E&M

2011/3

Vincenzo Perrone

E il Piave smise di mormorare. Capitale straniero e sviluppo italiano

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Proprio mentre sui balconi d’Italia garrivano festosi bandiere e gagliardetti tricolore a celebrare l’unità nazionale, sul mercato si leggevano chiari i segni di una nuova invasione. Fatta per fortuna non al suono delle fanfare e al ritmo omicida delle mitragliatrici, ma al dolce e ipnotico fruscio dei capitali. Tra i principali esportatori degli stessi: i nostri cugini d’Oltralpe. Ai quali dobbiamo due colori su tre della nostra bandiera e presto potremmo dovere un bel po’ dei posti di lavoro e dei prodotti della nostra affaticata economia. Ad attrarre l’attenzione, persino dei media in genere preoccupati di ben altro, sono state due manovre in rapida successione. Prima l’annuncio dell’accordo per l’acquisto di Bulgari da parte del gruppo LVMH (Louis Vuitton Moët Hennessy).

Uno dei marchi storici della gioielleria italiana è andato ad aggiungersi al ricco portafoglio di oltre sessanta brand del lusso custodito nella cassaforte francese di Bernard Arnault, fine collezionista di aziende oltre che di opere d’arte. Il quale non ha badato a spese dal momento che l’investimento fatto in Italia è costato quasi quattro miliardi di euro, pagando un sovrapprezzo di più del 50% su ogni azione rastrellata e consentendo peraltro ai discendenti e affini dei Bulgari di mantenere posizioni di comando nella società per i prossimi sei anni e di acquisire anche una quota del 3,5% del gruppo LVMH alla quale corrispondono anche due posti in cda a Parigi. Per Arnault, Bulgari va a fare compagnia ai marchi italiani del fashion Gucci e Fendi; è un colpo inferto alla concorrenza di Pinault con la sua PPR che si era impossessata di Bottega Veneta, e lancia un segnale di sfida agli svizzeri di Richemont e alla loro supremazia nella gioielleria e orologeria di lusso marcata Cartier.

Qualche giorno dopo l’acquisizione di Bulgari, sulle prime pagine dei giornali è arrivato il secondo colpo francese. A sorpresa si è scoperto che Lactalis aveva rastrellato prima oltre l’8% e poi un altro 5%, per un totale di una più che significativa quota di capitale del 13,7% della nostra Parmalat. Come il lusso, anche il settore alimentare del nostro paese è stato terreno di caccia per le multinazionali francesi come Danone, la quale, al pari delle omologhe svizzere (Nestlé) e anglo-olandesi (Unilever), ha fatto incetta di marchi e capacità produttive. Il cibo, i francesi non solo lo producono con imprese ex italiane, ma ce lo portano in tavola attraverso la ristorazione commerciale, dove una serie di acquisizioni ha portato aziende francesi come Gemeaz, Sodexo e Avenance ad assumere una posizione dominante nel nostro paese pari a quella assunta dalla transalpina MyChef nella ristorazione in concessione. E se pure non ci sediamo alla loro mensa potrà facilmente capitarci di metterci in fila col carrello pieno di spesa, alimentare e non, in un punto vendita Auchan o Carrefour o del gruppo Coin-Oviesse-Upim controllato da Paribas. L’apertura alla concorrenza internazionale del sistema bancario italiano ha pure visto le banche francesi muoversi rapidamente a conquistare una fetta importante di quella che sembra davvero essere una delle poche risorse attraenti e distintive rimaste nel nostro paese: il risparmio privato delle famiglie. Attraverso l’acquisizione di banche italiane grandi, medie e oggi anche piccolissime, colossi come Crédit Agricole e, appunto, BNP Paribas contano di sviluppare una capillare rete retail in grado di intercettare al meglio il risparmio per alimentare nuovi programmi di investimento. Che non necessariamente avranno il nostro paese come destinazione. E non pare vi sia nemmeno la consolazione di poter contare su un miglior servizio grazie alla maggiore varietà di offerta rispetto al passato. Il settore bancario è infatti uno di quelli dove la presenza di competitor stranieri non è servita a fare aumentare in modo sensibile per i consumatori finali né la trasparenza né la convenienza dei servizi offerti. Dalle banche alle assicurazioni il passo è breve e segnato, anche qui, da recenti articoli di cronaca economica che hanno raccontato nel dettaglio le manovre di Groupama nella Premafin della famiglia Ligresti che controlla la Fondiaria-Sai. Un altro gigante assicurativo francese come Axa è entrato nel mercato delle polizze italiano attraverso una partnership importante con il Monte dei Paschi di Siena. A completare il puzzle degli interessi francesi nel nostro comparto bancario e assicurativo vi sono le posizioni in Generali e Mediobanca, anche queste oggetto delle attenzioni dei media grazie all’attivismo spavaldo del bretone Vincent Bolloré. E se dalle risorse finanziarie passiamo a quelle energetiche il protagonismo francese lo ritroviamo in Edison, dove la EDF sta facendo valere tutta la propria forza imponendo cambi al vertice della società e mostrando una faccia feroce contemporaneamente sia alla nostra A2A, potenza energetica bi-municipale sua socia in Edison appunto, sia al Ministero del Tesoro a Roma, che comincia a essere stufo quanto preoccupato di questo muoversi disinvolto e rapace dei nostri cugini a casa nostra[1]. E per rimanere ancora nell’energia: quando e se l’onda emotiva del disastro giapponese si sarà placata e l’impianto danneggiato di Fukushima avrà smesso, speriamo, di evocare la sindrome cinese del famoso film sui rischi da fusione dei reattori, si riprenderà a parlare di nuove centrali nucleari nel nostro paese e l’interlocutore pronto a servirci della tecnologia necessaria, che noi non possediamo più, sarà quasi certamente la francese Areva.

