E&M

2000/6

Dancer in the Dark

Regia: Lars von Trier

Interpreti: Bjork, Peter Stormare, Catherine Deneuve

Danimarca/Svezia, 2000

 

Il lavoro in fabbrica come un numero da musical alla Bob Fosse. I gesti di alcuni operai su un treno che passa in aperta campagna come un ballo collettivo nello stile di Sette spose per sette fratelli. Il lavoro di giudici e magistrati durante un processo trasformato in una esibizione di tip tap. Come dire: lavorar danzando. O far del ballo e della danza un linguaggio “ altro” con cui esprimere i gesti e le azioni del lavoro.

È quanto propone il regista danese Lars von Trier – già autore, qualche anno fa, di un discusso manifesto estetico denominato “ Dogma” – nel suo ultimo film Dancer in the Dark, premiato con la Palma d’Oro lo scorso maggio a Cannes. Ambientato in una falsa America anni cinquanta (falsa, se non altro, perché tutte le riprese sono state effettuate in Svezia e in Danimarca), Dancer in the Dark narra la storia tipicamente mélo di un’operaia di origine ceca emigrata negli Usa che – mentre rischia di perdere la vista a causa di una malattia congenita – si sfianca di lavoro giorno e notte e le prova tutte pur di racimolare il denaro necessario a un’operazione oculistica che eviti almeno a suo figlio il trauma della cecità, cui anche il ragazzo pare condannato. Sul piano estetico il film ha momenti di grande intensità e sequenze capaci di sorprendere e di commuovere lo spettatore, ma sul piano sociologico pone qualche interrogativo sul modo in cui il cinema continua a rappresentare il mondo del lavoro, e sulle griglie concettuali cui si ostina a far ricorso per mettere in mostra l’organizzazione aziendale. Come emerge da questo dialogo fra Severino Salvemini e Gianni Canova.

 

G.C. Quello che ancora una volta mi stupisce è che lo spettacolo non sappia o non voglia declinare il binomio cinema-lavoro che secondo il modello di organizzazione fordista. Come mai? Cosa impedisce ai cineasti di fare i conti con i mutamenti intervenuti negli anni più recenti, e di metterli in scena? Forse che solo il lavoro fordista è filmabile e rappresentabile, mentre i modelli postfordisti si collocano ancora nella sfera dell’irrappresentabilità?

 

S.S. Probabilmente la questione è mal posta. Non dimentichiamo che Lars von Trier sceglie di ambientare la sua storia negli anni cinquanta e quindi è storicamente portato a confrontarsi con quel modello di organizzazione. Se non altro per ragioni di verosimiglianza, Ecco allora la scelta della fabbrica delle vasche di alluminio, che si muove e produce al ritmo delle presse ...

 

G.C. Certo. Ma, appunto, Lars von Trier sceglie: avrebbe potuto raccontare la stessa storia anche ambientandola negli anni novanta, e nulla sarebbe cambiato dal punto di vista drammaturgico. Ma in questo caso avrebbe avuto di fronte un’organizzazione del lavoro molto diversa. Forse, un’organizzazione che lasciava meno spazio alla possibilità di compensare la monotonia delle prestazioni lavorative con le fantasticherie ad occhi aperti in chiave di musical.

 

S.S. Direi che da questo punto di vista Dancer in the Dark descrive in modo emblematico il meccanismo classico dell’alienazione. Anzi: la celebra come opportunità di riscatto. Il personaggio dell’operaia interpretata da Bjork, proprio mentre è intenta a svolgere i compiti più operativi alla pressa, pian piano si distrae, comincia a fantasticare e scivola a poco a poco nella dimensione del musical. attraverso il quale riscrive – migliorandolo – l’universo quotidiano in cui agisce e lavora. È la teatralizzazione coreografata di un processo psichico abbastanza noto e diffuso…

 

G.C. … e Lars von Trier lo legge, mi pare, in modo assolutamente positivo, come se fosse il necessario riequilibrio compensativo, sul piano dell’immaginario, di quell’ etica del sacrificio cui il personaggio impronta tutta la sua esistenza.

 

S.S. Senz’altro. Per di più, è interessante notare che lo scenario da anni cinquanta riguarda non solo la parcellizzazione del lavoro in fabbrica (tante macchine disperse nello stabilimento, ogni macchina agìta da una sola persona), ma anche l’economia domestica della protagonista. Il personaggio di Bjork lavora il più possibile, incassa la paga e nasconde le banconote in una scatolina di latta. Risparmia tutto, non spende e non investe nulla. Siamo davvero ancora ali’ economia del materasso ...

 

G.C. Che differenze e che analogie si possono rilevare rispetto al modello di organizzazione del lavoro rappresentato da Charlie Chaplin in Tempi moderni?

 

S.S. Anche quello di Charlot è un mondo fatto di macchine, rotelle e ingranaggi. Anche lì il rumore della fabbrica ha una sorta di intrinseca musicalità, un suo ritmo. Anche Charlot sogna, e quando lo fa la musica di un carillon segna e sottolinea lo scarto rispetto alla realtà. Ma è una musica “ altra” rispetto alla sonorità dell’ambiente di lavoro. E poi in Tempi moderni la macchina finisce per inghiottire il lavoratore, mentre in Dancer in the Dark il clangore delle presse equivale al ritmo del charleston scandito dalla batteria. Forse, addirittura, lo genera. Lo evoca, lo mette in movimento.

 

G.C. C’è poi una diversità evidente nel tipo di rapporto che nei due film si instaura tra i lavoratori...

 

S.S. Sì, il film di Lars von Trier sottolinea soprattutto la solidarietà. Ha bisogno di farlo, per dare coerenza a quel mondo. Quando il caporeparto modifica il compito della protagonista e le aumenta il ritmo rendendo il suo lavoro più difficile, più tayloristico, l’amica interpretata da Catherine Deneuve interviene subito in sua difesa. Come per proteggerla, per aiutarla. È un tipico atteggiamento di difesa del gruppo attraverso la tutela dei singoli membri clle lo compongono.

 

G.C. Torniamo al punto di partenza. In uno scenario di tipo postfordista sarebbe possibile ipotizzare e rappresentare un rapporto analogo a quello raccontato da Lars von Trier fra la realtà del lavoro e la sua spettacolarizzazione immaginaria?

 

S.S. Credo di no. Nel modello di organizzazione fordista la realtà industriale e il mondo dello spettacolo rappresentano due poli antitetici. Complementari, forse, ma antipodali. Per questo è possibile immaginare di sfuggire al primo attraverso le chances offerte dal secondo. Nello scenario postfordista, invece, il rapporto tra i due poli non è più di contrapposizione ma, caso mai, di coabitazione.

 

G.C. Sono d’accordo. Se sei nel tuo ufficio davanti al computer e ti stufi di fare quel che stai facendo puoi interrompere, farti un giochino e ricominciare. Non hai più bisogno di sognare di essere in un musical per “ evadere” o per “ compensare” . Basta che scarichi da Internet la tua compilation. Ma per farlo non c’è bisogno del cinema. E forse è per questo che il cinema preferisce – non senza nostalgia – rifugiarsi nel passato. E continuare a raccontare un modello di organizzazione del lavoro che non esiste più.