E&M

2002/5

Tarasso Tarasso

E dire che io ho solo il mutuo!

Insomma, e io come facevo a saperlo che le cose stavano così? A gennaio, il mio fornaio, Osvaldo, mi dice: “Mi sto quotando in borsa, ricorda: la panetteria è il business del futuro!”. La proposta, lì per lì, mi intriga. In effetti, l’Osvaldo stava lavorando bene. Partito avendo ereditato il forno del padre, l’aveva modernizzato con alcune sapienti intuizioni. Tanto per dire, a metà anni ottanta aveva introdotto il kan-ban (praticamente, funzionava così: se il cliente ordinava michette lui gli dava michette e non, per dire, francesine: il cliente, soddisfatto, tornava) e i circoli di qualità (alle due del mattino, cioè rigorosamente fuori orario di lavoro e su base volontaria, tutti i panettieri si trovavano nella sala dei forni e discutevano degli errori di lievitazione e dei tempi di cottura. La cosa è durata fin quando l’Osvaldo non ha trovato una testa di cavallo e una foto di Marlon Brando dentro una baguette. Lì ha capito che non c’era più il giusto grado di commitment per l’iniziativa). Con gli anni novanta e la fine dello yuppismo, l’Osvaldo era passato all’organizzazione snella con l’eliminazione di livelli intermedi (eliminato l’addetto alla farina, funzione attribuita direttamente al fornaio; eliminato l’addetto al lievito, funzione attribuita direttamente al fornaio; eliminato l’addetto al bancone, funzione attribuita direttamente al fornaio; e, infine, eliminato il ruolo di fornaio, sostituito da un’impasta & inforna automatica a controllo numerico – un panino, un bollino – curda); e l’introduzione di un sistema informativo SAP (acronimo che, secondo la moglie, stava a significare: Stanno Arrivando i Pirla. E questo senza nemmeno sapere cosa fosse un acronimo). Passando attraverso l’outsourcing (l’idea era venuta alla moglie che – sulle prime si era limitata ad affidare la gestione del figlio a una tata ucraina) e il branding (anche se, non sapendo come si faceva, si era limitato ad aggiungere del Remy Martin al pane pugliese) era giunto a trasformare i suoi clienti in prosumer stile IKEA (praticamente, quelli si prendevano gli ingredienti in magazzino, se li portavano a casa e con il set del pane alle olive ci veniva fuori da una frisella a una libreria, a seconda dei giorni). Ma adesso questo salto in borsa? “Siamo a una svolta cruciale nel processo di convergenza tra new e old business” mi fa l’Osvaldo. “Tu qui, per esempio, cosa ci vedi?” mi dice, indicando il negozio. “Vedo una panetteria” rispondo io, ingenuamente. “Sbagliato” fa lui “ma non ti devi preoccupare: è un errore che fanno tutti, perché non sono abbastanza visionari. Questa non è una panetteria: è il nodo di un network. Limitarsi a vederlo come una panetteria è riduttivo. La gente viene e compra il pane, poi va al videonoleggio e prende una cassetta, poi torna a casa e fa una telefonata. Ma, in realtà, sulla linea telefonica io posso far passare bits che, ad esempio, sono immagini, quindi un film. Questo è il punto: il business del futuro sta nella capacità di integrare i bisogni del cliente. Potrebbe venire qui e comperare il pane e un DVD, oppure ordinare il pane per telefono mentre scarica un film. Ma nel mio progetto, il cliente telefonerà da qui per ordinare il pane mentre guarda un film. Hai capito dove voglio arrivare?” Mi ha convinto. “Per questo devo andare in borsa.” Mi ha convinto. Certo, da qui all’OPA su Telecom e all’acquisizione di Vivendi International il passo forse è stato un po’ lunghetto, ma le vie dell’integrazione sono infinite. E certo, avrei dovuto capire che l’accordo con la multisala Warner di Pioltello poteva essere un po’ azzardato (“Ma non capisci proprio niente!!! Loro mi vendono il pane – un biglietto, una baguette; due biglietti, tre francesine; un biglietto famiglia, un cesto natalizio anche a ferragosto: così faccio service management e intanto svuoto il magazzino degli zamponi dell’anno prima che fanno pena, poverini, con tutto che ormai sono talmente avanti di stagionatura che mi vanno in giro tra i sacchi di farina facendo danni; e io gli faccio il pane con le pellicole che non usano più”). E quello con l’ENI per usare i fattorini della consegna a domicilio per portare anche le fatture del gas (“Ciccio, se non hai capito gli spazi di integrazione con il business dell’energia, sei al mesozoico!”)? Insomma, prima o poi i nodi vengono al pettine: adesso io ci ho messo decine di migliaia di euro e il titolo sta andando a picco.

