E&M

2011/6

Gianmario Verona

Sopravvivenza o crescita? Dal dilemma del manager al dilemma del politico

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L’economia è abitualmente definita come la scienza sociale che si occupa dell’allocazione di risorse scarse in un determinato contesto politico, sociale, geografico[1]. E lo fa sia assumendo determinate caratteristiche degli agenti che la subiscono e la mettono in pratica – legate, per esempio, alla loro razionalità, ai loro interessi, al loro opportunismo nei processi di transazione – sia strutturando uno specifico sistema di incentivi necessario alla sua realizzazione. Benché in ogni epoca l’economia abbia svolto un ruolo centrale nello sviluppo di nazioni e rispettivi popoli, nell’ultimo secolo e in quello corrente ha acquisito una indiscussa centralità nella vita di ogni giorno, come, tra l’altro, denota il continuo risalto che ha nei media. Parole come prodotto interno lordo, inflazione, occupazione, debito pubblico sono entrate nel vocabolario collettivo e rappresentano gli indicatori che dettano l’agenda degli attori della politica pubblica e che contribuiscono a misurarne la qualità della condotta. A livello più locale e privato, le analoghe espressioni di fatturato, profitto, finanziamento rappresentano pure l’abc della professione di governatori, manager e imprenditori e impattano sulla nostra vita quotidiana, che è peraltro negli ultimi anni sempre più assorbita dal lavoro e, in quanto tale, parte integrante dell’economia.

In quanto scienza, dall’economia ci si aspetta un operato non solo descrittivo ma anche normativo. Sulla base dei principi che sono stati maturati e dall’esperienza ormai più che bicentenaria dalla sua nascita – che si ascrive tipicamente alla pubblicazione nel 1776 del Trattato sulla ricchezza delle nazioni a opera di Adam Smith – è naturale che le aspettative siano elevate. Agli occhi di chi non è economista, sono quindi più che sorprendenti le crisi che in modo continuativo caratterizzano i sistemi economici. Negli ultimi quindici anni abbiamo per esempio vissuto almeno quattro crisi importanti: la crisi asiatica del 1997, la bolla speculativa legata al mondo Internet e al mondo biotecnologico all’inizio del nuovo millennio, la crisi finanziaria che ha letteralmente messo in ginocchio tutte le province del villaggio globale tre anni orsono a partire dal fallimento di Fannie Mae & Freddie Mac e di Lehman e, oggi, la crisi del debito che sta colpendo ancora una volta il globo nel suo complesso, ma in particolare l’euro e i cosiddetti PIGS – di cui, purtroppo, oltre a Portogallo, Grecia e Spagna, la I è sempre meno iniziale di Irlanda, che ha almeno parzialmente trovato soluzione ai propri problemi, e sempre più quella del nostro paese. Altrettanto sorprendenti le implicazioni economiche delle crisi in oggetto. Per esempio, la crisi finanziaria indotta dai fallimenti delle grandi banche d’affari ha praticamente trasformato per necessità in stato sociale gli Stati Uniti d’America, paese che culturalmente da sempre combatte logiche assistenzialiste di intervento pubblico nella sfera privata.

A fronte di tutto ciò, una domanda legittima sorge spontaneamente: come è possibile che una scienza si caratterizzi per errori così macroscopici?

I critici della scienza economica trovano spesso una risposta nell’eccessiva astrazione e dipendenza da assunti che la materia comporterebbe – da cui la celebre storiella del chimico, del fisico e dell’economista perduti su un’isola deserta che, senza strumenti, si cimentano nella ricerca di soluzioni scientifiche per aprire una lattina di cibo completamente sigillata; a fronte di una serie di soluzioni legate alle implicazioni del calore da parte del chimico e della meccanica da parte del fisico, la geniale soluzione dell’economista è “ipotizziamo di avere un apriscatole…”.

