E&M

1997/3

Gianni Canova

Pop corn e haute cuisine: metafore della qualità

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The Big Night

Regia: Stanley Tucci e Campbell Scott

Int.: Stanley Tucci, Tony Shalhoub e Isabella Rossellini

Usa, 1997

Jerry Maguire

Regia: Cameron Crowe

Int.: Tom Cruise e Cuba Gooding jr.

Usa, 1996

Cosa si mangia in Paradiso? Difficile dirlo: se esistessero e se parlassero, forse, bisognerebbe chiederlo agli angeli. Se però il “Paradiso” è un ristorante italiano gestito da due fratelli abruzzesi emigrati in una cittadina di mare del New Jersey degli anni ’50 la risposta è relativamente più facile. Il menu offre deliziosi timballi e risotti dai sapori da brivido, ma gli scarsi clienti della middle class locale esigono polpette con contorno di spaghetti e una cucina più rispettosa del folklore. Un ristorante italiano senza pizza e “maccaroni”? Per il senso comune del luogo è quasi una bestemmia: tanto che il “Paradise” gestito da Primo e Secondo versa in pessime acque, mentre il locale di fronte – che non bada alla qualità e offre ai clienti le nefandezze che chiedono – fa affari d’oro.

Diretto con mano delicata e discreta da due registi indipendenti come Stanley Tucci e Campbell Scott, The Big Night tematizza con affabile gentilezza di tocco uno dei nodi cruciali dell’ economia contemporanea: come conciliare qualità e redditività. Ovvero: come far apprezzare la novità in un mercato conservatore e poco disponibile a sperimentare }’innovazione. Questione di marketing? Non proprio, non solo. I due tenaci fratelli gastronomi esplorano anche questa via e per rilanciare l’immagine del loro locale in crisi tentano il gran colpo pubblicitario organizzando un sontuoso banchetto (“The Big Night”, appunto) a cui invitano anche un celebre cantante italo-americano che dovrebbe attirare giornalisti e curiosi. Le portate, degne di quelle di Il pranzo di Babette o di L’età dell’innocenza, conquistano gli ignari commensali: i quali scoprono il piacere del convivio, si convertono alla religione del cibo e assaporano pietanze degne del palato di Dio. Ma la star tanto attesa non arriva, gli ospiti sono meno del previsto, i giornali non parleranno del Paradise e ai due sfortunati fratelli non resta che consolarsi – al termine di una lunga notte fatta di attese e speranze, di delusioni e sussulti – mangiando assieme una delle loro deliziose frittate. Tanta fatica per nulla? Chissà. Quel che è certo è che il tono amarognolo su cui si chiude il film non lascia spazio a particolari ottimismi. La qualità – sembra suggerire l’epilogo della favola – da sola non basta: nella società dello spettacolo e della comunicazione aggressiva o ti adegui o rischi di scomparire.

Anche Jerry Maguire, protagonista dell’ omonimo film di Cameron Crowe candidato a numerosi premi Oscar, sembra sulle prime pensarla così. Procuratore sportivo con clienti miliardari, cinico e arrivista, riceve una media di 260 telefonate al giorno, pianifica carriere e fortune, sposta milioni di dollari come se fossero noccioline e condensa la sua filosofia di vita in una “massima” che suona più o meno così: “Di geni se ne trovano, ma finché non diventano professionisti sono come pop corn in una pentola. Alcuni scoppiano, altri no”.

Jerry Maguire è l’“esperto” che fa scoppiare i pop corn che si affidano a lui. Sicuro, brillante, aggressivo. Lucido e determinato. Mai un dubbio, mai un’esitazione. Finché. Finché anche lui non si pone – come i fratelli di The Big Night – il problema della qualità. Della vita, dei l’apporti, del lavoro, del prodotto. All’improvviso, guardandosi allo specchio, si sente uno squalo, entra in crisi e – come travolto da un’improvvisa illuminazione – scrive un rapporto autocritico sulla necessità di adottare un altro stile di vita e di lavoro. Meno clienti, magari anche meno soldi, ma più attenzione. Più cura. Più gratificazioni umane. I colleghi, dopo aver letto la sua relazione, in apparenza lo applaudono, ma in cuor loro già lo considerano finito. Estraneo alla loro logica. Potenzialmente “perdente”. E infatti, nel giro di pochi giorni, Jerry perde tutto quel che aveva: l’agenzia lo licenzia, la fidanzata yuppie lo molla, i clienti lo abbandonano. Sembra un disastro, e in parte lo è. Ma con l’unico cliente che gli resta fedele (un giocatore nero di football americano, dal carattere difficile e imprevedibile, ma capace di insegnargli il valore dell’ amicizia e della lealtà) Jerry ritrova il gusto di ricominciare daccapo. Di risalire la china. E di trovare nel lavoro una soddisfazione non solo monetaria. Di nuovo la separazione tra “interessi” e “valori”? Non proprio, anche in questo caso: Jerry e il suo campione non rinunciano agli interessi, solo che cercano un altro modo di prendersene cura. E riescono nel loro intento, vendicandosi di coloro che li avevano liquidati come idèalisti destinati alla sconfitta. La favoletta, questa volta, ha un dolce sapore di ottimismo consolatorio alla Frank Capra, ma è indizio – se non altro – di un flusso emotivo che ricomincia ad affacciarsi nell’immaginario collettivo. Difficile dire quanto questo flusso sia riscontrabile anche nella concreta realtà operativa delle aziende e delle professioni: quel che è certo è che il pubblico del cinema, dopo aver partecipato al banchetto dei fratelli di The Big Night o dopo aver assistito alla parabola “fall and rise” di Jerry Maguire, non può non essere più sensibile di fronte all’ esigenza di una prassi professionale più legata a un solido sistema di riferimento che contempli anche la coerenza con princìpi e valori.

Può anche essere che il pubblico di massa si lasci sedurre da un “messaggio” di questo tipo solo per ripulirsi la coscienza e poi continuare ad agire come prima, ma non è questo che conta. Quel che importa è che il cinema – sempre attento a captare l’aria che tira e in un certo senso a preconizzarla – torna a tematizzare la dimensione qualitativa del lavoro e del prodotto con un approccio non esclusivamente contabile-finanziario, impensabile anche solo tre o quattro anni fa.

Che ci piaccia o no, è un indizio da non buttar via.