sono gradualmente evolute, specie dopo l’approvazione del Testo Unico del 1993, verso un modello di impresa privata. Esse devono dunque rispondere a un obiettivo degli interessi dei diversi stakeholder dell’impresa e delle regole dettate dall’organo di vigilanza e dalle altre autorità del sistema. Questa evoluzione, coerente con il quadro regolamentare europeo, ha fatto sì che non vi sia più una prevalente funzione sociale delle banche quale quella che una volta caratterizzava le banche di interesse nazionale, gli istituti di credito speciale, le casse di risparmio e altri modelli istituzionali. Il loro operato non va dunque valutato sulla base di quanto credito concedono alle fasce deboli dell’economia o di quali tassi praticano alle imprese delle aree depresse del paese, quanto piuttosto sulla base di quanto valore hanno creato per i propri azionisti. Questa evoluzione non sembra tuttavia ancora pienamente recepita nei modelli di governance delle banche del nostro paese, dove ancora persistono due principali problemi. Il primo riguarda la sopravvivenza di meccanismi di nomina “politica” del management in alcune banche controllate da fondazioni, le quali si mostrano interessate più a esercitare un potere di controllo sulle attività della banca che non al rendimento del proprio investimento. Questo fa sì che anche il management della banca sia poco interessato alla creazione di valore per il proprio azionista, consapevole che la propria conferma o la propria remunerazione dipenderanno maggiormente da altri aspetti, quali la crescita dimensionale e il grado di influenza acquisiti.

Un secondo problema riguarda la sopravvivenza di assetti proprietari di natura cooperativa, nei quali convivono, da un lato, agevolazioni fiscali ormai poco giustificate (per esempio, nel caso delle banche di credito cooperativo), dall’altro la concreta impossibilità, grazie alla logica “una testa un voto”, di essere oggetto di acquisizioni ostili da parte di banche più efficienti. Come osservato da Guido Tabellini sul Sole 24 Ore (19 luglio 2005, “Alcune domande al comitato del credito”), a capo della cordata italiana per BNL c’è una cooperativa, Unipol.

Le cooperative beneficiano di agevolazioni fiscali nel presupposto che i loro utili vengano utilizzati per scopi solidali coerenti con gli obiettivi statutari della cooperativa. È forse coerente con questi obiettivi la scalata di una banca come BNL? Si pone peraltro il problema della contendibilità a senso unico. È giusto che le società cooperative e le banche popolari che, anche se quotate, non sono scalabili, possano andare alla conquista e scalare società che sono invece aperte al mercato?

Il fatto che il management di alcune banche italiane sia ancora scarsamente orientato alla creazione di valore per i propri azionisti è indirettamente osservabile anche dai risultati relativi alle operazioni di concentrazione realizzate nel corso degli ultimi anni nel nostro paese.

L’evidenza empirica relativa alle operazioni di acquisizione condotte nel recente passato dalle banche italiane mostra infatti che nella maggioranza dei casi tali operazioni non rispondevano a obiettivi di creazione di valore ma piuttosto a obiettivi propri del management, di crescita dimensionale e accrescimento di potere, o ancora a obiettivi di natura finanziaria. Una recente ricerca condotta da Lucia Galbiati e Andrea Resti per conto del centro Finmonitor sulla base dei dati relativi alle operazioni di fusione e acquisizione del controllo intervenute negli Stati Uniti, in Italia e in altri dodici paesi europei a partire dal 1991 fino ai primi mesi del 2003 (“Competitività e M&A: le aggregazioni bancarie creano valore? Il punto di vista del mercato”, in Bracchi G., Masciandaro D., a cura di, La competitività dell’industria bancaria – Intermediari e regole nel mercato italiano ed europeo, Edibank, 2004) mostra come, mentre nei restanti paesi europei le banche acquirenti di altre banche hanno evidenziato rendimenti azionari dei propri titoli immediatamente successivi all’annuncio delle operazioni solo debolmente negativi, e destinati a essere pressoché totalmente riassorbiti con il passare dei giorni, in Italia il mercato abbia di fatto punito le banche acquirenti con rendimenti negativi e persistenti. Gli autori della ricerca scrivono: “A tale risultato possono aver concorso almeno due fattori. Da un lato, i prezzi mediamente più elevati pagati dalle bidder italiane per garantirsi il controllo delle acquisite in un mercato degli assetti proprietari non particolarmente trasparente ed efficiente. Dall’altro, una scarsa capacità di chiarire e comunicare al mercato le ricadute industriali di operazioni che, in diversi casi, sono apparse motivate più da finalità finanziarie e ‘difensive’ che da una reale volontà di creare valore”.