I dati che si trovano nell’Annuario Istat-ICE 2009 “Commercio estero e attività internazionali delle imprese” parlano chiaro: nel periodo 2000-2009 la Francia è stato il paese che ha avuto il saldo negativo medio tra entrate e uscite di capitali maggiore al mondo (quasi tre volte quello di Germania e Spagna e cinque volte circa quello dell’Italia)[2]. Sempre nello stesso periodo, il paese che ha la media di quota percentuale di investimenti diretti netti dall’estero in Italia più alta (in media circa il 15%) dopo i Paesi Bassi, è sempre la Francia. Checché ne dicano, quindi, Luca Cordero di Montezemolo, presidente di NTV e le Ferrovie dello Stato francese sue alleate nella conquista del nostro mercato a spese delle Ferrovie dello Stato italiano, siamo un paese che è stato capace in pochi anni di aprire notevolmente le proprie frontiere all’ingresso di capitali stranieri che sono serviti ad assumere il controllo di pezzi importanti del nostro sistema produttivo. Ora che il fervore ideologico che ha alimentato una fiducia cieca e/o interessata nel libero mercato globale comincia a raffreddarsi, sotto i colpi della crisi e per effetto dell’azione decisa di stati e governi dal pedigree liberale molto migliore del nostro, possiamo fare un po’ di spazio a qualche provocatoria riflessione. Premettiamo subito che crediamo nel fatto che gli scambi internazionali aperti siano una condizione di sviluppo. Tantomeno ignoriamo che anche l’Italia ha un saldo entrata-uscita degli investimenti diretti esteri negativo, sia pure in misura molto inferiore rispetto ad altri paesi come appunto la Francia. Questo vuol dire che anche le imprese italiane si avvantaggiano in giro per il mondo della libertà, quando viene loro concessa – visto che non è un prodotto naturale dell’esistenza di un mercato – di acquistare imprese straniere e conquistare quote di mercato. Crediamo anche noi che “attrarre capitali dall’estero” – la formula recitata come un mantra per dare soluzione ai nostri problemi di stentata se non inesistente crescita – delinei un obiettivo fondamentale e condivisibile. Che deve però essere meglio qualificato, definito nei contenuti e misurato negli effetti. Se si passa dallo slogan alla realtà dei fatti si scopre che i paesi più forti del mondo non hanno smesso di perseguire strategie di tipo imperialistico, come sembra ricordare quella francese, o coloniale, come quella cinese in Africa. La differenza, allora, è che noi pensiamo che si possa essere senz’altro liberal in economia e in politica, ma che, soprattutto se si ha la responsabilità di dare indicazioni di politica economica a salvaguardia dello sviluppo di questo paese e della gente che ci vive, occorra essere anche smart. Farsi furbi significa trovare risposte convincenti e convenienti a domande all’apparenza semplici come le seguenti: possiamo dire che l’intervento di capitali stranieri nella nostra economia negli ultimi quindici anni sia servito ad accrescere il nostro benessere oggi e a migliorare la nostra capacità produttiva domani? Ci sono effetti collaterali che dobbiamo imparare a prevedere e a gestire quando apriamo le nostre frontiere? Quello che è consentito di fare sul nostro mercato e nella nostra economia trova riscontro nelle condizioni alle quali le nostre imprese possono muoversi in altri paesi?

