E&M

2002/3

Gianni Canova Severino Salvemini

Il lavoro dei mostri

Monsters & Co., prodotto da John Lasseter, prova a rappresentare con la tecnica dell’animazione digitale un modello di organizzazione produttiva: una fabbrica dove si lavora secondo i classici canoni fordisti, ma per produrre qualcosa di assolutamente immateriale.

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Esiste un mondo parallelo al nostro, abitato da Mostri. L’abbiamo creduto tutti, da bambini. Tutti abbiamo pensato che di notte la porta dell’armadio della nostra cameretta potesse aprirsi all’improvviso per lasciar entrare le creature spaventose che temevamo abitassero al di là, oltre la soglia protettiva del nostro nido domestico e familiare. Monsters & Co.[1], quarto film in immagini di sintesi realizzato dalla Pixar di John Lasseter dopo Toy Story 1 e 2 e Bug’s Life, visualizza ora questo incubo infantile. Ma lo fa rovesciando l’assunto di partenza. Oltre la porta, nell’universo parallelo di Mostropolis, c’è una fauna di creature bizzarre e grottesche che spaventa i bambini non per gratuito gusto sadico, ma perché le urla e i gridolini di paura forniscono l’energia di cui il mondo dei mostri ha bisogno per vivere. Detto in altri termini: i mostri sono operai dello spavento. Gommosi o pelosi, lavorano per la Monsters Inc., timbrano il cartellino, discutono di questioni sindacali, temono che i bambini siano tossici e lamentano le crescenti difficoltà di spaventare un’infanzia sempre più smaliziata e sempre meno disposta a lasciarsi atterrire o suggestionare da un babau qualunque. Con questo film, la tecnologia dell’animazione digitale accetta la sfida di provare a rappresentare il mondo del lavoro e le problematiche relative all’organizzazione aziendale. Con quali risultati? Ne discutono, come al solito, Gianni Canova e Severino Salvemini.

G.C. Nella storia del cinema d’animazione il tema del lavoro e dell’organizzazione è sempre stato poco rappresentato. Per ovvi motivi, dato il pubblico prevalentemente infantile cui si rivolge questo tipo di produzione. E tuttavia, proprio per questo Monsters & Co. assume un’importanza ancor più significativa.

S.S. Per la verità, io ricordo con un certo interesse l’episodio del ballo delle scope in Fantasia di Walt Disney.

G.C. Certo. Si intitolava L’apprendista stregone. Topolino, svogliato assistente di un mago, utilizzava i propri poteri magici per costringere alcune scope a lavorare al suo posto, al ritmo dello Scherzo sinfonico di Paul Dukas.

S.S. … e i movimenti delle scope, la loro disposizione nello spazio, il coordinamento con cui scendevano le scale e si avvicinavano al secchio erano una perfetta illustrazione del modello tayloristico: un vero esempio di divisione del lavoro, oltre che di un’organizzazione produttiva in cui tutti i soggetti coinvolti svolgono una mansione parziale che si inserisce alla perfezione nel ciclo globale.

G.C. Per certi versi, anche la fabbrica di Monsters & Co. rinvia ancora allo stesso modello. Ma forse, davvero, solo per certi versi…

S.S. Indubbiamente la Monsters Inc. rappresentata nel film è una fabbrica fordista. Lo si vede benissimo nella struttura architettonica del luogo fisico in cui si svolge la produzione: grandi spazi occupati da singole postazioni di lavoro, ognuna delle quali è contraddistinta da un forte rapporto uomomacchina. La meccanizzazione è accentuata, non ci sono uffici, il fatturato non è calcolato in euro o in dollari ma in “ammontare di spavento” raccolto in apposite unità di misura che sembrano bombole del gas…

G.C. Appunto. E proprio qui sta forse l’elemento di maggior “modernità” del film: i mostri-operai di Monsters & Co. devono produrre spavento. Una tipica produzione immateriale. Per farlo, devono oltrepassare la soglia che li separa dal mondo “reale”, irrompere nelle camerette dei bambini, terrificarli, spingerli a urlare e raccogliere quindi le loro urla come forma di approvvigionamento energetico indispensabile al funzionamento del loro mondo. Come dire: non producono per vendere, piuttosto esercitano una performatività paraspettacolare che mira a tesaurizzare le reazioni emotive e “affettive” del loro target elettivo. Si nutrono di ciò che riescono a produrre non nella fabbrica “fordista” ma al di là di essa. Cioè nel mondo di chi, come i bambini, consuma le loro performance. Detto in altri termini, e forzando appena appena l’assunto del film: oggi quel che conta è produrre consumatori che stiano al tuo gioco. Perché è da loro, e solo da loro, che puoi trarre l’energia necessaria a garantirti la sopravvivenza.