3. Banca d’Italia: un problema di management

Il dibattito che nel nostro paese ha preceduto e seguito le dimissioni del governatore della Banca d’Italia si è concentrato su alcuni aspetti particolarmente rilevanti: la perdita di credibilità e di reputazione della nostra banca centrale, l’importanza di ristabilire al più presto un sistema di regole chiare e oggettive a tutela del mercato e dei risparmiatori, rispetto alle quali l’organo di vigilanza si limiti a verificare il rispetto senza schierarsi da una parte o dall’altra del mercato, la separazione tra funzione di vigilanza e funzione di tutela della concorrenza. Su questi aspetti vi è un ampio consenso circa la dimensione particolarmente rilevante del danno reputazionale causato dall’ex governatore, così come sulla opportunità di separare le due funzioni di vigilanza, da un lato, rivolta prioritariamente alla tutela della stabilità del sistema bancario e dunque della solvibilità e liquidità delle singole istituzioni, e di antitrust, dall’altro, rivolta a favorire lo sviluppo di adeguate condizioni di concorrenza nel mercato bancario e dunque a combattere eventuali meccanismi collusivi degli intermediari. D’altronde, il fatto che la Banca d’Italia non avesse nel proprio DNA il perseguimento di questo secondo obiettivo si poteva anche rilevare dalle numerose occasioni nelle quali il governatore si compiaceva dell’aumento della redditività del capitale delle banche. È evidente che un simile fenomeno, per quanto positivo sul fronte della stabilità del sistema, dovrebbe semplicemente suscitare la preoccupazione di un’autorità che vigila sulla concorrenza.

Nessuna attenzione è stata invece dedicata dal dibattito nazionale a un aspetto altrettanto rilevante: la gestione interna di un’organizzazione complessa composta da migliaia di dipendenti. Da questo punto di vista, due semplici considerazioni possono essere utili per comprendere la portata dei problemi dei quali il nuovo governatore dovrà farsi carico.

a. Se alla fine degli anni ottanta la Banca d’Italia era un’istituzione all’avanguardia dal punto di vista dell’Information Technology, oggi essa si trova in posizione di arretratezza rispetto alle altre istituzioni. Un dato per tutti: i funzionari della banca non hanno accesso diretto a Internet, nel senso che non sono dotati di una propria postazione autonoma come quella di cui dispone qualunque impiegato di un’impresa privata.

b. Nel corso degli ultimi anni il governatore, invece di introdurre meccanismi di incentivazione delle risorse umane più meritevoli fondati su passaggi di carriera più rapidi e premi, ha, da un lato, trattenuto oltre i limiti di età previsti dalle regole interne alcuni dirigenti più anziani e, dall’altro, rallentato i percorsi di carriera dei più giovani (allungando i tempi tra uno “scatto” e l’altro e facendo sì che nessun dipendente, nemmeno il più brillante, potesse crescere di due livelli nel corso di un singolo anno).

Questi segnali di totale disattenzione nei confronti di aspetti che qualunque manager che si rispetti considera come prioritari – specie in contesti nei quali il capitale umano rappresenta un fattore cruciale e la capacità di attirare e trattenere risorse brillanti (i cosiddetti talenti) determina la possibilità di conseguire i propri obiettivi istituzionali – hanno fatto sì che negli ultimi anni la Banca d’Italia abbia sofferto un’emorragia di risorse umane giovani, professionali e capaci di trovare impiego alternativo in società di consulenza, banche d’affari e altri contesti altamente competitivi.

In generale, la Banca d’Italia si trova oggi a competere, sul fronte delle risorse umane, con istituzioni capaci di offrire condizioni remunerative, meccanismi di carriera e un ambiente professionale particolarmente attrattivi per giovani dotati della preparazione e delle capacità di cui essa necessita. Si impone dunque una politica delle risorse completamente diversa da quella seguita finora, fatta di reclutamento sul mercato internazionale a tutti i livelli di seniority, di strutture remunerative flessibili capaci di accogliere le aspettative dei giovani più brillanti e capaci, di meccanismi di carriera differenziati e non fondati sull’anzianità, di riconoscimenti che vanno anche al di là dell’aspetto puramente monetario.

Da questo punto di vista, occorre recuperare e rinvigorire quei valori di orgoglio, decoro e prestigio che per anni in passato hanno consentito a un’istituzione come la Banca d’Italia di attrarre e trattenere risorse umane brillanti e capaci anche in condizioni di remunerazione e carriera inferiori a quelle che potrebbero essere ottenute dalle medesime persone nel settore privato. La stima e la fiducia di cui ha beneficiato Greenspan alla Federal Reserve non sono derivate esclusivamente dalla sua capacità di adottare scelte corrette di politica monetaria o di vigilanza, ma anche dalla sua capacità di motivare e incentivare adeguatamente risorse umane brillanti e capaci. Questo obiettivo è peraltro stato conseguito non solo con politiche di reclutamento e di natura remunerativa, ma anche facendo sentire i collaboratori della FED come parte di un’azione comune rivolta a incidere sulla politica economica degli Stati Uniti e a migliorare il benessere e la stabilità del loro paese (in proposito, basti pensare alle audizioni parlamentari in cui Greenspan richiamava, a supporto delle proprie opinioni e decisioni, i lavori e gli studi prodotti dai suoi colleghi della Federal Reserve).

Nel corso degli ultimi vent’anni il sistema bancario italiano si è lentamente evoluto da settore chiuso e caratterizzato dalla presenza di istituzioni cui era attribuita una prioritaria funzione sociale verso un modello di settore aperto, caratterizzato dalla presenza di imprese in concorrenza fra loro con un obiettivo di creazione di ricchezza per i propri azionisti. Parallelamente, la regolamentazione bancaria si è evoluta, almeno nel disegno normativo, verso un modello di vigilanza prudenziale nel quale l’organo di controllo esercita una funzione di arbitro che assicura il rispetto di regole oggettive uguali per tutti. L’annus horribilis appena concluso ha mostrato con chiarezza come questo percorso evolutivo, fatto anche di una crescente iniezione di managerialità sia presso l’organo di controllo sia presso le istituzioni controllate, debba ancora trovare pieno completamento.