E&M
2010/5
Indice
La finestra sul mondo
Il mercato delle regole
Stati Uniti ed Europa: parte (male) la riforma della finanza
Fuoricampo
Temi di management
PA performance. Una proposta per attuare la riforma
Storie di straordinaria imprenditorialità
Alleanze internazionali in Val Tidone. Il caso del Gruppo Allied International
Fotogrammi
Cantiere Italia
Scelto per rappresentare l’Italia al Festival di Cannes, il nuovo film di Daniele Luchetti La nostra vita mette in scena la vicenda esemplare di un capomastro che ambisce a diventare imprenditore e che, per farlo, è disposto anche a trasgredire regole e valori, mettendo in evidenza luci e ombre di certa nostra cultura imprenditoriale.
La nostra vita
Regia: Daniele Luchetti
Interpreti: Elio Germano, Raoul Bova
Italia, 2010
Un’Italia sventrata. Un cantiere a cielo aperto. Brulicante di vita, di contraddizioni, di sogni, ma anche di nefandezze e di vergogne. Perché nel “cantiere Italia” – ci dice Daniele Luchetti nel suo nuovo film La nostra vita, scritto con Stefano Rulli e Sandro Petraglia – pullulano i lavoratori in nero, da una parte, e i profittatori, dall’altra. Perché non si fanno più le case di una volta, nel cantiere Italia: oggi, per guadagnare più in fretta, si tirano su muri non perfettamente in squadra, e si fanno soffitti tanto sottili che l’acqua vi si infiltra e cola sulle pareti sottostanti al primo acquazzone di una certa consistenza. È un cantiere-condominio in cui nessuno o quasi paga le tasse, e tutti si guardano in cagnesco, ma è abitato da famiglie pronte a sacrificarsi per salvare i propri membri in difficoltà. Per raccontare quella che egli stesso definisce “la volgarità di un popolo” che si compiace della propria degradazione, Luchetti (Il portaborse, Mio fratello è figlio unico) sceglie la storia esemplare di Claudio (Elio Germano), capomastro edile nei cantieri della periferia romana: quelli dove crescono palazzi dormitorio come funghi, e dove non si va tanto per il sottile con le regole della sicurezza e della fiscalità. Claudio lavora come un matto. Per la famiglia, dice a se stesso. Chi non si fa un “mazzo” così, per la famiglia, nel cantiere Italia? Solo che la famiglia di Claudio si spezza. La moglie muore di parto. E lui, dopo aver pianto al funerale, nella scena più bella del film, quella che forse è valsa a Elio Germano la Palma d’Oro come miglior attore al Festival di Cannes, si mette a elaborare il lutto cercando di offrire ai suoi figli tutto il benessere possibile. E per farlo al meglio decide di diventare imprenditore. E qui cominciano i problemi. Perché Claudio è intraprendente, spregiudicato, con una buona propensione al rischio. Doti necessarie, non c’è dubbio, in un buon imprenditore. Ma Claudio è anche cinico. Privo di valori. Privo di un’etica. Disposto a tutto, proprio a tutto, pur di affermarsi. E su questo terreno la sua figura diventa ovviamente discutibile. Può essere considerato un emblema dell’Italia di oggi? È vero – come sostiene Luchetti – che le scorciatoie e le furbizie di Claudio sono quelle di un paese intero? Che per fare l’imprenditore nel cantiere Italia di oggi bisogna praticare l’anoressia della coscienza? Ne discutono – come di consueto – Severino Salvemini e Gianni Canova.
S.S. Innanzitutto, credo di poter dire che il personaggio interpretato da Elio Germano si riallaccia a importanti figure della storia del cinema: penso, per esempio, a Metello di Mauro Bolognini, ma anche all’Uomo di marmo di Andrzej Wajda, o a Jack La Motta in Toro scatenato di Martin Scorsese. Cosa li accomuna? Sono tutti gran lavoratori, ma vittime dei loro tempi. Subiscono in modo particolarmente evidente e spesso ingiusto i condizionamenti imposti da un periodo storico e da un contesto geopolitico. Mi pare di poter dire che anche il protagonista del film di Daniele Luchetti si trova in questa condizione. E ne è perfettamente consapevole: sa, per esempio, che per uno come lui la vacanza in Costa Smeralda è un sogno irrealizzabile…
G.C. Certo. Claudio lavora a ritmi pazzeschi, ma solo per consumare di più. Non ha un obiettivo da perseguire, un investimento da realizzare. Adotta un’economia di sussistenza in cui brucia rapidamente tutte le risorse disponibili, e si ammazza di lavoro perché tali risorse siano sempre quantitativamente certe. La qualità non è invece uno dei temi al centro del suo interesse. Né come produttore né come consumatore.