S.S. È un’analisi suggestiva, che trova conferma, per esempio, nel fatto che il vero problema con cui i mostri si scontrano è la scarsa disponibilità di bambini ancora disposti a credere alle loro performance. Cioè di utenti disponibili a consumarle. Per prima cosa, devono crearsi o trovare un mercato. Devono entrare nella “cameretta” giusta. Ciò non toglie, comunque, che la loro organizzazione interna assomigli molto a quella di una vecchia fabbrica manifatturiera: lavorano a cottimo e hanno incentivi sul rendimento, con tanto di tabellone che aggiorna in tempo reale la loro produttività, misurandola però su parametri puramente quantitativi. Non viene premiata la qualità del loro lavoro, ma la quantità di urla infantili raccolte. Un po’ come quando in un’azienda tessile si incentivava a rendimento il dipendente in base ai metri di tessuto prodotto. Per di più, l’azienda ha una struttura esplicitamente gerarchica, autoritaria e verticale. Ci sono i capireparto, c’è l’orario fisso, tutti arrivano al lavoro assieme e smettono quando suona il campanello.

G.C. È singolare pensare a quanto questa immagine strida con quella che contraddistingue invece la Pixar, società produttrice del film. Fondata sedici anni fa da John Lasseter, che si staccò dalla Lucas Film e scelse una sede autonoma in una ex fabbrica della zona di Bay Area, nei pressi di San Francisco, la Pixar ancora dieci anni fa era una realtà produttiva molto piccola. Oggi occupa seicento dipendenti, può vantare un pedigree con ben tredici Oscar e ha fama di azienda aperta e spregiudicata soprattutto per il modello organizzativo adottato: i vari collaboratori si muovono in monopattino per spostarsi da un ufficio all’altro, ostentano mancanza di obblighi gerarchici e professano uno stile collaborativo basato sulla condivisione degli obiettivi… Forse, con questo film, quelli della Pixar hanno voluto ironizzare anche sul modello produttivo che si sono lasciati alle spalle. Quel modello che caratterizza ancora alcuni studios della concorrenza…

S.S. È verosimile. Del resto, anche nel finale di Monsters & Co. si lascia intendere che la condivisione dell’obiettivo è il modo migliore per incrementare la produttività e per migliorare la competitività. Lo si vede molto bene quando Mike e Sullivan, i due mostriciattoli protagonisti, a diretto contatto con una bambina che è penetrata nel loro mondo, scoprono che possono raggiungere il loro obiettivo produttivo anche scatenando risate e non solo urla di spavento…

G.C. È una delle trovate più belle del film. Assieme a quella del magazzino automatizzato in cui vengono stoccate le porte che servono come soglie d’accesso al mondo dei “consumatori”.

S.S. Assolutamente. Quella sequenza mi ha fatto tornare alla mente il magazzino Benetton di Treviso. Benetton era famoso per aver inventato un magazzino di scorte interamente automatizzato: se nel negozio Benetton di Alberobello si vendeva, poniamo, un maglioncino color arancione, il magazzino centrale smistava immediatamente un nuovo maglioncino analogo verso il negozio locale che l’aveva venduto e nel contempo ne ricaricava uno identico tra le proprie scorte. Monsters & Co. mi ha fatto pensare per associazione di idee a tanti maglioni colorati che si spostano come cartoni animati.

G.C. … il che dimostra che è sempre più arduo stabilire se è il cinema di immaginazione che oggi aiuta a leggere meglio i meccanismi e i mutamenti in atto nel mondo della produzione reale o se, viceversa, è il mondo reale che aiuta a capire e ad apprezzare più in profondità le invenzioni e la creatività che si esprimono nella produzione di certi film.

1

Monsters & Co.: regia di Pete Docter, David Silverman e Lee Unkrich, film in animazione digitale, Usa, 2002.