Qui tratteremo di due effetti collaterali che chiameremo: effetto dumbing ed effetto downgrading. Avete letto bene: dumbing con la b e non con la p. Non stiamo infatti parlando di competizione sleale tra paesi attraverso spregiudicate manovre sui prezzi, ma di modi progressivamente sempre più stupidi (dumb, appunto) di interpretare e difendere l’interesse nazionale sia pure in una economia di libero mercato e nel contesto di funzionanti istituzioni sovranazionali. Non è forse stupido, se non peggio, far pagare il disastro della Parmalat alla collettività e agli (incauti?) risparmiatori truffati, risanare faticosamente l’azienda grazie al lavoro di manager italiani capaci come Bondi, metterla in bonis e, anzi, farne di nuovo un’impresa caratterizzata da una notevole liquidità con la quale potrebbe essere soggetto attivo di una politica di sviluppo anche attraverso acquisizioni internazionali, e lasciare – maledetta distrazione! – che il controllo della società risanata cambi mano e nazionalità mettendo nello stesso tempo alla porta il management che è stato l’artefice della difficilissima operazione di salvataggio? Questa storia ne ricorda un’altra: quella della nostra compagnia di bandiera, l’Alitalia, del cui salvataggio si è comunque fatto carico lo Stato italiano. Sia pure con il concorso di una cordata di “imprenditori coraggiosi” italiani, alcuni dei quali partecipanti all’impresa per il bene della Patria con quote di valore conferito inferiore a quello di un buon appartamento nel centro di Milano. Una volta distinta l’Alitalia buona da quella cattiva si era pronti a farle anche cambiare bandiera sostituendo il verde con il blu: e probabilmente sarebbe stato meglio farlo subito, al primo prezzo che ci era stato offerto, piuttosto che ridurci tra qualche tempo ad accettare il medesimo destino ricavandoci peraltro molto meno. Se non si gioca da primi della classe la partita della globalizzazione non è molto saggio essere più veloci e zelanti degli altri. La resistenza mediante unione di Gaz de France e Suez al tentativo di conquista portato avanti da Enel o la cosiddetta legge MOP, varata sempre in Francia con lo scopo di rendere assai difficile per imprese non di quel paese assumere il ruolo di general contractor partecipando e aggiudicandosi le gare dei grandi progetti di costruzione, sono due esempi di come la mancanza di reciprocità renda non del tutto vantaggioso aprire per primi la porta sperando di ricevere uguale accoglienza quando saremo noi a bussare all’uscio altrui. Con le sue ricerche nel campo della teoria dei giochi Robert Axelrod aveva intuito che per trarre il massimo vantaggio dalla cooperazione e renderla stabile nel tempo occorre essere pronti a ribattere colpo su colpo (tit for tat): cooperativi con chi si dimostra tale ma pronti a punire chi si comporta slealmente. Sarebbe il caso di ricordare questa intuizione anche quando si guarda agli scambi internazionali. Soprattutto se è in questione il benessere di una nazione. Assai sciocco è poi trascurare l’effetto sistemico che l’insieme di singole mosse possono provocare. Nel momento in cui i migliori marchi del nostro sistema moda spostano il loro quartier generale a Parigi, quali manifestazioni fieristiche pensate che avranno più successo in questo settore difficile: quelle organizzate all’ombra della Tour Eiffel o sotto la Madonnina? E quanto tempo occorrerà prima che Fiera Milano cominci a sentire le conseguenze, da un lato, delle scelte che un’Alitalia in orbita francese fa su Malpensa e, dall’altro, dell’attenzione crescente che il leader francese nell’organizzazione di manifestazioni fieristiche, Gl Events, dedica agli altri quartieri espositivi italiani, a cominciare da quello della nuova Fiera di Roma? Operazioni nelle quali tendono ad avere un ruolo anche le banche acquisite nel nostro paese come BNL o Credem. Qui non si tratta di farsi prendere dalla mania del complotto, cedendo alla razionalizzazione ex post, né di credere al mito del Britannia[3]. Ma semplicemente di alzare lo sguardo e guardare lontano evitando di navigare a vista giorno per giorno, affrontando un’emergenza alla volta, senza accorgersi di dinamiche più ampie e complesse che sarebbero meglio e più tempestivamente gestite se venissero riconosciute come tali. Perché questo accada, però, occorre saperne molto di storia, di politica e di geografia. I modelli astratti dell’economia mescolati ai luoghi comuni dell’informazione di massa non bastano di certo.

