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2015/1

Gianni Canova Severino Salvemini

Oltre la siepe del conformismo. Il giovane favoloso

Dalla casa-carcere di Recanati ai salotti intellettuali di Firenze fino all’esplosione di popolaresca vitalità dei vicoli di Napoli, Il giovane favoloso di Mario Martone rilegge la vita di Giacomo Leopardi come una sofferta ma continua sfida alle convenzioni del suo tempo, e come una romantica rottura del conformismo in nome del diritto di tutti alla felicità. Una vita esemplare, piena di suggestioni e di insegnamenti anche per il nostro tempo.

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Il giovane favoloso

Regia: Mario Martone

Interpreti: Elio Germano, Michele Riondino, Massimo Popolizio

Italia, 2014

 

C’è chi l’ha accusato di didascalismo e chi, invece, l’ha apprezzato per il modo in cui ha affrontato quella che sembrava una sfida impossibile: portare sullo schermo la vita di Giacomo Leopardi. In realtà, Il giovane favoloso (il titolo è “rubato” a un passo della scrittrice Anna Maria Ortese, che in Da Moby Dick all’Orsa bianca così definisce Leopardi) non è soltanto il racconto di una vita come potremmo aspettarcelo da uno sceneggiato TV. Più che un biopic in senso stretto, ha l’ambizione di essere la radiografia di un’anima: quella di un anti-italiano che, forse anche a causa della sua dolorosissima esperienza del vivere, ha visto meglio di tanti altri vizi e virtù di un popolo che – a centocinquant’anni dall’unità d’Italia – ancora non ha imparato, appunto, proprio a pensarsi e a sentirsi “popolo”. Interpretato con appassionata aderenza da Elio Germano, il Leopardi di Mario Martone è un intellettuale eretico che – chiuso in un angolo dell’oscuro e arretrato Stato Pontificio, in una condizione fisica e intellettuale di semicattività – riesce ad andare oltre la siepe delle convenzioni dominanti e a dialogare alla pari con le élite intellettuali del suo tempo, ma anche a trovare nella scrittura e nella poesia gli strumenti per evadere e per rompere il soffocante conformismo che lo circonda. A suo modo, il film è anche un saggio sul rapporto fra creatività e società, con un valore che va ben oltre la vicenda personale e biografica del poeta di Recanati. Ne discutono Severino Salvemini e Gianni Canova.

 

S.S. La prima lezione che ci viene dal film è che non si crea sotto un controllo tirannico. La casa di Leopardi a Recanati è una prigione: dentro si può leggere di tutto (perché la famiglia dispone di una biblioteca da far invidia alle grandi corti europee), ma l’ossigeno è fuori.

Giacomo osserva dalla finestra – immagine ricorrente – una vita popolare fatta di carretti, di cavalli, di grida. Una vita estranea per lui, costretto nel silenzio funebre della casa. Giacomo è ostaggio in una casa-sarcofago, costruita in un paese-cimitero…

 

G.C. ... però, senza quella casa, senza quella biblioteca, Leopardi non sarebbe divenuto quello che è. Proprio perché “prigioniero”, Leopardi si getta nei famosi “sette anni di studio matto e disperatissimo” che lo minano nel fisico, ma gli danno anche una cultura così vasta da surclassare quella di tutti i suoi contemporanei. Io nel film di Martone leggo quindi proprio un messaggio opposto a quello che hai colto tu: il controllo tirannico, la privazione della libertà possono essere uno stimolo alla creatività vista e praticata come via d’uscita rispetto alla condizione di cattività non solo simbolica in cui il ragazzo si trova.

 

S.S. Non negherai però che il film sottolinea più volte come la sua famiglia lo tenga ingabbiato. Il padre, conte Monaldo, sembrerebbe amare il figlio, e proteggerlo. Ma di fatto è un bigotto reazionario che stima suo figlio solo se egli accetta di trasformarsi in uno dei tetri abati letterati nerovestiti che piacciono a lui. La madre è persino peggio: punitiva, anaffettiva, minacciosa. Ed è curioso che in questo contesto il giovane Giacomo non sviluppi controdipendenza: non è un ribelle. E neanche un rivoluzionario. Si avvita nel suo destino, nella sua solitudine. Accelerando la sua malattia.

 

G.C. Non sono d’accordo. Mi sembra che tu stia riproponendo la vulgata sulla vita di Leopardi che il film di Martone ha il merito di aver messo in discussione. Il conte Monaldo, nel film, non è quel mostro di insensibilità e di ferocia che ci hanno insegnato a scuola. Tra lui e il figlio mi sembra, anzi, che Martone disegni una specie di storia d’amore impossibile: Monaldo ama quel suo figlio gracile e intelligentissimo, ma soffre perché non è ricambiato. Perché quel figlio matura una visione del mondo e della cultura opposta e conflittuale con la sua. E proprio questo dissidio – l’amore paterno costretto a coabitare con il dissenso intellettuale più estremo – rende il personaggio di Monaldo così sfaccettato e complesso, lontanissimo dalle semplificazioni manichee a cui ci avevano abituati prima di Martone.

Dissento anche dalla tua affermazione secondo cui Leopardi non sarebbe un ribelle: io credo che non ci sia, in tutto l’Ottocento italiano, nessun’altra figura intellettuale così carica di uno spirito di rivolta assoluta contro l’ordine del mondo e della natura come quella di Leopardi. E il film di Martone lo evidenzia molto bene, soprattutto nelle parti del film ambientate a Firenze e poi a Napoli.

 

S.S. Io trovo più interessante il Leopardi vitale che corre a perdifiato nelle strade di Recanati e che non sopporta la noiosa esistenza quotidiana. Quelle immagini esprimono una personalità molto energica e vitale, furiosamente attratta dal mondo reale e dal suo disordine. Poi, è vero, la Firenze dei salotti buoni (e dei cervelli meno buoni…) stimola il poeta a nuove e più ambiziose sfide letterarie, così come la contaminazione popolare multietnica della città partenopea…

 

G.C. In ogni caso, credo che il film di Martone ci dica che la creatività nasce comunque come reazione a uno stato di mancanza, a un sentimento di inadeguatezza, a una condizione di coercizione. Ma perché essa si manifesti è necessaria un’attitudine visionaria nutrita dalla cultura (il fatto di essere “favoloso”, di saper scartare la realtà con le favole e la fantasia) ed è indispensabile la presenza di un maestro. Mi ha molto colpito il modo in cui il film mette in evidenza il ruolo di Pietro Giordani come mentore e protettore di Leopardi, come auctoritas che lo aiuta a prendere coscienza di sé e del suo talento, così come imprescindibile è la figura di Ranieri, con cui Leopardi innesca una strana simbiosi, una sorta di scambio chiasmico. Lui è nobile, deforme e coltissimo, Ranieri è povero, bellissimo e incolto: eppure diventano inseparabili. Forse, lo diventano proprio per la loro irredimibile diversità.

 

S.S. Non sono poi così lontano dalla tua lettura. Il giovane favoloso mostra in modo quasi paradigmatico alcuni dei percorsi che presiedono alla rottura del conformismo e alla nascita dell’innovazione. In alcuni tratti sembra quasi ragionare su temi attualissimi come il ruolo del territorio nell’attrarre e attivare talenti creativi (penso alle tesi di Richard Florida).

Sul piano strettamente filmico, mi colpisce molto il fatto che il racconto proceda con lo stesso passo del protagonista: diseguale nel ritmo, si muove a strappi e a salti, alternando corse forsennate a pause inaspettate. Con un effetto sicuramente non comune e non banale sull’attenzione dello spettatore.