S.S. Ed è proprio per questo che cerca di fronteggiare il lutto che lo colpisce all’improvviso spostando il dolore nella dimensione consumistica. Cerca di lenire le ferite dell’essere incrementando la disponibilità dell’avere. E lo fa garantendo questa disponibilità soprattutto ai figli… Ma poi il paradosso del film è che l’epilogo della storia lo porta a riscoprire la dimensione dell’essere contro quella dell’avere: è nella famiglia e nel rapporto con gli amici che il protagonista ritrova la forza necessaria all’elaborazione del lutto e al superamento della difficile prova che la vita gli ha riservato.
G.C. A me ha colpito molto la disinvoltura etica con cui il personaggio affronta il suo nuovo lavoro di piccolo imprenditore edile. Claudio agisce senza minimamente interrogarsi sulle conseguenze o sulle ripercussioni morali delle sue scelte e delle sue decisioni. Prima ricatta l’imprenditore che l’ha preceduto nascondendo il ritrovamento del cadavere dell’operaio rumeno, poi acconsente a fare la cresta sulle spese, quindi sfrutta gli stranieri senza permesso di soggiorno e accetta di costruire la palazzina in tempi impossibili anche se sa che questo avrà inevitabili ripercussioni sulla qualità del lavoro. Mi chiedo se e quanto tutto ciò rispecchi reali comportamenti diffusi nella società…
S.S. Be’, per quanto ne so, direi che le cose non sono così nette. Certo, il film sottolinea alcune storture evidenti nella situazione attuale degli affari, e fa capire come sia la condizione di necessità a spingere il protagonista ad assumere quei comportamenti che tu definivi moralmente “disinvolti”. Però mi pare che il messaggio che emerge dal film sia più complesso e sofisticato. Non c’è mai nessuno nel film completamente buono o completamente cattivo. Il protagonista – è vero – strizza l’occhio al malaffare, ma poi ha momenti di buoni sentimenti e di civiltà. Lo spacciatore interpretato da Zingaretti è in realtà un disabile. Il personaggio di Bova è – come dire – un seduttore casto. Sono tutti ossimori viventi. Per quanto siano spregiudicati, poi hanno improvvisi ravvedimenti e rimorsi di coscienza. Lo stesso Claudio, quando va con la prostituta, ha quasi un atteggiamento di redenzione. Una parte del suo comportamento smentisce o corregge l’altra parte. Questo mi sembra interessante e molto contemporaneo.
G.C. Sarà, ma a me questa lettura fa venire in mente il “ma-anchismo” di veltroniana memoria. E la voglia di tenere insieme il diavolo e l’acquasanta…
S.S. Non direi. Il fatto è che la società attuale è molto più piena di paradossi di quella precedente. Il “ma anche” che evocavi tu, in fondo, non è che la traduzione popolare dell’et…et… – cioè della logica inclusiva – con cui il postmoderno ha sostituito l’aut…aut … – disgiuntivo e inconciliabile – delle organizzazioni del secolo scorso.
G.C. Certo. Nel nuovo secolo, invece, ci sono – come si vede nel film – dei problem solving come i cottimisti di Frosinone, che arrivano in cantiere in Mercedes, fanno quello che i lavoratori extracomunitari non sono capaci di fare, vogliono essere pagati in nero e garantiscono che con loro non ci saranno problemi di tipo sindacale…
S.S. È vero. Il film di Luchetti sa mostrare le falle che si aprono in un sistema di regole quando il sistema stesso è sottoposto a pressioni e difficoltà. Bisogna anche tener conto che la vicenda si svolge in un comparto industriale molto particolare come l’edilizia, dove è più facile che in altri settori diventare imprenditore perché ci sono meno barriere in entrata.
G.C. Vuoi dire che qualunque capomastro può diventare Ligresti? Mi piace. A patto di decidere prima se è una minaccia o un’opportunità…