Il secondo effetto lo abbiamo definito effetto downgrading. Si tratta dei riflessi micro, ma non per questo meno importanti, dei processi che abbiamo individuato a livello macro, nei rapporti tra paesi. Hanno a che fare con l’organizzazione interna delle imprese multinazionali. In queste imprese viene sempre a stabilirsi una tensione tra headquarter e country. Tra attività e decisioni che vengono accentrate a livello di quartier generale (che ancora oggi è quasi sempre nel paese di origine della multinazionale) e attività e decisioni che vengono mantenute decentrate a livello di organizzazione di singolo paese. Quello che può rapidamente degradare a livello locale sono la qualità delle decisioni e delle attività che vi sono decentrate e il grado di autonomia con la quale tali decisioni possono essere prese. Sommando a questa dinamica centro/periferia un altro processo organizzativo tipico delle imprese multinazionali che consiste nella razionalizzazione produttiva mediante concentrazione di attività a basso valore aggiunto laddove il differenziale competitivo di un paese è dato dal costo della manodopera e attività ad alto valore aggiunto dove si può contare invece su una forte dotazione di capitale intellettuale e su buone istituzioni, si possono anticipare alcune implicazioni critiche dello spostamento del controllo organizzativo di imprese italiane fuori dai confini del nostro paese. Implicazioni visibili ricostruendo l’evoluzione organizzativa delle imprese multinazionali che operano in Italia da più tempo o riflettendo su quello che la nuova Fiat a doppia trazione, italo-americana, potrebbe apprestarsi a fare. Nel nostro paese, in molti casi, le filiali di imprese multinazionali svolgono ormai quasi solo attività di tipo commerciale. Le attività produttive hanno subito una traslazione più o meno pronunciata verso Est, quelle di ricerca e sviluppo si sono radicate in ambienti più favorevoli del nostro, e i ruoli e i compiti di direzione sono stati accentrati in headquarter lontani. Dai quali si guarda con interesse ai grafici delle vendite o della raccolta di risparmio, ma che possono essere molto distratti se si tratta di investire e farsi carico di problemi locali. Basterebbe indagare sul ruolo (assai limitato) delle banche controllate dall’estero nello sviluppo della nostra dotazione infrastrutturale per avere qualche evidenza concreta di questa distanza. Ovviamente si può sempre ribattere che “è il mercato, bellezza!” e che se l’Italia non è attraente come posto dove localizzare un headquarter o un bel centro di ricerca capace di trattenere qualche cervello nazionale destinato altrimenti a una triste fuga, o dove costruire una moderna autostrada, è perché non se lo merita. Per la qualità delle sue istituzioni, della classe dirigente, per effetto della criminalità organizzata o di certi perniciosi tratti della cultura nazionale. Tutto vero. Ma non è sicuro che altri paesi abbiano superiori qualità sociali e morali. E non bisogna poi dimenticare che se è vero che buone istituzioni producono buona economia, come si è arrivati a riconoscere oggi, è vero anche il contrario: ovvero che una buona economia, ricca e avanzata, produce buone istituzioni, costituendo lo stimolo essenziale per innalzarne la qualità e migliorare quella della società in generale. Alla periferia degli imperi si riducono le esigenze della prima, l’economia produttiva, ed è possibile aspettarsi che degradi anche la qualità delle seconde, le istituzioni. Ruoli direzionali, attività intellettuali ad alto valore aggiunto all’interno delle imprese equivalgono, come abbiamo già ricordato di passaggio, a posti di lavoro qualificati per giovani ad alto livello di scolarizzazione e specializzazione. Se riusciamo, per quanto in modo sempre più faticoso, a sviluppare ancora talenti ma non riusciamo invece a produrre i posti di lavoro e le retribuzioni che questi meritano, trattenerli in Italia e fare in modo che il loro ingegno e la loro passione contribuiscano alla crescita del paese è impresa pressoché disperata.

