E&M

2015/1

Emanuele Borgonovo Bruno Busacca Giuseppe Soda

L’onda dei Big Data: minaccia o opportunità

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“Big data” è l’espressione del momento, nel mondo industriale e nel mondo politico. La Comunità Europea il 2 luglio 2014 ha rilasciato un documento dal titolo: “Verso una florida economia basata sui dati”. Il documento riporta i risultati di recenti indagini che vedono un mercato dei Big Data del valore attuale di 17 miliardi di dollari, ma con una crescita annuale del 40%, sette volte più alta di quasi tutti gli altri prodotti dell’area tecnologica. Stime industriali di IBM vedono un mercato con un valore dieci volte più alto, di 150 miliardi di dollari nel breve futuro. Questa crescita esponenziale, a ritmi sostenutissimi, ci parla quindi di un fenomeno vivo, dalle potenzialità ancora inespresse. Una recente ricerca di McAfee e Brynjolfsson (2012) del MIT ha evidenziato che le imprese maggiormente orientate all’utilizzo dei Big Data conseguono tassi di produttività e di profitto superiori (nell’ordine, in media, del 5-6%) rispetto ai loro peers.

Probabilmente ciò che riusciamo a vedere adesso è solo la punta dell’iceberg. Proviamo con qualche esempio, prima di passare alle definizioni tecniche. Il comune di New York ha nominato il suo primo Chief Analytics Officer nella figura di Mike Flowers, con il compito di guidare una task force per analizzare i dati della città di New York. Come ci illustrano Mayer-Schönberger e Cukier nel loro libro Big Data del 2010, la prima applicazione fu di sicurezza civica. Incrociando dati disponibili su piattaforme diverse, i data analysts di Flowers sono riusciti a migliorare l’efficienza delle ispezioni agli edifici a rischio incendio, passando da un tasso di successo delle ispezioni del 13% a un tasso del 70%.

Un incremento non da poco, se si considera che New York ha circa 900.000 edifici a rischio e circa duecento ispettori. Applicazioni più recenti vedono informazioni in tempo reale sul traffico per regolare la velocità dei mezzi pubblici, incrocio di basi di dati per l’individuazione di comportamenti fraudolenti, piuttosto che per il supporto alle decisioni mediche nell’identificazione dei sintomi di una patologia e, ancora, implicazioni per la previsione dei rischi per le aziende assicurative, per le banche, i dati in real time dei sistemi produttivi.

I Big Data nascono da una rivoluzione tecnologica, ovvero da un modo diverso di immagazzinare i dati e di distribuirli. Sono quindi associati a un ulteriore sviluppo dell’informatica, che ha permesso di rendere disponibili a basso costo dati che, fino a poco tempo fa, non erano immagazzinabili.

Le caratteristiche distintive dei Big Data sono quindi riconducibili a volume, velocità e varietà. Per quanto riguarda i volumi, si parla di dati dell’ordine di Penta o Exa bytes (ben al di sopra dei terabytes che attualmente sono il limite estremo di un PC). Per varietà si intende dati non solo sotto forma di numeri, ma anche fotografie, filmati, registrazioni vocali, frasi scritte sui social network. Per velocità si intende il tempo di acquisizione e gestione, fino ad arrivare al real time.

Da cosa sono generati i Big Data? Potenzialmente da tutte le attività connesse a un sistema digitale. I pagamenti con le carte di credito, i tweet, i selfie, i cinque miliardi di smarphone/computer/tablet attivi, ma anche i dati di posizione di navi o automobili dotati di sistemi GPS, o i dati che si trasmettono tra loro i macchinari. In questa prospettiva il fenomeno relativo all’interconnessione degli oggetti (internet of things), che secondo autorevoli stime avrà un significativo sviluppo nei prossimi anni, rappresenta un ulteriore fattore moltiplicativo del volume, della varietà dei dati disponibili nonché della loro velocità di acquisizione.

Qui occorre aprire una piccola parentesi. Tutte le aziende hanno dati e, probabilmente, molti più di quanti ne utilizzino. Non tutte le aziende hanno Big Data, ovvero dati da trattare con soluzioni tecnologiche complicate. Tuttavia, dal punto di vista decisionale, il processo è identico, ovvero decidere in base ai dati e alle migliori informazioni disponibili al momento. Per esempio, si possono efficientare sistemi produttivi raccogliendo i dati in modo opportuno (o sfruttando i database già presenti) anche se il database generato non è tale da rientrare nella tipologia dei Big Data. Perché lasciarsi sfuggire informazioni magari già disponibili? Ovvero, problemi risolvibili mediante l’uso di dati in quantità non massive richiedono comunque l’utilizzo di strumenti di business analytics, che rimane un punto fermo e che, per molte aziende, ha lo stesso valore dei Big Data, anche se le informazioni sono prodotte utilizzando piattaforme tecnologiche differenti.