Il malgoverno della politica è invece la risposta che molti cittadini (soprattutto italiani), indipendentemente dalla propria sfera di competenza, tendono a darsi come risposta soprattutto in questo momento storico. Per esempio, il drammatico valzer di iniziative della scorsa estate per fronteggiare la crisi, caratterizzato da promesse rimangiate e patti non rispettati fino ad arrivare a una soluzione quasi opposta a quanto inizialmente comunicato agli organi di stampa ufficiali a metà agosto, ne è un esempio quintessenziale. Controesempio sono invece le tante scelte economicamente sagge prese dalla politica in questo stesso paese – ingresso nell’euro, privatizzazioni anni novanta e così via – e in altri paesi in specifici momenti storici. In effetti, la politica è un partner bizzarro dell’economia: da un lato, rappresenta l’essenza della democrazia di cui il libero mercato si nutre; dall’altro, per gli egoismi delle singole parti di cui è portatrice di interessi, porta frequentemente a decisioni (o a posticipare decisioni fondamentali) che mettono a repentaglio la razionalità dell’economia stessa.

A prescindere da astrazione e dialettica politico-economica, che certamente contribuiscono per loro natura a complicare le previsioni e le domande e risposte che l’economia può dare alla società civile, il problema della fallacia previsionale è in realtà assai più complesso e dipende dalla natura stessa della scienza economica. In quanto scienza sociale, essa presenta il limite della dipendenza da determinati contesti storico-temporali e della non-ripetibilità degli eventi, che la rendono una scienza “debole” rispetto alle scienze “forti” che possono invece crescere con sperimentazioni da laboratorio: si pensi alla chimica, alla fisica e alla medicina. A ciò si aggiunga che la difficoltà previsionale dipende dal comportamento spesso irrazionale e opportunista dei soggetti economici; comportamento che renderebbe l’evoluzione sistemica difficilmente prevedibile. Non è un caso che tre dei premi Nobel per l’economia insigniti negli ultimi dieci anni siano legati a studiosi delle implicazioni economiche dell’opportunismo (Oliver Williamson premio Nobel 2009), della gestione dei beni pubblici (Elinor Ostrom, 2009) e a esperti psicologi che hanno studiato le conseguenze della limitata razionalità degli agenti economici (Daniel Kahneman, premio 2002). Alla luce dei suddetti limiti, le soluzioni che vengono proposte sono quindi spesso contingenti alla situazione spazio-temporale. Per esempio, la recente crisi finanziaria ha prodotto una serie di interventi tampone tra i quali, in Europa, una stretta regolamentazione del sistema bancario, accusato di non aver saputo controllare prima e reagire poi a un’ondata di speculazioni inopportune[2].

Senza nulla togliere alla bontà delle spiegazioni offerte e delle azioni messe in campo, nonché alla complessità dei problemi oggetto dell’economia, in queste righe si vuole sostenere una tesi che, seppur complementare ad altre, è nella sostanza profondamente diversa e, purtroppo, trova una voce limitata nel coro di critiche che vengono associate alla crisi dell’economia. La tesi è legata alla scarsa attenzione a una variabile centrale del sistema economico: la crescita. In base a questa tesi, la scienza economica trarrebbe notevoli benefici a spostare la sua attenzione dall’allocazione delle risorse, menzionata all’inizio di questo editoriale, alla creazione di risorse e cioè all’innovazione.

Per innovazione intendiamo sia nuovi prodotti (dalle citycar rese famose da Smart ai tablet apparsi sul mercato con iPad) e nuovi servizi (dal caffè di Nespresso all’eCommerce di Amazon e di eBay e ai social network à la Facebook) che siano di interesse per una determinata comunità in un dato momento storico, sia nuovi processi (la qualità totale della Toyota) o strumentazioni (i principi biosistemici della ricerca del farmaco) e business model (dall’arredamento Ikea all’abbigliamento di Zara) che favoriscano una migliore o più semplice produzione di beni e servizi.