Concludiamo dicendo che non abbiamo nostalgia di Giolitti e delle sue nazionalizzazioni; né facciamo il tifo per Colbert contro i Chicago boys; non siamo per il dirigismo o per le economie pianificate e non soffriamo nemmeno di nostalgia per Antonio Fazio e per il suo modo di interpretare il ruolo di Governatore della Banca d’Italia. Anche se la sua storia ha almeno mostrato la ricorrente tragicomica sproporzione tra la grandezza dei fini, che egli afferma di aver voluto perseguire a vantaggio del paese, e lo spessore umano e professionale di personaggi e interpreti a disposizione per realizzarli. Uomini che pure erano un pezzo importante della classe dirigente di questo paese. Sia detto, questo, con buona pace di quanti invocano la discesa in campo della “società civile” come panacea per ogni male. Si sarebbero potute scrivere molte più pagine, sicuramente di migliore qualità di queste, piene di riferimenti alle teorie e alla ricerca in campo economico, per sostenere e documentare a ragione i vantaggi del libero mercato, per trovare altrove le vere cause del nostro possibile declino. Ma, come abbiamo sempre sostenuto, il compito di un editoriale è fare riflettere, spostando per poche righe il punto di osservazione sulla realtà. In modo che vengano in evidenza cose che stanno di solito nascoste sullo sfondo. In modo da riflettere sull’importanza di questioni come quella dell’interesse nazionale, sulla necessità di migliorare la coesione e la capacità di integrazione tra parti diverse del sistema economico italiano in vista di un bene superiore e collettivo, sul bisogno assoluto che abbiamo di sviluppare una visione di futuro economico e sociale per l’Italia che sia capace di mobilitare nuove energie.

“Franza o Spagna purché se magna”: questo, ricordava con cinico realismo Francesco Guicciardini, è ciò che importa(va) al popolo italiano. Altro che uno stato unitario e forte come invece, con passione pari alla scaltrezza, proponeva Niccolò Machiavelli in quello che oggi si direbbe un trattato di institution building, come Il Principe! Il rischio però oggi è che, a furia di riempire le prime pagine dei giornali solo di “baci alla francese” e altre delizie dell’eros transalpino intercettati in qualche alcova di potente, invece che di riflessioni accurate e serie su strategie politiche ed economiche alla francese o alla tedesca, si finisca con il non aver più nulla da mangiare. E ancor meno da dire. Si ricominci dunque almeno a cantare. Con sommessa convinzione: “Fratelli d’Italia, l’Italia s’è desta?…”.

1

Mentre scriviamo il ministro Tremonti, con tutto il governo, sta elaborando un insieme di norme che dovrebbero consentire una migliore protezione degli asset nazionali giudicati di importanza strategica.

2

Fonte: elaborazione Agenzia La Rotta (www.agenzialarotta.it) su dati Istat-ICE. In questo sito, come sui siti di Corriere della Sera, Sole24Ore ed Espresso (oltre che dell’Istat e dell’ICE) si trovano diversi articoli contenenti dati e informazioni relativi ai fatti esposti in questo editoriale. Il debito nei confronti di queste fonti è riconosciuto qui con gratitudine.

3

È la nave sulla quale nel 1992 si sarebbe consumata la svendita del patrimonio pubblico italiano, notizia divulgata per prima dall’Executive Intelligence Review di LaRouche e ripresa poi dal nostro presidente Francesco Cossiga.