All’improvviso! Un giorno mi sono alzato e ho visto il faccione in lacrime dell’Osvaldo al telegiornale: di fianco due brigadieri della finanza e il giornalista che lo incalzava. Una brutta storia di falso in bilancio. Insomma, pare che avesse tirato su un po’ gli utili con una serie di operazioni, diciamo, al limite. Di alcune si sa, di altre forse sapremo in futuro. Per esempio, è venuto fuori che per gonfiare i risultati avesse messo in pista un giro con un altro panettiere: lui vendeva il pane a lui e l’altro glielo rivendeva indietro, col risultato che il fatturato di entrambi migliorava. Anzi, già che c’erano nemmeno si spostavano il pane l’uno dall’altro: uno faceva l’ordine di pane e poi concedeva il diritto di vendita direttamente all’altro. Poi è venuto fuori che a bilancio faceva passare gli acquisti di farina per investimenti ammortizzabili su cinque anni (“Se la finanza non capisce che comperare la farina quando costa poco è un investimento, io cosa ci posso fare?”), limando sui costi. E ancora, è venuto fuori che l’Osvaldo aveva fatto un accordo per fornire per i prossimi trent’anni un chilo di pane ai peperoni (il suo mitico panpep) alla signora Micheloni. E questo, in sé, alla finanza poteva anche stare bene, se non che: a. la signora Micheloni aveva 89 anni al momento della firma; b. la signora Micheloni porta una dentiera “panpep non compatibile”, secondo le recenti deliberazioni della corte europea sul rapporto tra pane e protesi (“Questi qui devono dire la loro proprio su tutto, mi commentava l’Osvaldo prima di entrare in politica. Ci manca che per pulirmi dopo che l’ho fatta mi costringano per legge a usare carta di giornale a doppio velo a bassa emissione entro il 2005. Con tutte le Gazzette che ho messo da parte per lo scopo!”); c. la signora Micheloni è allergica al peperone: quando lo mangia si riempie di bubbole rosse e si dimentica di dichiarare la pensione del marito nel suo modello Unico (ma quando sta male davvero le capita anche di non pagare l’ICI); d. l’Osvaldo aveva messo sul bilancio un costo per panino che neanche se gli togli i peperoni, la farina, il lievito e persino l’acqua ci riesci a stare dentro ma, nello stesso tempo, aveva messo a bilancio tutti i ricavi derivanti dall’accordo. E alla fine si è scoperto che il suo commercialista era lo stesso di Cesare Previti. Quando la finanza ha messo insieme i pezzi, non c’è stato niente da fare. Ma l’Osvaldo non si è ancora arreso: mi ha detto la signora Micheloni che sta per fondare un partito: tanto, a furia di fare il panettiere, unto è certamente unto; e quanto alla benedizione del Signore, si sa che per Dio siamo tutti uguali: non vorrà mica fare un’eccezione proprio per l’Osvaldo. Intanto, io non ho più i soldi per pagare il mutuo, ma prima o poi tornerà il toro e, allora, almeno quattro euretti per il tinello riesco a farli saltare fuori.[1]

P.S. Una storia inventata? Certo, mai dimenticarsi che in Italia il falso in bilancio non è un reato.

1

Per chi volesse approfondire il tema della corruzione, mi permetto di segnalare uno splendido articolo dell’economista Paul Krugman uscito sul N.Y.T. il 28 giugno 2002 e su Corriere Soldi della stessa settimana. Non riuscite a trovarlo? Ottimo, andate a questo sito: http://www.pkarchive.org/, cercate sotto “Columns”. L’articolo si intitola “Flavors of fraud”.  A presto.