In base alla nostra tesi, l’economia dovrebbe preoccuparsi in via prioritaria di stimolare l’innovazione nei settori industriali dei sistemi economici e, per farlo, dovrebbe preoccuparsi anzitutto di creare le condizioni per permettere ai privati di innovare e di crescere. Così facendo, essa stimolerebbe la crescita e ridurrebbe la scarsità di risorse, rendendo il compito dell’allocazione assai più facile. Non è un caso che singole aziende innovative (si pensi per tutti oggi alla Apple di Jobs e a Facebook di Zuckerberg), aree geografiche a forte intensità innovativa (si pensi alla Silicon Valley, a Hollywood o a diversi distretti industriali italiani) o intere regioni a trazione innovativa (l’Inghilterra della prima rivoluzione industriale, l’Italia del dopoguerra, gli Stati Uniti negli anni ottanta e novanta, India e Cina oggi) vivano anche periodi di forte crisi con un affanno diverso e/o trovino più semplicemente possibili vie d’uscita ai naturali momenti di crisi di sistemi evolutivi complessi.

La centralità dell’innovazione in economia non è tesi nuova, bensì trae spunto dalle dissertazioni di un celebre filosofo della scienza, Joseph Schumpeter, vissuto nella prima parte del Novecento. Nella sua classica opera intitolata Teoria dello sviluppo economico (pubblicata nel lontano 1918) Schumpeter notò come il vero motore dell’economia fosse proprio rappresentato da quella forza da lui definita “distruzione creatrice”, in base alla quale un singolo imprenditore porta sul mercato un’invenzione trasformandola in innovazione. Così facendo, crea ricchezza e stimola un processo di imitazione che, annullando la rendita prodotta dall’innovazione, porta altri imprenditori a immaginare nuove soluzioni di mercato. Questo ciclo di invenzione-innovazione-imitazione rappresenta una rivoluzione copernicana per l’economia poiché, pur preservando una logica di equilibrio, cara agli economisti neoclassici che si propongono di allocare le risorse scarse e necessitano di un equilibrio di partenza, sposta l’attenzione verso la creazione di un disequilibrio orientato alla crescita e allo sviluppo.

Aspetto curioso è che il solo altro economista politico che ha dedicato un’intera vita allo studio e integrazione dell’innovazione tecnologica nella teoria economica classica è Robert Solow, il quale ha dimostrato che la crescita del prodotto interno lordo dipende, oltre che dalla variazione intertemporale di capitale e lavoro, anche dal progresso tecnologico, che può arrivare a incidere fino al 4% del PIL di un paese[3].

Come fare nostri gli insegnamenti di Schumpeter e di Solow e calarli nella realtà politica, imprenditoriale e manageriale del mondo moderno, assai più complesso di quello descritto dai modelli dei due economisti nella prima parte del Novecento?

Una prima risposta si ottiene prestando attenzione al dibattito politico-economico scaturito parzialmente dall’ultima crisi estiva. Finalmente (anche se a questo punto un po’ tardi!), politici ed economisti hanno reindirizzato i contenuti della dialettica dallo studio di manovre puramente tecniche e allocative a manovre che favoriscono la crescita. La riduzione del carico fiscale, la riduzione della spesa pubblica, la creazione di fiducia per attrarre capitale estero, per esempio, sono tutte importanti azioni che, nel lungo termine, possono impattare significativamente sulla crescita economica del nostro paese. Ed è bene, a questo punto, che, oltre a essere discusse, vengano in alcuni casi anche approvate.