I Big Data sono alla base della Data-Driven Economy di cui parla il documento della Comunità Europea. Il documento ci ricorda anche che i Big Data e gli advanced analytics richiederanno un’onda di nuove competenze e nuove figure professionali. A livello europeo si parla di novecentomila digital jobs (http://ec.europa.eu/digital-agenda/en/grand-coalition-digital-jobs-0), mentre a livello mondiale tale numero sarà pari a quattro milioni, secondo un report di Gartner del 2012. Le nuove figure professionali sono ancora rare, proprio perché si tratta di un mercato in espansione, formidabile ma ancora acerbo. La Comunità Europea stessa chiama quindi a progetti di formazione e ricerca svolti in comune tra imprese e università e finalizzati a creare le nuove figure professionali di cui il mercato ha e avrà sempre più bisogno.

I dati, di per sé, non parlano, e i dati letti male, anche se tanti, possono essere dannosi o misleading. Come ogni strumento, i Big Data (o anche semplicemente i tanti dati che le aziende hanno a disposizione) vanno utilizzati con competenza. In tal senso, è cruciale avere a disposizione persone preparate che sappiano leggere i dati tramite i modelli dell’economia, delle scienze manageriali e statistiche, per poterne cogliere le corrette potenzialità e indicazioni. Il fenomeno pone molteplici domande alle aziende, relative per esempio a quali figure professionali debbano integrare all’interno della loro organizzazione, a come eventualmente sia opportuno rivedere le proprie strutture organizzative per poter sfruttare al meglio i dati (big o meno) a loro disposizione, come ci descrivono, in questo numero, Luca Molteni e Daniele Tonini.

Un aspetto chiave per attivare lo straordinario potenziale dei Big Data riguarda infatti la definizione di una chiara strategia sulle loro modalità di utilizzo ai fini dell’acquisizione di vantaggi competitivi difendibili, basati su nuove modalità di creazione di valore per i clienti, su sostanziali innovazioni di processo e di prodotto. Al riguardo si aprono straordinari spazi per la creatività, grazie alla possibilità di utilizzare i Big Data non solo per validare (non più su piccoli campioni, come sottolinea Mayer-Schönberger) ipotesi già formulate, ma anche e soprattutto per generare nuove ipotesi e nuove soluzioni, fondate appunto su relazioni di causalità presenti nei dati. In quest’ottica, risulta fondamentale porsi le giuste domande, incoraggiare la collaborazione interfunzionale nella prospettiva dell’orientamento al mercato, favorire nuovi ruoli organizzativi che integrino le nuove professionalità richieste, come, per esempio, il Chief Marketing Technologist, un bridge fra le funzioni Marketing e IT.

Il fenomeno pone domande ed esige risposte anche a livello etico. Tramite i Big Data, terze parti saranno in grado di leggere le nostre opinioni (magari in un tweet) e le nostre preferenze; riusciranno a capire se ci piace il jazz o la musica classica, entreranno anche nelle nostre case, aiutandoci a monitorare il consumo di acqua, di energia elettrica, il modo in cui usiamo il riscaldamento, capiranno qual è la nostra squadra del cuore e il nostro musicista preferito. A quel punto, saranno in grado di prevedere il nostro comportamento di acquisto, le nostre preferenze, mandandoci annunci personalizzati. Sul piano etico è doveroso chiedersi se l’individuo desideri tutta questa attenzione e dove si collochi il confine della privacy. In tal senso, eminenti giuristi si sono posti il problema e questo è sicuramente un altro dei tanti temi che l’onda dei Big Data ci impone.

In questo numero Economia & Management ha chiesto a vari autori un contributo specifico proprio sul tema dei Big Data. Nel loro articolo, Paola Cillo ed Emanuela Prandelli ci propongono un’approfondita analisi del Customer Relationship Management 2.0, ovvero basato sull’utilizzo dei Big Data che consentono livelli di personalizzazione impensabili in assenza degli stessi. Luca Molteni e Daniele Tonini analizzano in dettaglio l’impatto dei Big Data sull’organizzazione aziendale, sulle varie funzioni e le opportunità di efficientamento che gli stessi offrono. Giovanna Padula e Gaia Rubera ci descrivono come Big Data ricavati dai selfie possano essere utilizzati dalle aziende per ottenere indicazioni sui comportamenti dei consumatori e sull’uso del brand. Claudio Tebaldi ci descrive la rivoluzione digitale in atto nel sistema finanziario. Elena Coffetti e Paolo Pasini, nella rubrica “Numbers”, ci propongono tutti i numeri di una nuova figura professionale, quella del data analyst, che si propone tra i professional del futuro.

Buona lettura!

Riferimenti bibliografici

Mayer-Schönberger V., Cukier K. (2010), Big Data, Garzanti, Milano.

McAfee A., Brynjolfsson E. (2012), “Big Data: The management revolution”, Harvard Business Review, October, pp. 61-68.

Brinker S., McLellan L. (2014), “The Rise of the Chief Marketing Technologist”, Harvard Business Review, July-August, pp. 83-85.