Ma tutto ciò basta? Il punto di vista di chi scrive è che, seppur questi provvedimenti aiutino il malato a guarire, difficilmente lo trasformeranno in un decatleta che riesca a vincere la competizione globale richiesta oggi dal sistema economico. Questo perché, per vincere, è necessario passare dalle macro cause che affliggono il paziente (e cioè debito, spesa pubblica, evasione fiscale e cosi via), al prestare attenzione alle micro cause ad esse collegate che lo rendono ingessato e che frenano a livello microeconomico le singole imprese a innovare. Parafrasando il titolo del celebre libro di management scritto qualche anno fa da Christensen[4], l’economista e il politico dovrebbero cioè rendersi conto che il vero dilemma cui far fronte non è (o quantomeno non è solo) il trade-off “spesa-imposte” o “inflazione-disoccupazione”, ma un dilemma circa la diversità delle competenze che servono non tanto per sopravvivere ma per crescere e innovare. È, cioè, un dilemma “sopravvivenza-crescita”. A questo dilemma dovrebbe essere rivolta prioritaria attenzione. E, in proposito, competenze tecniche, risorse finanziare e infrastrutturali e incentivi per favorire e sostenere l’innovazione dovrebbero rappresentare gli snodi cruciali dell’agenda.

Innovazione significa anzitutto saper cavalcare la frontiera del nuovo. Significa investire nel futuro anziché nel successo passato. Significa affiancare prima e sostituire poi competenze obsolete con competenze moderne. A livello industriale, per esempio, in epoca meccanica significa prima affiancare e poi sostituire l’artigianato; in epoca digitale significa superare la meccanica; in epoca virtuale significa reinterpretare il digitale. E ciò avviene sia con un investimento nell’infrastruttura sia con istruzione e formazione, in grado di stimolare tanto la creazione di competenze nuove quanto la trasformazione di competenze consolidate in competenze aggiornate.

Innovazione significa favorire un sistema finanziario e un’architettura pubblica che prestino attenzione all’imprenditorialità e al cambiamento. Innovazione significa rischio, ma significa anche possibilità di lauti guadagni. Interrogarsi su come il sistema finanziario possa creare le condizioni per stimolare l’imprenditorialità e la continua innovazione a livello di grandi e piccole aziende rappresenta un crocevia essenziale per la crescita e lo sviluppo.

Innovazione significa anche concorrenza e competitività: significa stimolare la concorrenza per favorire la competitività per non permettere all’innovatore di sedersi sugli allori e replicare il suo successo in un gioco squisitamente monopolistico. Distruggere le barriere cognitive e monopolistiche dell’innovazione è essenziale per innovare. E a questo proposito, oltre alla volontà politica, il supporto del funzionamento efficiente del sistema legale rappresenta un elemento cruciale.

Queste considerazioni, che singolarmente (e sporadicamente) affiorano negli interventi di economisti e politici, dovrebbero essere affrontate in modo organico, dettate da un’agenda in grado di favorirne una valorizzazione olistica.

Solo così riuscirebbero a sortire gli effetti necessari alla trasformazione del malato in potenziale vincitore di una medaglia olimpionica.

Cosa dovrebbe quindi diventare l’economia? La scienza che si preoccupa sì dell’allocazione delle risorse, ma che presta anzitutto continua attenzione alla loro crescita e quindi al costante rinnovamento del sistema economico. Senza crescita, le economie non evolvono e senza la loro evoluzione l’economia è destinata a commettere gli errori di previsione compiuti nel recente passato. Diventando invece scienza di generazione di crescita, l’economia potrebbe fornire al politico meccanismi e soluzioni che gli permettano di risolvere il dilemma che, più di altri, potrebbe far contenta la maggioranza degli elettori.

1

Si veda per tutti uno dei manuali più adottati: Bernheim B.D., Whinston M.D., Microeconomics, McGraw-Hill, 2010.

2

Si vedano in proposito gli editoriali di Andrea Sironi: “Crisi finanziaria e riforma delle regole: quali implicazioni per le banche e per il sistema economico?”, Economia & Management, 3, 2010, e “Chi ha paura di Basilea 3?”, Economia & Management, 6, 2010.

3

Solow R., “A Contribution to the Theory of Economic Growth”, Quarterly Journal of Economics, 1956.

4

Christensen C., Innovator’s Dilemma, Harvard Business School Press, 1997.